Theodule Rey-Mermet
Il santo del secolo dei lumi
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Parte seconda “VA’, VENDI I TUOI BENI E SEGUIMI” (1723-1732)

20. - IN MISSIONE A SCALA (1730)

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20. - IN MISSIONE A SCALA

(1730)

 

I medici mandarono il giovane a ritemprarsi sulle alture di Scala e di Ravello e la sua vettura, lungo la ripida scogliera, seguì lo stretto nastro della strada panoramica che collegava Sorrento a Salerno, a picco sull’azzurro trasparente del mare. Sposando la fantasia della “divina scogliera” - capi e fiordi in miniatura - , cambiava il colpo d’occhio ad ognuno dei suoi mille contorni.

“La strada è tanto bella che, quella mattina, non mi sarei augurato di veder nulla di meglio al mondo. La calda asprezza della roccia, la ricchezza dell’aria, gli odori, il nitore, tutto mi riempiva delL’adorabile incanto di vivere”.

Ad Amalfi, la strada quasi sfiorava l’acqua e il tiro non poté portare oltre il convalescente; lasciata la costa riguadagnò, a piedi o a dorso di mulo, le alture offerte dai Monti Lattari: a destra, la groppa sulla quale Ravello domina il mare; a sinistra, le terrazze sulle quali è scaglionata Scala; in mezzo, la stretta valle del Dragone inerpicantesi verso entrambe.

Pochi giorni di sosta per deliziarsi del panorama e abituarsi all’altezza di quei balconi a tre-quattrocento metri, poi il gusto delL’esplorazione prese il sopravvento:

“Sopra Ravello, la montagna continua. Olivi, carrubi enormi e alla loro ombra, i ciclamini; più su castagni fitti, L’aria fresca delle piante del nord; più giù limoni, vicino al mare. Sono disposti a piccole chiazze, giardini a scale, quasi tutte uguali, formate dalla pendenza del suolo”.

Lo tentavano soprattutto le scalate.

“L’aria più frizzante, il fascino delle rocce piene d’anfratti e di sorprese, la profondità sconosciuta delle valli si aggiunsero alla mia forza, alla mia allegria, rinnovarono slancio, ardore”.

Lo slancio verso la robustezza, ma, ancor più, quello verso un essere nuovo: lo slancio del bruco che diventa farfalla:

“ Così non ero più l’essere malaticcio e Pedante, cui si addiceva

 

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la mia morale precedente, tanto rigida, ristretta. Non si trattava d’una semplice convalescenza: ma d’un accrescersi, d’un rinfocolarsi di vita. l’afflusso d’un sangue maggiormente ricco e caldo che doveva toccare i miti pensieri, uno a uno, penetrare tutto, smuovere, colorire le più remote, delicate e segrete mie fibre...

Per colui che è stato sfiorato dall’ala della morte, non riveste più la minima importanza quello che una volta era capitale; altre cose son diventate essenziali, cose che un tempo non apparivano davvero degne d’attenzione, cose di cui, anzi, un tempo si ignorava persino l’esistenza. Il cumulo delle cognizioni acquisite, che pesava sul nostro spirito, si squama come una vernice e in certi punti lascia vedere a nudo la carne, L’essere autentico che era nascosto... Correvo sulla scarpata... gridando, per chiamarlo in me: Un nuovo essere! un nuovo essere!”.

 

Sono appunti stralciati dal diario intimo di Alfonso? Avremmo potuto farlo credere. Si tratta invece di André Gide, che ne L’immoraliste 1 sotto il velo trasparente del romanzo, narra come su quei pendii rocciosi, nel corso di una convalescenza nel 1890, si era convertito a un nuovo amore della vita, vedendo nascere in lui un essere nuovo. Era però un essere pagano: “il vecchio uomo, quello che il Vangelo non voleva più”.

“A dire il vero, non pensavo per nulla, allora, né mi facevo esami di coscienza; una felice fatalità mi guidava. Temevo che uno sguardo troppo frettoloso venisse a disturbare il mistero della mia lenta metamorfosi... Lasciando dunque la mia mente non in abbandono rna in riposo, fui con voluttà me stesso, le cose, il tutto, e mi parve divino. ..

Il mio unico sforzo, sforzo costante allora, era dunque sistematicamente condannare o sopprimere quanto credevo originato soltanto dalla mia educazione passata e dalla mia prima morale”.

Così André Gide parla anche di “una limpida sorgente” che ricadeva in una cascatascavando, sotto, un bacino più profondo ove l’acqua purissima era trattenuta”. In questo battistero dal “fondo levigato, su cui non si scorgeva né un segno né un’erba”, si era tuffato “ di colpo ”, come per rinascere guarito dalla sua malattia e insieme dalla “morale precedente, tanto rigida, ristretta”, dovuta alla madre e al suo puritanesimo di camisardo.

 

Un altro uomo di trentaquattro anni era venuto precedentemente a cercare la salute a Scala e Ravello, luoghi meravigliosi dei quali è stato detto che per chi vi abita entrare in cielo è un giorno come tanti altri. Nel 1730 Alfonso de Liguori visse anche lui , con la guarigione, la nascita in lui di un essere nuovo, la caduta definitiva di ciò che

 

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ancora poteva restare in lui delle convinzioni acquisite a Napoli su garanzia di “libri, maestri, genitori”. dove Gide, scoprendo che l’uomo è libertà, cercò di “sopprimere - come scrisse - quanto credevo originato soltanto dalla mia educazione passata e dalla mia prima morale”, il Liguori, al contatto e in forza dell’amore dei poveri, andò avanti nell’intuizione di una morale respirabile come l’aria di quelle montagne, evitando in pari modo lassismo e giansenismo.

Mistero del cuore, mistero dello sguardo su uno stesso quadro, su uno stesso ambiente... Invece di appartarsi su “rocce chiazzate d’erba e di muschio, lontano dall’abitato e dalla strada”, Alfonso ebbe occhi, orecchie e lingua solo per gli abitanti di quei luoghi appartati, decidendo di votare tutta la sua vita in loro aiuto. Invece Gide non visse che nella sua pelle, tutt’al più alla sua superficie: “il mio sangue maggiormente ricco e caldo”, il mio corpo da fortificare, abbronzare strofinare con la menta odorosa, la mia sete da soddisfare con il gusto dolce o acre dei limoni, la mia respirazione, la mia traspirazione, la mia temperatura, la mia barba da radere, i miei capelli da far crescere... “Mi vedevo magro, scolorito... Mi guardai a lungo... Mi trovavo quasi bello... Tutto il mio essere affluiva verso la pelle”.

“Ecco quanto la nuova mia personalità, ancora inattiva trovava da fare. Pensavo che da questa nuova personalità sarebbero nati atti capaci di sbalordir me per primo; ma più tardi, col tempo, mi dicevo, quando la personalità sarà più formata”.

Decisamente il “divinoincontrato da Alfonso in questo paese tra cielo e terra era di sostanza essenzialmente contraria: invece di una “ naturaeretta in assoluto (il “vecchio uomo”), suscitò in lui una crescita straordinaria del “nuovo uomo”, quello plasmato dal Vangelo e la cui parola d’ordine sarà: “Dio mi ha mandato ad annunziare la buona novella ai poveri”. E senza un minuto da perdere, perché i poveri non hanno il tempo per aspettare!

 

La missione napoletana all’Annunziata si era chiusa il 7 maggio 1730 e Alfonso, rimasto sfinito da quest’ultimo sforzo, fece temere per la sua vita “per un mese e più”, scrive Tannoia sulla testimonianza de] P. Gennaro Fatigati. Esagerazione dovuta a un ricordo deformato dal tempo? Fatto sta che il malato poté partire per la cura, pur lasciando dietro di sé ancora gravi timori.

A chi era stato in punto di morte, era indispensabile una convalescenza: i sacerdoti del gruppo delle Cappelle serotine, che l’amavano di più, L’avevano deciso e l’avrebbero accompagnato, spinti certamente da Ripa che teneva al suo cappellano del Collegio dei Cinesi. Ad animare le Cappelle sarebbe rimasto Gennaro Sarnelli. Ma dove andare?

Don Giuseppe Panza di Amalfi conosceva, sulla cresta che domi-

 

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nava Minori, L’eremitaggio di S. Nicola, che avrebbe potuto offrire quiete, aria di montagna e splendida vista sulla baia amalfitana. Al più tardi verso la metà di maggio, Alfonso, circondato affettuosamente da G. Panza, G. Mazzini, V. Mannarini, G. Iorio e G. Porpora, prese posto su un veliero per la piccola crociera di circa 60 chilometri che lo avrebbe portato ad Amalfi 2 , Addio Napoli! Addio Vesuvio con il suo pennacchio!... A sinistra, a due leghe di distanza, ecco ben presto Castellamare di Stabia e la sua ansa sulfurea (“Corre voce che il P. Falcoia ne è stato nominato vescovo!”); poi lo splendore di Sorrento e della vicinissima Capri, luoghi d’estasi (“Ma che ha questo mare per sedurci tanto?”); infine, superata la Bocca Piccola tra Capri e Punta della Campanella, un golfo di Salerno di pessimo umore. C’era tanto vento da rischiare di fracassarsi contro i piedi rocciosi dei Monti Lattari: impossibile accostare ad Amalfi. I nostri viaggiatori riuscirono a sbarcare cinque chilometri più lontano, nella baia più riparata di Minori, proprio dove, in alto, li attendeva l’eremitaggio di S. Nicola; come sacerdoti però erano tenuti a presentarsi all’autorità ecclesiastica, per cui, ristoratisi il tempo necessario a lasciar calmare il mare, fecero vela verso Amalfi.

Capitale dal IX secolo di una fiorente repubblica marinara, rivale di Genova e di Pisa, Amalfi sarebbe stata solo l’ombra di se stessa, se, inondata di sole e di bellezza, avesse potuto ridursi a ombra. Mentre i nostri villeggianti chiacchieravano amichevolmente con l’arcivescovo Mons. Michele Bologna 3, sopraggiunse Don Matteo Angelo Criscuolo, vicario generale di Scala, che dopo le presentazioni si informò:

- A che dobbiamo la gioia di vedervi nei nostri paraggi?... Andate a cercare rifugio sopra Minori? Ma no! Perché non venirvene a S. Maria de’ Monti sopra Scala? V’è un Romitaggio con sufficiente abitazione; potreste sollevarvi, ed anche far del bene a tanti poveri caprai, che vi dimorano, e vivono abbandonati; ed io vi do ogni mia facoltà e giurisdizione.

Eremitaggio per eremitaggio! Soprattutto, pensò Alfonso, se c’era “L’occasione di poter far del bene a que’ poveri campagnuoli4.

Presero allora la salita del Dragone, deviando a sinistra verso Scala, su una pendenza di 45 gradi, lungo una vera scalinata attraverso terrazze di limoni e di pergolati. La piccola città si trovava però solo a un quarto del cammino; più su, sentieri scoscesi e sassosi, ombreggiati da faggi e castagni, portavano, a 1.080 metri, tra il Cervigliano (1.204 m.) e il Ceretto (1.306 m.), su bei prati alpestri. Trovarono al suo posto il cappellano Carmine Sammarco? Non sappiamo, ma certamente, nella sua piccola chiesa con tre altari, la Madonna dei Monti 5, un edificio di pietre a un solo piano con cinque o sei camere e, intorno,

 

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un vasto prato ondulato con le mille specie di erbe fini che solo la montagna sa tessere m primavera.

Trascorsa serenamente la notte, prima gioia dei nostri villeggianti fu celebrare l’ufficio divino e l’Eucaristia e intronizzare il Signore nel piccolo santuario, poi la scoperta del luogo: la piccola catena dei Monti Lattari, promontorio incuneato tra due golfi, con alle spalle la pianura del Sarno, offre un sorprendente belvedere su orizzonti tra i più vasti del mondo.

Però, più che gli Appennini o il Mediterraneo, lo sguardo di Alfonso cercava gli uomini e scoprì su queste montagne come un pezzo di Lucania: “Tanti poveri caprai vi dimorano abbandonati” aveva detto il vicario generale. Erano pastori in transumanza su quegli alpeggi da maggio a ottobre o “ cafoni ” del posto, che vi stentavano la vita tra pascoli e boschi l’estate come l’inverno? Sappiamo che le capre arrivano a contentarsi di licheni, di foglie secche, di scorze e di arboscelli, anche se allora la primavera le inebriava con le sue erbe meravigliose, ma i loro proprietari, per dodici mesi l’anno, erano affamati spiritualmente .

Fattosi noto il loro arrivo, racconta Tannoia, si videro subito accerchiati i Missionarj da Pastori, e Capraj, e da altra gente, che dispersa se ne stava per quelle campagne. Non è credibile quanto questo concorso fosse di consolazione ad Alfonso. Così egli, con i suoi compagni si mise a catechizzare quei contadini, ed a ricevere con tutta carità le confessioni. Dandosi quei Pastori l’un l’altro la voce, vi concorse altra gente; e riuscì la villeggiatura per i Missionarj una continuata, ma fruttuosa Missione.

Fu questa l’occasione, e così Iddio fe’ conoscere ad Alfonso il gran bisogno spirituale, che si soffre dalle tante Anime, che prive de’ Sacramenti e della Divina parola, abbandonati marciscono per le campagne, e Paesetti rurali. Raccontava ei medesimo, che buona parte di quei contadini vivevano all’intutto dimentichi di Dio; e quello ch’è più, perché lontani da’ Paesi, ignoranti ancora delle cose più necessarie; anzi tanti e tanti non si potevano abilitare alla Confessione, se prima non s’istruivano, e dirozzavansi ne’ primi rudimenti della Fede”.

La sconvolgente scoperta fatta al di d’Eboli non costituiva allora una lamentevole eccezione, perché l’abbandono era la situazione in cui vivevano le popolazioni delle campagne, mentre le città soffocavano per i troppi sacerdoti oziosi...

 

Scala seppe subito della presenza di Alfonso de Liguori sui pascoli alti e i notabili, cominciando dal vescovo, vollero vederlo e ascoltarlo. L’eminente Don Nicola Guerriero (1667-1732), che aveva tempo addietro fondato e animato nella capitale un’accademia di scienze eccle-

 

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siastiche e, avvocato arcivescovile e della nunziatura, aveva stretto amicizia con il giovanissimo magistrato de Liguori 6 , era stato nel 1718 nominato vescovo di Scala e Ravello, diocesi create rispettivamente nel 987 e nel 1087, quando per la prosperità commerciale di Amalfi ognuna di queste due città contava quasi 40.000 abitanti.

La sola Scala, con le sue cento torri di difesa, custodiva centotrenta chiese, trenta parrocchie, due monasteri di Benedettine e altrettanti di Benedettini. Splendori da leggenda, incredibili oggi! Normanni, Pisani, Tedeschi, Angioini, Saraceni da una parte e dall’altra sismi, pestilenze, carestie e, colmo dell’orrore, rivalità intestine si scatenarono su questo eden, soprattutto nel luglio 1137, quando per tre giorni i Pisani vi portarono il ferro e il fuoco, con una forza distruttiva tale da suscitare (purtroppo!) L’ammirazione di san Bernardo: “È quasi incredibile - scriveva all’imperatore Lotario III - con un solo assalto hanno preso Amalfi, Ravello, Scala e Atrani, città ricchissime e fortificatissime e finora inespugnabili per tutti coloro che le hanno attaccate7. Tesori e abitanti furono portati via come bottino o in schiavitù . . .

Di Scala e Ravello restava nel 1730 solo qualche monumento prestigioso in un paesaggio paradisiaco, almeno questo imprendibile. Clemente XIII aveva gemellato nel 1603 le due diocesi, che insieme contavano circa tremila anime e le cui rendite riunite (311 ducati) facevano il loro vescovo il più povero del Regno, essendo molto al di sotto del minimo, stimato 1.500 ducati, per una vita decente 8, Mons. Guerriero, che salvaguardava la personalità delle chiese sorelle nominando per ognuna un vicario generale, risiedeva abitualmente a Ravello, più popolata, benché Scala fosse la più antica. Non va però dimenticato che al di sopra del vallone, i canonici avrebbero potuto alternare i versetti dei salmi da una cattedrale all’altra: bastava un quarto d’ora per percorrere a piedi la strada, che le collegava, intorno all’imbuto scavato dal Dragone 9 .

Felici di rivedersi dopo dodici anni e in situazioni tanto diverse (dove non porta il diritto canonico!), Liguori e Guerriero si gettarono l’uno nelle braccia dell’altro.

- Domenica prossima, venite a predicare nella cattedrale di Scala, disse il vescovo al giovane amico, saremo nell’ottava del Corpus Domini !

Quell’11 giugno fu per Scala come una missione. “ Amore folle di Gesù ostia, ingratitudine folle degli uomini ”: L’anima eucaristica di Alfonso ritrovava il suo tema delle quarantore, sempre lo stesso e sempre nuovo. L’uditorio scoppiò in singhiozzi, gemiti, grida, che arrivarono fino alle suore del Conservatorio della Concezione, duecento passi più in , le quali pretesero anch’esse una conferenza e Alfonso

 

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non seppe rifiutarsi a Mons. Guerriero. Aveva già sentito parlare del monastero da parte del P. Falcoia, che lo seguiva da dieci anni attraverso caotiche peripezie, e dell’intellighenzia napoletana, che si faceva beffe di una religiosa visionaria...

Né il vescovo né le monache avrebbero voluto lasciarlo ripatire:

- Tornate a settembre a predicare la solenne novena del Crocifisso, disse Mons. Guerriero; è un Crocifisso del XIII secolo, miracoloso, venerato nella cripta della cattedrale e caro agli abitanti delle costa e della montagna.

- Poi darete i santi esercizi al monastero, domandarono insieme vescovo e suore.

Promesse fatte. Alfonso si affrettò poi a risalire a S. Maria dei Monti, restandovi al massimo per una settimana, perché fu presente lunedì 19 all’assemblea delle Apostoliche Missioni, alla quale partecipò anche Gennaro Sarnelli, ricevuto come novizio quindici giorni prima. Il 3 luglio Alfonso prese parte all’elezione, che sostituì alla testa della congregazione lo zio Gizzio con il maestro Torni, rieletto poi nei tre anni successivi.

Trascorse a Napoli i mesi di luglio e agosto con i suoi “parrocchiani”, le sue Cappelle, i suoi penitenti, ma non era più lo stesso: non era ritornato del tutto da Scala.

“Non partì di certo col cuore da S. Maria de’ Monti, nota Tannoia, né si lasciò addietro i suoi diletti Pastori, e Caprari. Considerando il loro bisogno ne piangeva, e pregava Iddio a voler prescegliere tra figli di Abramo, chi fosse per interessarsi per loro bene”.

E se nessuno più degno di lui si fosse mosso, non era proprio questa la sua vocazione?

Al processo di canonizzazione, tre testimoni e non dei minori (i padri Andrea Villani, Domenico Corsano e Gaspare Caione) affermeranno che già a S. Maria dei Monti “venisse Egli ispirato a fondare una Congregazione di Missionari, il di cui Istituto fosse stato addetto a procurare la salute delle anime delli Paesi e Villaggi rustici, che stavano scarsi di ajuti spirituali”; e i tre pretenderanno averlo raccolto dalla sua bocca. Secondo Caione sarebbe anche ridisceso a Napolicolla nuova risoluzione di istituire una Congregazione di Missionari, tutta addetta alla coltura della gente più abbandonata della Campagna... Tutte queste cose io le intesi dalla propria bocca del Servo di Dio... ed io, uscito dalla stanza, subito il tutto notai in un foglio” .

Da queste testimonianze10 ineludibili emerge che già dal giugno 1730 si era fatta strada nello spirito di Alfonso l’idea di un nuovo istituto come un’urgenza della Chiesa e forse come un dovere personale. Il cuore e la coscienza gli facevano lo stesso discorso: non si potevano lasciare quei poveri nel loro abbandono. Era la voce dello Spirito di Dio? Prima di qualsiasi confronto al riguardo con il Falcoia

 

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o con chiunque altro, Alfonso scese da Scala con la “nuova risoluzione” almeno di porre il problema al suo padre spirituale. Siamo alla sorgente pura della sua intuizione personale, come scrive il P. De Meulemeester:

Accetterà i suggerimenti d’altri spiriti illuminati, quali Falcoia, suor Crostarosa, il canonico Torni, per stabilire il programma di vita e le attività della sua famiglia religiosa, ma questi suggerimenti si distingueranno sempre dai suoi personali disegni, non mettendo, come invece egli fa, l’accento principale sul ministero in favore delle anime più sprovviste di aiuti spirituali. La menzione più esplicita di questo apostolato prioritario può perfino servire a volte da cartina di tornasole per scoprire tra i testi successivi delle regole la parte più o meno considerevole, di Alfonso nella loro elaborazione.

La redazione delle regole, che più tardi presenterà per l’approvazione della S. Sede e nella quale ha potuto liberarsi maggiormente dalle formule proposte precedentemente dal Falcoia, scolpirà la sua grande Intuizione personale con termini forti nello stesso frontespizio: "L’unico intento sarà di seguitare l’esempio del Nostro Salvatore Gesù Cristo in predicare a’ Poveri la Divina Parola, come egli già disse di se stesso: Evangelizare pauperibus misit me. E perciò i soggetti di questa Congregazione dipendentemente dall’ubbidienza agli Ordinari de’ Luoghi s’impiegheranno totalmente nell’andar aiutando la Gente sparsa per le Campagne e Paesi Rurali, specialmente quelli che sono più abbandonati di soccorsi spirituali colle Missioni, Istruzioni...”11 .

 

Tutto preso dai suoi pensieri, Alfonso trascorse dunque a Napoli l’estate del 1730 fino a lunedì 4 settembre, quando lo troviamo ancora all’assemblea degli lllustrissimi. L’indomani, con “il suo indivisibile amico D. Giovanni Mazzini”, salì a Scala per predicare in cattedrale la novena promessa dal 6 al 14 settembre, festa dell’esaltazione della Santa Croce, e poi dare gli esercizi spirituali al monastero della Concezione .

Il P. Falcoia aveva unito le sue istanze a quelle delle suore, perché accettasse di animare il ritiro di quella fragile comunità, della quale egli era il padre spirituale fin dal 1720. Nei primi mesi dell’anno precedente, durante una missione tenuta a Scala insieme al confratello Maurizio Filangieri, aveva trovato un piccolo conservatorio per donne e ragazze in rovina materialmente e moralmente; d’accordo con Mons. Guerriero e il capitolo della cattedrale s’era impegnato a rimetterlo su. I due Pii Operai s’erano diviso il lavoro secondo il carisma di ciascuno: Filangieri dei principi di Arianello, uomo pratico e facoltoso, aveva restaurato la chiesa e la casa, in parte con il suo stesso denaro; Falcoia, lo spirituale, aveva creato una comunità di Visitandine con giovani

 

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postulanti condotte da Napoli e. come superiora, un’anziana carmelitana, formata alla scuola di Serafina di Dio o di Capri (1621-1699), Caterina Schisano, di circa cinquantacinque anni, che prese il nome di suor Maria Giuseppa della Croce: un’anima buona, ma non una stella. Invano si era fatto pressione alla Visitazione di Napoli per ottenere l’affiliazione all’Ordine e una figlia della Chantal per formare le novizie: si era riusciti ad avere solo un esemplare delle regole e costituzioni. Ciò nonostante il 28 settembre 1721 aveva luogo la professione delle prime entrate e tre anni più tardi le “Visitandine”erano ventidue, per raggiungere ben presto la trentina 12 .

- Visitandine senza esserlo, si lamentavano, senza clausura; senza voti solenni, senza i privilegi dell’Ordine...

Fortunata libertà canonica, che permetterà di muoversi in piena libertà a Dio stesso! A Marigliano, vicino Nola, stava preparando il pollone di un Ordine nuovo, Maria Celeste Crostarosa.

 

 

 

 

 





p. 265
1 L’Immoraliste, Paris 1902, parti 1, VI e VII (trad. ital. di Oreste del Buono, Roma 1970).



p. 267
2 C. TANNOIA, 1, pp. 61-62; Summarium, p. 117, 125; “Analecta”, 3 (1924), p. 217.



3 Cf. SH 8 (1960), p. 427, N 43.



4 TANNOIA, I, p. 62; per il seguito del capitolo, cf. ibid, pp. 62-63.



5 SH 3 (1955), pp. 136-137; GREGORIO, Mons. T. Falcoia, p 142.



p. 269
6 Cf. TELLERIA, I, p. 136.



7 Patrologia Latina 182, n. 146, col. 295.



8 M ROSA, Riformatori e ribelli nel ‘700 religioso italiano, Bari; 1969, p. 130.



9 Cf.Analecta”, 9 (1930), pp. 314-315; Enciclopedia Italiana, Roma 1929-1961, “Ravello”; G. IMPERATO, Scala; “ S Alfonso ”, 14 ( 1943 ), pp. 53-54, 69-70.



p. 270
10 DE MEULEMEESTER, Origines de la Congrégazion du Très-Saint-Rédempteur, I, pp. 22-26.



p. 271
11 Ibid, p. 25.



p. 272
12 GREGORIO, op cit . pp. 133-143



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