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Parte seconda “VA’, VENDI I TUOI BENI E SEGUIMI” (1723-1732) 19. - IN MISSIONE AL DI LA’ DI EBOLI (1727-1730) |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
19. - IN MISSIONE AL DI LA’ DI EBOLI
Le missioni: Alfonso vi si era impegnato nel corso di alcune campagne durante gli studi seminaristici: catechismo ai ragazzi, visite animazione 1 ; dopo l’ordinazione l’ex-avvocato era subito diventato uno dei più autorevoli e attivi missionari della cattedrale, ora era afferrato sempre più dalle missioni popolari: tempo, cuore, forze; ancora non lo sapeva, ma stava per passare ad esse totalmente, per tutta la vita, come un fiume che si getta nel mare.
È perciò indispensabile collocare questo apostolato nel mistero e nella storia della Chiesa, cominciando dall’alto, non senza motivo:
“(Dio) prima nel testamento vecchio mandò i profeti a predicare la legge; e nel nuovo mandò il suo medesimo Figlio ad insegnarci la nuova legge di grazia, ch’è stata dell’antica la perfezione e il compimento: Novissime diebus istis locutus est nobis in Filio (Ebr. 1, 2).
Ma perché Gesù Cristo fu mandato a predicare alla sola Giudea egli poi destinò gli apostoli che dopo la sua morte andassero a predicare il vangelo a tutte le genti: Euntes in mundum universum praedicate evangelium omni creaturae (Mc. 16, 15). E così dalle missioni degli apostoli il vangelo cominciò a fruttificare per tutto il mondo, come attestò san Paolo fin da’ suoi tempi: In universo mundo est et fructificat et crescit (Col. 1, 6). Gli apostoli poi mandarono i loro discepoli a propagar la fede nelle altre parti dove essi non avean potuto giungere. E così successivamente da tempo in tempo da’ sommi pontefici e dagli altri vescovi sono stati mandati altri santi operai a predicare il vangelo in diversi regni, come sappiamo dalla storia ecclesiastica”.
Da quale documento del Vaticano II è tratta questa citazione, da Lumen gentium, 17 o da Ad gentes, 5? Più semplicemente dalla Lettera II di Alfonso ad un vescovo novello ove si tratta del grand’utile spirituale, che recano a’ popoli le sante missioni. Appare evidente che egli non le considerava un accessorio per la pastorale o un lusso per parrocchie in clima di cristianità, facendole invece risalire, al pari del ministero ordinario, alla missione degli apostoli e di qui a quella di
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Gesù Cristo, mandato e mandante. Quindi, incrociando volutamente in uno stesso intreccio missioni ai pagani e missioni in terra cristiana, sorvolava su dodici secoli per arrivare ai “nostri tempi”
“ Nel secolo poi XIII furono spediti dal papa i religiosi di san Domenico, e di san Francesco alla Grecia, Armenia, Etiopia Tartaria e Norvegia... Finalmente negli ultimi tempi sappiamo già le copiose conversioni de’ popoli nell’Indie orientali e nel Giappone per mezzo di san Francesco Saverio, nell’Indie occidentali per mezzo di san Ludovico Beltrando. Lascio poi di nominare tante provincie d’infedeli e di eretici convertite dai missionari, come specialmente fu la provincia dello Sciable (Chablais), ove fu mandato san Francesco di Sales, che vi convertì 72 mila eretici. Sappiamo ancora che san Vincenzo de’ Paoli istituì una congregazione approvata dalla Sede apostolica di sacerdoti che fossero impiegati a far missioni per tutti i luoghi ove son chiamati, che perciò sono appellati i padri della missione. Insomma in tutte le parti del mondo ove si è piantata la fede o si è fatta riforma de’ costumi, tutto è succeduto per mezzo delle missioni ” 2.
La preistoria delle missioni popolari risale infatti all’inizio del XIII secolo, quando la predica in lingua volgare, benché ancora tutta infarcita di latino, iniziò la sua carriera e la cristianità fu animata da un profondo movimento di riforma evangelica e di zelo missionario. Nel 1215 il concilio Lateranense IV dava questa norma nel canone 10: “Non di solo pane vive l’uomo... Ordiniamo perciò che i vescovi assumano uomini validi nelle opere e nelle parole, capaci di compiere in maniera salutare l’ufficio della santa predicazione, che, visitando con sollecitudine le popolazioni loro affidate, quando personalmente essi non possono farlo, le edifichino con la parola e con l’esempio... uomini capaci, assunti dai vescovi come coadiutori e cooperatori non solo nella predicazione ma anche nell’ascolto delle confessioni e nell’ingiunzione delle penitenze e nelle altre cose che riguardano la salute delle anime. Se qualche vescovo fosse negligente nell’adempiere questo dovere, sia punito in maniera rigorosa”.
Francesco d’Assisi e Domenico di Guzman, presenti a questo concilio, nei loro “Frati Minori” e “Frati Predicatori” crearono un nuovo tipo di religiosi i quali, invece di ritirarsi dal mondo come i monaci classici, si dedicavano a un intenso lavoro per la salvezza degli uomini con l’esempio, la predicazione e la confessione, e rifiutando la sicurezza economica assicurata ai monasteri dal regime feudale, vivevano di elemosine. Furono i primi Ordini missionari a darsi all’evangelizzazione: dei Marocchini, dei Guineiani, degli Egiziani, dei Turchi, dei Mongoli, dei Tartari... in terre lontane; più vicino: degli eretici e degli scismatici; all’interno: di quei cattolici la cui vita di fede aveva lasciato il posto al peccato o quanto meno all’indifferenza e alla tiepidezza.
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Con gli Ordini mendicanti la predicazione e la confessione straordinaria divennero istituzione del ministero pastorale, con la caratteristica di un intervento temporaneo ma intenso, con l’obiettivo della conversione dei costumi e con un’articolazione progressivamente abbozzata dalla genialità apostolica di Vincenzo Ferreri (1350?-1419), Bernardino da Siena (1380-1444) e Giovanni da Capistrano (1386-1456).
Il più grande di tutti fu il domenicano Vincenzo Ferreri, che. “Legato Pontificio”, percorse per vent’anni la Spagna, la Francia, L’Italia settentrionale, la Svizzera, atteso come il messia, accolto con i suoi compagni processionalmente dalle popolazioni, autorità e clero in testa. Uragano di eloquenza sul peccato, la penitenza, la morte, L’inferno, il giudizio finale, implacabile contro il male, era però tanto misericordioso per il peccatore da avere alle calcagne l’inquisitore Eymeric, avendo osato sostenere la probabile salvezza di Giuda. A sera aveva luogo la processione dei penitenti e dei “flagellanti”, che a piedi nudi, volti incapucciati, spalle scoperte, si battevano con corde o cinture, mentre un canto della passione copriva il rumore dei colpi, come di pioggia a dirotto. Dopo un breve riposo, Vincenzo e i suoi collaboratori ascoltavano le confessioni, poi con grande solennità cantavano la messa. Benché solo le città abbiano registrato nei loro archivi il passaggio folgorante dell’“angelo del giudizio”, questi però andava in cerca anche della pecorella sperduta, del gregge senza pastore, del piccolo gregge poco fedele o infedele. In due o tre giorni, raccolta tutta questa “biancheria sporca”, la bagnava, la insaponava, la strofinava, la candeggiava e la metteva ad asciugare al sole dardeggiante della misericordia divina.
Il movimento missionario di risveglio, perseguito per tre secoli in forme diverse secondo la particolare ispirazione dei frati mendicanti, si assestò e prese consistenza istituzionale nel XVI secolo, nel contesto della Controriforma, grazie a una nuova corrente di “vita apostolica”, i chierici regolari: “chierici” non monaci, perché destinati prima di tutto al ministero pastorale in mezzo al mondo; “regolari”, perché con voti solenni di castità, di povertà e di ubbidienza e con vita in comune. Mentre intorno tutto gridava: concilio, concilio, sorgevano questi chierici, grazie al soffio dello Spirito, dalla necessità di contenere la decadenza del clero e del popolo cristiano, di sbarrare la strada agli errori nei quali si stava smarrendo la fede, di ridare vigore allo svilito ministero della predicazione e dei sacramenti. Nacquero i Teatini (1524), i Barnabiti (1530), i Gesuiti (1539) e... il concilio di Trento (1545-1565), che daranno alla missione popolare una strategia ben precisa.
Pionieri furono i Gesuiti, con il P. Claudio Aquaviva (1543-1615), ex-provinciale di Napoli, generale della Compagnia dal 1581 al 1615,
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che tracciò le grandi linee direttive delle missioni 3, e con uno spagnolo, il P. Jeronimo Lopez (1589-1658), che vide ed elaborò il metodo concreto, espositivo e penitenziale, diffusosi nel napoletano, chiamato “metodo italiano” per il risalto che riceverà dal P. Paolo Segneri senior (1624-1694). I Gesuiti lo trapianteranno anche nei Paesi di lingua tedesca, nei quali si evolverà in maniera originale, secondo la genialità tedesca e i bisogni locali, con meno spettacolarità e più catechesi.
In Francia la missione popolare fu dominata dalla straordinaria personalità di san Vincenzo de’ Paoli (1581-1660) con i suoi Lazzaristi, seguiti ben presto dagli Oratoriani, dagli Eudisti (tutti preti secolari, cioè senza voti, ma in comunità) e dai Monfortani (religiosi dai voti semplici, che conservavano cioè la nuda proprietà dei beni, ma non l’uso ) .
Tutti i missionari, chierici regolari, sacerdoti secolari, Cappuccini (fondati nel 1525), semplici religiosi, tutti miravano alla difesa della fede e a un rinnovamento chiaro e durevole della vita battesimale, anche se gli spagnoli e gl’italiani si servivano maggiormente della commozione che converte e i francesi dell’istruzione che illumina, tutti portavano alla penitenza e ai sacramenti, perché con la confessione generale e l’indulgenza plenaria il cristiano ripartisse da zero per una vita nuova. Per tutti la parola di Dio era fondamentale e i temi delle prediche vertevano prioritariamente sulle verità eterne; per tutti parimenti la confessione generale di tutta la vita trascorsa costituiva la mira immediata: molti campagnoli, infatti, vivevano in situazione sacrilega, essendo i centri troppo piccoli e troppo conosciuti i confessori locali.
Invece i metodi divergevano in maniera sorprendente quanto alla durata della missione: generalmente sei giorni in Italia (si terminava in un paese la domenica per ricominciare in un altro vicino il lunedì); quindici in Germania; da due a quattro settimane nella penisola iberica; da tre giorni a tre mesi in Francia.
Per restare nel Regno di Napoli, i Gesuiti compresero ben presto i lati deboli delle missioni brevi, ma come resistere più di una settimana al loro metodo intensamente drammatico? Alcuni inventarono delle formule ingegnose per prolungare le missioni-lampo senza appesantirle troppo: una pre-missione durante la settimana precedente, con “uscite” processionali la sera nelle piazze e nelle strade più frequentate per annunziare, con poche parole “vigorose e come folgori del cielo”, la missione, la penitenza e l’indulgenza plenaria; una post-missione, dopo i sei giorni forti, con i missionari ancora sul posto fino ad una settimana per attendere i ritardatari e coloro ai quali era stata differita l’assoluzione, per dare gli esercizi spirituali al clero e ai religiosi e per visitare malati e prigionieri. Ma il più grande di questi Gesuiti missionari,
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Paolo Segneri senior, rimasto fedele ai sei giorni, lanciò il sistema della “missione centrale” rivolta alla parrocchia centrale di una forania e a quelle vicine: la predicazione del mattino veniva fatta in tutte le chiese satelliti, mentre tutti si portavano al centro per gli esercizi della sera, che ricompensavano ampiamente il “disturbo”, poiché duravano ben tre ore, all’aria aperta naturalmente dato l’enorme afflusso; il lunedì si partiva per un altro posto, non troppo distante, per lasciare ancora delle possibilità agli indecisi della precedente settimana.
Nel solco tracciato dalla Compagnia di Gesù, i migliori sacerdoti secolari napoletani si dedicarono alle missioni, unendosi in congregazioni, con o senza vita in comune, fondate nel corso del XVII secolo, da noi in parte già conosciute.
La prima fu quella dei Pii Operai, costituita a Napoli nel 1601 da Carlo Carafa (1561-1633), creazione originale che univa lo stato di prete secolare senza voti a tutte le esigenze della vita religiosa: vita comunitaria d’intensa preghiera (inclusa la recita notturna dell’ufficio divino), di divisione dei beni, di reale povertà e di un’austerità tale da affascinare gli animi coraggiosi. Il primo vescovo tra i suoi membri fu il P. Emilio Cavalieri, lo zio di Alfonso, e Tommaso Falcoia ne era uno dei capi. Anche se a S. Giorgio Maggiore, in Via Duomo, accoglievano e animavano numerose associazioni (sacerdoti, nobili, dottori, studenti, artisti, musicisti, commercianti, artigiani, giovani), restavano fedeli al fine primario di tenere missioni, brevi e ardenti, “per le città, i villaggi e i casali”.
Abbiamo già incontrato anche le tre principali congregazioni secolari senza vita in comune, votate alle missioni popolari, ad una delle quali i chierici napoletani dovevano aggregarsi per il tirocinio pastorale durante il seminario: quella del gesuita Francesco Pavone (1569-1637), fondata nel 1611, con il nome di Chierici dell’Assunta o anche di Padri della conferenza, che si irradierà nell’Europa occidentale e anche nelle Indie, quella posteriore di S. Maria della Purità, lanciata nel 1680 dal più prestigioso dei Pii Operai, Antonio Torres; quella infine delle Apostoliche Missioni, detta anche della cattedrale o di propaganda in forza della sua primitiva destinazione alle terre pagane, alla quale Alfonso diede intensamente cuore e lavoro 4.
Gli Illustrissimi della cattedrale invitati in tutta la parte continentale del Regno, erano all’altezza della loro reputazione. Abbiamo già seguito il nostro giovane missionario in partenza con loro per l’evangelizzazione di S. Agata dei Goti nel Natale 1725. Malgrado la vitalità degli scambi, la capitale e l’entroterra costituivano due realtà economiche, culturali e religiose profondamente diverse; per non citare che un esempio per noi essenziale, solo la metropoli e le diocesi circo-
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stanti (Ischia, Pozzuoli, Aversa, Nola) avevano beneficiato dello slancio impresso dal cardinale Innico Caracciolo, sanzionato e attuato dal concilio provinciale del 1699, permettendo a clero e fedeli (quali i pastori tale il gregge) una vera rinascita cristiana; anche Benevento - e quindi S. Agata dei Goti - ne avevano approfittato 5. Ora però Alfonso, al di là di quest’ambito, stava per fare la scoperta di un altro mondo e prima di tutto di quello dei viaggi.
Sl prendeva posto in una vettura postale (la diligenza) a due o quattro ruote, con cavalli per il cambio. Gli lllustrissimi avevano un loro treno di carrozze e di cavalli e certamente riposavano, bestie e persone, passando di convento in convento, dato che, per andare da Napoli fino all’estremità della Puglia, occorrevano otto giorni. E per quali strade, Dio mio! Una vettura che avesse fatto due volte l’andata e il ritorno era ridotta in mille pezzi. Strade di sole e di polvere, scavate dal lavorio più che millenario dei ferri dei cavalli e delle ruote dei carri sgangherati, spesso ombreggiate d’estate e rallegrate d’inverno dalle arance che punteggiavano d’oro gli alberi. Vi si incontravano raramente berline lussuose coi cocchieri in livrea; invece, povere famiglie, ammucchiate corpi e beni su vecchie carrozze gementi; carri di lavoratori, trainati da grandi buoi, con un’immagine della Madonna inchiodata sul timone; qualche furgone, nervosamente tirato da muli pretenziosi, che agitavano al vento criniera e sonagli, veloci corrieri a cavallo con la testa avvolta dalla reticella alla spagnola; mandrie di asini, di capre e di pecore in transumanza con cani che abbaiavano ai loro garretti; grosse contadine, a piedi, con il velo o i capelli intrecciati, sottana corta dai colori vistosi, corsetto allacciato con nastri multicolori e lustrini per collana, sulla testa un enorme cesto in equilibrio e bambini nudi alle gonne; monaci scalzi, che tiravano per la briglia una mula restia, carica della questua del giorno (frutta, legumi, cereali); mendicanti dai piedi terrosi; pellegrini con il rosario in mano; soldati sballottolati in sgangherate carrette; squadre di gendarmi a cavallo. E da tutti per tutti, nell’oro del sole, una grande corrente di simpatia, paziente e affaticata: ciascuno era grato agli altri perché lo liberavano dall’isolamento propizio ai briganti. Si poteva scegliere il viaggio per mare, lungo la costa, che era meno oneroso, ma si correva il rischio di finire nelle galere barbaresche. All’interno, purtroppo, gli invasori avevano lasciato che i fiumi si riempissero di sabbia, tanto che il Volturno e l’Ofanto non erano più navigabili 6.
Queste strade in stato pietoso - quando ve ne erano - porteranno presto Alfonso a fare l’amara scoperta che gli Appennini avevano suddiviso l’Italia meridionale in tre strisce longitudinali, molto diverse nel rilievo, nelle colture e nelle popolazioni: a ovest, lungo il
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Tirreno, la Campania felix, da Montecassino al golfo di Policastro, con città ben radicate, circondate da frutteti e giardini (Capua, Caserta, Nola, Nocera dei Pagani, Salerno) e con pianure e colline dalle colture subtropicali (grano e orzo, vino e olive, frutta varia e abbondante) sul versante opposto, lungo l’Adriatico, la Puglia con il suo tappeto di fiorenti e varie colture intorno a Foggia, Andria, Bari, Taranto, Lecce: senza la galoppante demografia e la rapacità dei baroni, i contadini di queste due zone litoranee avrebbero avuto vita facile. Tra esse si incuneava, altrettanto larga e più lunga, la fascia tormentata dell’Appennino meridionale con la Lucania (o Basilicata), delimitata grosso modo ad ovest da Benevento, Avellino e Eboli e prolungata a nord dagli Abruzzi e a sud dalla Calabria. Lucania dal rilievo scosceso, luogo maledetto di montagne brulle e di colline grige, scavate dalla erosione; di fondovalli paludose, appestate dalla “mala aria”; di città appollaiate su picchi calcarei; di terre magre, avare di grano e di orzo, di olive e di riso; Lucania infine di magia: la magia lucana 7. “Cristo si è fermato a Eboli” diceva amaramente un vecchio proverbio locale ripreso e illustrato nel 1945 da Carlo Levi:
“Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia. Cristo non è arrivato, come non erano arrivati i romani, che presiedevano le grandi strade e non entravano fra i monti e nelle foreste, né i greci, che fiorirono sul mare di Metaponto e di Sibari... Nessuno ha toccato questa terra se non come un conquistatore o un nemico o un visitatore incomprensivo. Le stagioni scorrono sulla fatica contadina, oggi come tremila anni prima di Cristo: nessun messaggio umano o divino si è rivolto a questa povertà refrattaria. Parliamo un diverso linguaggio: la nostra lingua è qui incomprensibile. I grandi viaggiatori non sono andati al di là dei confini del proprio mondo; e hanno percorso i sentieri della propria anima e quelli del bene e del male, della moralità e della redenzione. Cristo è sceso nell’inferno sotterraneo del moralismo ebraico per romperne le porte nel tempo e sigillarle nell’eternità. Ma in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si è fermato a Eboli” 8.
Al di là di Eboli stentavano la vita i “dannati della terra” su morene irrigate e industrializzate ai tempi di Alfonso come a quelli di Abramo dove la sola risorsa era l’emigrazione. Nel 1982 il livello medio di vita del Mezzogiorno, soprattutto per la Basilicata e la Calabria, è ancora lontano da quello dell’Italia settentrionale.
Eppure, proprio in Lucania, lo stesso giorno del diaconato di Alfonso (6 aprile 1726) nacque il futuro redentorista san Gerardo Maiella,
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da un popolo di pastori, di analfabeti affamati e cenciosi, abitanti a volte in grotte (oh! Bethlem!), spesso in basse catapecchie di grezze pietre, di fango e paglia, nelle quali i ragazzi dormivano nelle stalle accanto all’asino, che poteva così riscaldare i più piccoli. A questi abbandonati dalla società e dalla Chiesa, che Alfonso ancora non conosceva, andrà in maniera prioritaria il suo cuore di missionario.
Che avrebbero detto i borghesi napoletani, ben provvisti e “illuminati”, che trattavano i contadini della Campania felix alle porte della capitale da “ ottentotti ” e da “cinesi”, alludendo proprio al collegio del P. Ripa? “Dovrebbesi, per Dio, scriveva uno di essi, pensare di proveder prima ben bene ai bisogni dei Cinesi paesani... Non vi ha plebe più barbara e più ignorante della nostra. E da che ciò, se non dal non esservi sufficiente quantità d’ecclesiastici operanti che insegnino ed istruischino?” 9.
Eppure gli ecclesiastici non mancavano nelle Due Sicilie, come scrive lo storico Pietro Colletta, con la sua penna antireligiosa e con una punta di esagerazione:
“Nel solo Stato di Napoli erano gli ecclesiastici intorno a 112.000, cioè, arcivescovi 22, vescovi 116, preti 56.500, frati 31.800, monache 23.600. E perciò in uno Stato di quattro milioni d’abitanti erano gli ecclesiastici nella popolazione come il 28 nel 1.000: eccesso dannevole alla morale perché di celibi, alla umanità perché troppi, alla industria e ricchezza pubblica perché oziosi. Nella sola città di Napoli se ne alimentavano 16.500” 10 .
E vero che Colletta ne “inventa” parecchi, ad esempio almeno 3.000 per la sola capitale, però resta il fatto che il Regno contava un numero di sacerdoti dieci volte superiore al suo bisogno, anche lasciando i monaci alla pura contemplazione.
Ma quali sacerdoti? In una operetta, della quale Alfonso dirà il più gran bene, il suo amico Don Giuseppe Iorio (1698-1788) denunzierà “l’orribil disordine che vi è nelle terre e città, nelle quali si veggono ove 30, ove 40, ove 50, ove 100 sacerdoti, e di questi neppure la decima parte attende allo spirito ed allo studio, e quantunque non siano forse la maggior parte scandalosi, si vede però chiaramente essere oziosi o tutti occupati agl’interessi delle loro case, e se tal volta assistono alla chiesa, lo fanno per puro interesse e senza niuna edificazione del popolo. Per non parlare degli scandali occulti” 11 .
Poveri sacerdoti: senza vocazione la maggior parte, senza formazione (le piccole diocesi non avevano seminario o sarebbe stato meglio non l’avessero avuto), senza cura d’anime, spesso senza risorse!
L’entrata in massa dei cadetti nel sacerdozio celibatario era un metodo “naturale” (?) di regolazione delle nascite, largamente praticato dall’Europa occidentale, mentre era specifica delle Due Sicilie la
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loro precarietà economica. Causa principale di questa situazione era il sistema, molto diffuso, delle chiese ricettizie parrocchie (clero e fedeli insieme) costituenti persone morali a livello sia economico che giuridico. Coloro che vi prestavano servizio vivevano del patrimonio comune (beni, rendite, decime), amministrato come un tutto indiviso: la “ricetta”; “patrono” ne era non il vescovo ma la città o la famiglia che aveva costituito il beneficio; non tenendo in mano i cordoni della borsa, il vescovo non poteva controllarne la gestione- è evidente - , né le nomine, né praticamente la pastorale. Tutti sanno che l’unico a “comandare” è il potere economico...
Non essendo infinita la “massa” da consumare, la maggior parte di questi patrimoni nutriva solo un numerus clausus, di bocche, reclutate per cooptazione e i soprannumerari, anche se della stessa città o famiglia, tanto più se stranieri, erano costretti a racimolare altrove la sussistenza: molti affamati e pochi eletti. Ai primi restavano solo i magri onorari di messe o di altri servizi religiosi e il ricorso a espedienti spesso un po’ squallidi, con la tentazione di mettere un po’ d’olio sull’insalata, sfruttando un basso devozionalismo e perfino facendo incetta di pratiche superstiziose in concorrenza con le streghe dei villaggi. La tenace sopravvivenza nelle campagne del Mezzogiorno di un sincretismo magico-religioso dipendeva, almeno in parte, dal sistema economico e sociale: la ricetta, assicurata o rifiutata, comandava tutta la pastorale e sempre a suo detrimento.
Che poteva fare il vescovo? Rifiutare l’ordinazione agli indegni, ma con quale “pendolo” discernere i buoni dai cattivi? Se almeno accanto ai vari avventurieri avesse potuto contare sul clero titolare! Ma il secolo XVIII, accanito anticurialista, considerava le chiese ricettizie come società laicali, perché i loro beni provenivano o da un comune o da una famiglia e le chiese ricettizie si comportavano da corpo laicale, dandosi propri sacerdoti con il solo assenso, forzato, del vescovo. Che potere amministrativo e pastorale restava a quest’ultimo? Pregare ed esortare, rifiutare l’ordinazione e darsi da fare con sospesioni e scomuniche. Clero ricettizio era sinonimo, per il pastore della diocesi di clero cavilloso, poco incline all’ubbidienza, in perpetuo ricorso ai re contro la sua autorità; per il popolo, di un corpo di funzionari attestato sui propri diritti, che calcolava il ministero come una rendita. Questa specializzazione in diritto economico e canonico non solo non lo rendeva né più edificante né più competente in teologia, ma anche, venendo dallo stesso ambiente ed essendo impegolato nelle stesse passioni, interessi e pregiudizi locali e familiari, gli faceva condividere, in misura più e meno grande, vizi, giochi e balli, che, come ne parla un vescovo, mettevano di fronte “L’uomini... Ii meno costumati e men prudenti, e le donne... Le men modeste e le men custodite dai loro, le
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meno brutte, se non sono belle, le più vivaci”, con in mezzo “ gli ecclesiastici, li quali han meno fatica, più ozio e commodo e più buona salute ” 12 . Pensateli poi al confessionale!
I vescovi zelanti riponevano tutte le loro speranze nelle missioni e nelle confessioni generali, ma che fatica !
Nel febbraio 1727, la prima missione dopo la sua ordinazione sacerdotale portò Alfonso e undici suoi confratelli sul litorale occidentale di Napoli a evangelizzare Posillipo 13, uno dei belvedere verso i quali la nobiltà napoletana indirizzava la passeggiata ogni sera con le sue carrozze e il suo dolce far niente. Alfonso, non ancora confessore, forse trovò il tempo di contemplare la danza delle bianche vele, nell’ansa del golfo alla luce del sole al tramonto e la monastica altura di Camaldoli, con il suo ciuffo d’alberi, e sullo sfondo il Vesuvio e gli Appennini marrone dorato.
Poi, in maggio, i missionari della Propaganda partirono in quattordici per l’entroterra, avviandosi con il loro piccolo treno di vetture traballanti in direzione sud-est sulla via regia, verso Nocera dei Pagani Salerno, Eboli... Caggiano. Qui erano in piena “Cina napoletana”, nel cuore della scoscesa diocesi di Campagna, piccola sede vescovile di 3.938 abitanti, incassata in una gola montagnosa: un seminario senza seminaristi, ridotto a scuola elementare mista per coloro che venivano da fuori, e tuttavia un clero pletorico come altrove, ma ignorante, parassita, giocatore, bevitore, vizioso, venditore di sacramenti e di sortilegi; come aiuto: dei frati scansafatiche, poco familiari della scienza e della pietà, scelti in fondo al paniere dai loro padri provinciali di Napoli per quei paesi “arretrati”; una popolazione in armonia con il suo clero: rapacità della natura e dei baroni unite insieme, aridità della terra, magrezza degli uomini, degli asini e delle capre, un gregge umano ignorante al pari delle sue bestie, dal momento che catechismi, missioni e prediche passavano al di sopra delle sue montagne. Da tutto questo scaturiva più che una fede cristiana una religiosità magica, per la quale Satana occupava il primo posto, poi la Madonna, poi Dio, in una rinascita dell’ancestrale paganesimo 14.
Non sappiamo se Alfonso venne assegnato alla città episcopale o inviato in qualche altro centro della diocesi: Caggiano, Pietrafesa, Satriano, Salvia, S. Angelo le Fratte, però certamente fece la sua prima sconvolgente esperienza del mondo, a lui finora sconosciuto, degli abbandonati. Due anni prima, S. Agata dei Goti nella Campania felix non gli aveva causato un tale shock, ora invece, sacerdote ma non ancora confessore, ebbe tutto il tempo per riflettere, ascoltare, cercare di comprendere quei “sottosviluppati” economicamente e culturalmente,
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quei dimenticati che dicevano di se stessi: “Noi non siamo uomini non siamo cristiani: Cristo si è fermato a Eboli ”.
Campagna era a metà strada per l’Adriatico e una parte almeno del gruppo apostolico si portò poi nel barese, cosicché secondo Kuntz Alfonso si trovò il 20 maggio a Terlizzi (6.000 abitanti), diocesi di Giovinazzo. Le corrispondenti pagine del Giornale delle Apostoliche Missioni sono scomparse dal volume 1726-1727; il seguente comincia con l’elezione, il 7 luglio 1727, a superiore annuale del canonico Gizzio. il caro zio, rieletto anche nei due anni seguenti.
Nell’autunno 1727 la consueta missione annuale a Napoli venne fatta in cattedrale da cinquantasei fratelli e Alfonso, durante tutta la settimana dal 25 ottobre al 3 novembre, tenne al popolo una mezz’ora di meditazione ogni mattina sui fini ultimi, come voleva la Regola.
Pochi giorni prima, il Vesuvio aveva terrorizzato e devastato i piccoli centri che alle sue falde coltivavano e bevevano lo sciropposo Lacryma Christi: una pre-missione quale gli stessi Gesuiti non potevano permettersi! Perciò, nell’attesa che alle pendici del basso vulcano riprendessero a vivere i vigneti e, nutrendosi delle sue ceneri, lo rivestissero di pampini e di pergolati, gruppi di missionari della cattedrale (Alfonso fece parte di ognuno di essi) portarono predicazione e assoluzioni alle popolazioni maggiormente colpite: Boscotrecase (3.000 abitanti) nell’ultima settimana del novembre 1727, Pollena (1.200 ab.) all’inizio del gennaio 1728; Ercolano (2.000 ab.) a partire dal 16 dello stesso mese 15.
L’inizio del 1728 segnò per l’Italia l’apertura dell’anno giubilare proclamato da Benedetto XIII e, nel clima straordinario di conversione il P. de Liguori fece i primi passi di missionario-confessore durante le missioni di gennaio; mancò invece alle spedizioni di febbraio e di aprile, perché lasciato dal superiore, lo zio Pietro Marco Gizzio, alle quarantore, ai ritiri e alle Cappelle, dove il suo confessionale fu subito affollato. Non si rifiutava mai al duro lavoro delle missioni.
“Mi attesta, nota Tannoia, il sacerdote D. Cammillo Mastroalleva Segretario della medesima Congregazione, non aver ritrovato, rivoltando li vecchi registri, come ritrovansi altri rubricati, che Alfonso si fosse una volta scusato per qualche impiego addossato, e non eseguito. Gode questa Congregazione dell’Apostoliche Missioni una pingue Cappellania giornale, lasciata con patto dal Testatore di non darsi, che all’Operario più indefesso, che vi fusse tra Fratelli. Era in tal idea Alfonso, ancorché di fresco asceso al Sacerdozio, e forse l’ultimo tra Congregati, che non esitarono quei degnissimi Fratelli investirne la di lui persona” 16 .
Questa fondazione costituiva un beneficio semplice, cioè senza
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cura d’anime, e assicurava al suo titolare di che vivere con la sola incombenza di celebrare o di far celebrare la messa ogni giorno.
Non possiamo parlare delle missioni di Alfonso dal luglio 1728 al luglio 1729, perché il relativo Giornale è andato perduto.
Frattanto era emigrato al Collegio dei Cinesi. La missione di tutti i santi allo Spirito Santo lo tenne occupato la mattina, lasciandolo libero la sera per le sue Cappelle. Subito dopo la città fu devastata da un’epidemia e i preti della cattedrale (Alfonso “più di ogni altro”17 si moltiplicarono al capezzale dei malati. Tutte le missioni furono rimandate a più tardi.
Il 1730 si apriva perciò con il peso di un surmenage appena terminato e la prospettiva delle numerose missioni rimandate. Sabato 14 gennaio, i fedeli dello Spirito Santo a Marano di Napoli (5.000 ab.) ebbero occhi solo per l’abito liso del Liguori: “Guarda il missionario straccione! Se le sue prediche stanno insieme come la sua sottana, poveri noi!”. Lo giudicheranno di persona, perché su di lui cadde l’onere della meditazione del mattino, dell’istruzione del pomeriggio e delle confessioni, delle confessioni... Missione fervorosissima, prolungata di otto giorni: dipese da Alfonso il cui senso pastorale cominciava già a imporsi? Domenica 29, per poter accogliere tutti, ognuna delle due parrocchie di Marano organizzò due prediche di chiusura, ma quattro volte le chiese furono costrette a lasciare fuori parte della folla. Due soli giorni per respirare e cambiare la biancheria e si puntò sul vicino centro di Casoria (4.000 ab.) alla periferia nord della capitale. In ognuna di queste missioni, la compagnia apostolica fu di dodici fratelli.
Sabato 22 aprile, iniziò una nuova campagna sul promontorio di Capodimonte, “panorama forse unico al mondo” scriverà Stendhal. Nella chiesa arcipresbiterale il più giovane dei tredici missionari (aveva solo tre anni e quattro mesi di sacerdozio), il P. de Liguori, ricevette la suprema consacrazione, concessa solo alla competenza e all’eloquenza affermata: fu lui ad assicurare ogni sera la “ predica grande ” di un’ora e un quarto. Terminò domenica 30 e raggiunse i 17 confratelli impegnati nella missione al monastero dell’Annunziata (monache, ospedale, orfanotrofio con nido per neonati abbandonati, conservatorio per ragazze e donne nubili, rifugio per pentite), ma fu vinto da quest’ultimo sforzo .
“Fu tale e tanto lo strapazzo di se medesimo, che, non reggendogli le forze, si vide attaccato ne’ polmoni anche con fistole, ed altri ascessi marciosi. Per un mese e più si tenne in forse della vita: e se fu salvo, come mi attestò il medesimo P. Fatigati, non fu che evidente miracolo di Maria SS.” 18.
La Madonna lo aspettava nella sua umile cappella alpestre di S. Maria dei Monti, in mezzo ai pascoli che dominavano Scala.