Theodule Rey-Mermet
Il santo del secolo dei lumi
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Parte seconda “VA’, VENDI I TUOI BENI E SEGUIMI” (1723-1732)

21 - MARIA CELESTE CROSTAROSA (1730-1731)

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21 - MARIA CELESTE CROSTAROSA

(1730-1731)

 

Un mattino primaverile del 1718, la carrozza di Don Giuseppe Crostarosa, avvocato del foro napoletano, correva contro sole attraverso l’agro nolano, nella bruma azzurrina che si dissipava tra gli alberi in fiore, verso Marigliano, a venti chilometri dalla capitale, con quattro signore: Donna Paula Battista Crostarosa, una sua amica e due sue figlie Ursola di trent’anni e Giulia di quasi ventidue. Andavano a visitare suor Verdiana di Gesù, priora del conservatorio carmelitano della cittadina, donna di Dio. Non sappiamo se lungo la strada, Ursola parlasse dei suoi desideri di vita religiosa, Giulia invece era perduta in Dio, come racconterà ella stessa nella sua Autobiografia: non diceva niente, non sentiva niente, incantata da un altro Sole “e il Cielo pareva che piovesse sopra di me un fiume di amore”.

Al carmelo l’accoglienza non avrebbe potuto essere più calorosa, né la conversazione più gioviale. Ad un tratto però la superiora ebbe l’ispirazione di rivolgere a Giulia questa strana domanda:

- Che aspetti a darti tutta al Signore? Non ti piacerebbe restare oggi stesso con noi In questo monastero?

La risposta schizzò ardente:

- Resto, immediatamente!

- Anch’io, si affrettò Ursola, restiamo entrambe!

- Come? protestò la madre, senza averne fatto parola a vostro padre? Toglietevelo dalla testa!

Nella disputa vivace che ne seguì, Giulia, temperamento da leader, tenne duro, sostenuta da Ursola, che per tutta la vita sarà come la sua ombra. Le due sorelle furono così decise, così persuasive che la carrozza rientro a Napoli solo con metà del carico, naturalmente, con la riserva dell’assenso del padre.

Il giurista Crostarosa, sapendo bene che le due figlie erano maggiorenni, le lasciò libere, ma, padre che le amava profondamente, le seguirà con affetto anche nelle difficili prove che in seguito dovranno affrontare. Sei mesi più tardi Ursola e Giulia rivestirono l’abito carmelitano, inizian-

 

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do l’anno di noviziato, secondo la “mitigazione” di suor Serafina di Dio seguita da quel carmelo1.

 

Giulia Crostarosa era nata nel cuore di Napoli il 31 ottobre 1696, cioè solo trentaquattro giorni dopo Alfonso de Liguori, undicesimo e penultimo rampollo di un focolare dove si respirava Dio. Dall’età di cinque o sei anni circa, secondo quanto ella stessa racconta: “ Il Signore li parlava al cuore, dicendoli varie cose. Da tempo in tempo la chiamava e la pressava ad amarlo con certe brievi parole interiori ”. Verso i dodicitredici anni, “ li disse il Signore così: Jo voglio essere la tua guida, Jo voglio condurti. Non cercare altro che me solo. Jo sarò il tuo maestro ”.

Ed ora eccola, a ventidue anni, nel carmelo di Marigliano, costretta a costatare che la “mitigazione” di Serafina di Capri era ancora molto più “mitigata”: la fondazione era recente (1715), le suore giovani e un po’ troppo dissipate alle grate.

- Se non rimedierete a questa eccessiva libertà, dichiarò Giulia alla buona superiora, giammai mi monacherò in questo monastero!

Verdiana di Gesù l’ascoltò, anzi le affidò, dopo solo otto mesi di noviziato, la porta, la ruota e il parlatorio: grate e serrature scricchiolarono meno, ma si sentironopianti e stridor di denti”, fino alla morte della madre vicaria nel giro di tre mesi.

Il 21 novembre 1719 suor Candida (questo il nome carmelitano di Giulia) fece i voti religiosi e sei mesi più tardi divenne maestra delle novizie e ben presto anche delle dodici educande, fra le quali la sorella minore Giovanna, nata nel 1701. La cura delle anime risvegliò il suo zelo, ritrovandosi “con una fame ben grande e desiderio di aiutare il mio prossimo”, perché le dava “il Signore desiderio della salute del prossimo”, prima di tutto delle sue novizie e delle sue consorelle. I suoi orizzonti apostolici però ben presto si dilatarono, come ella stessa racconta:

“Una mattina, essendomi communicata e stando con le solite alienationi... mi disse il Signore: Così jo ti voglio far madre di molte anime, che per mezzo tuo voglio salvare. Tra le altre mi mostrò una compagnia di anime religiose le quali jo non conosceva, adittandomi che dovea fondare monasteri, ma nient’altro mi dichiarò. Jo non intendendo altro di questa cosa non feci conto alcuno, perché mi sembrava molto aliena da me, essendo così inabile e inetta a tal cosa”.

La presa di Dio su di lei si andava facendo sempre più totale con la consapevolezza della comunione battesimale con il Cristo, che, diventata identificazione, fondava l’esistenza cristiana perfetta, sperimentata da san Paolo: “Io vivo, ma non io: il Cristo vive in me” (Gal. 2, 20). Nota la Crostarosa:

 

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Il Cristo “mi diede una chiarezza d’intelletto, informandomi delle verità della fede con lume sopranaturale molto efficace, e, attraendo mi a sé, mi mostrava come egli vive ed è vita nell’anima giusta. Il mio Giesù, con indima unione d’amore, faceva nell’anima con la sua divina gratia una dolce simiglianza di vita eterna, facendomi combrendere quelle parole scritte nel santo Evangelio, dove egli dice: Ego sum via, veritas et vita, nemo venit ad Patrem nisi per me; mostrando egli al anima opera che egli ha fatto così stupenda della divina unione col umana natura; e che l’anima giunge quivi per fede, per gratia dello Spirito Santo suo e per frutti maravigliosi di buone operationi e virtù della sua vita santissima, mentre egli era in terra uomo viatore...

Essendo... vita per l’unione fatta dalla persona divina colla natura umana, egli vive, in unione d’amore in Dio, viatore in tutte le anime sue cari, vita della vita di quelle...

La via sono le opere e virtù di Giesù Christo fatte opere delL’anima istessa per gratia.. E per tanto si conchiude esser egli viatore in quelli che sono a lui uniti per amore e unione vera in Dio per fede, per opere sante e per gratia in Spirito Santo. E tutti coloro che sono uniti a lui per opere, per fede e per gratia sopranaturale, in unione di amore, una sola persona in Christo uomo Dio ascende in Cielo”.

Per la giovane religiosa, o meglio per il maestro divino che la istruiva, L’imitazione di Gesù Cristo non consiste nel mettere i propri passi sui suoi, dietro e dopo di lui, ma in una trasformazione d’essere, grazie alla quale egli mette la sua vita nella nostra. Il Cristo è sempre, personalmente, homo viator, “L’uomo in divenire” - meglio: “Dio in divenire” - in ogni essere umano che si lascia prendere da lui. Ognuno di noi deve essere per il Verbo incarnato “una umanità in sovrappiù”, nella quale vivere, divinamente, come continuazione della sua stessa umanità. In noi è ancora e sempre “uomo-Dio in divenire”, fino alla fine del mondo, fin quando vi saranno degli uomini; imitare Gesù Cristo non è copiarlo, ma permettergli di essere se stesso, ancora una volta, in noi.

Tale è la viva dottrina con la quale il suo divino maestro penetrava lo spirito e la concreta esistenza della giovane carmelitana di Marigliano .

 

Nell’inverno del 1722, la cittadina di Marigliano venne evangelizzata dai Pii Operai con alla testa Tommaso Falcoia, che diede anche i santi esercizi al conservatorio teresiano. “Non serve parlare con lui, si disse suor Crostarosa, dato che don Bartolomeo Cacace (uno dei professori incontrati da Alfonso al seminario di Napoli) è per me un direttore al tempo stesso santo e sapiente”.

 

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Il Signore però la notte seguente, mentre era in preghiera, le disse:

- Tu andrai da quel padre e gli manifesterai lo stato dell’anima tua: è la mia volontà. Un giorno sarà il tuo direttore spirituale: ti rivelo la sua anima e contemporaneamente rivelo a lui lo stato della tua.

L’indomani mattina la Crostarosa si incontrò a lungo con il Falcoia, che veramente aveva ricevutolumi” a suo riguardo.

- Conservate il vostro direttore, concluse il Pio Operaio, ma scrivetemi d’ora in poi: vedremo qual è la volontà del Signore. Siete sulla buona strada.

“Il Signore, aggiunge la Crostarosa, mi pose nelle mani di questo padre per farmi assaggiare j pretiosi frutti della croce da me non provati per l’addietro, se bene egli era gran servo di Dio”.

Nei frequenti incontri dei giorni successivi, il P. Tommaso le parlò della fondazione visitandina di Scala e alla fine l’ordine di scrivergli divenne precetto formale in forza del voto di ubbidienza. È lecito chiedersi: dove un predicatore di passaggio poteva attingere tali prerogative? Lincontro però fu provvidenziale .

Infatti l’anno seguente, 1723, la situazione per le carmelitane si fece insostenibile, perché la duchessa di Marigliano, Isabella Mastrillo 2, “pigliò tale dominio sopra di quel monistero... che ridusse le povere religiose al uldimo delle tribulationi, in maniera tale che furono seguestrati tutti j beni del monistero e furono levati tutti j padri spirituali alle religiose, con una orditura così grande del demonio che sarebbe troppo lungha istoria narrare... In maniera tale che il Vescovo ordinario del luoco conzigliò alle religiose di prendersi le loro doti ed ogni una si ricapitasse in altro monistero e che il monistero si dismettesse, per liberarsi da tanta schiavitù, pregiuditiale alla quiete ed osservanza religiosa, perché egli non poteva patrocinare il monistero, essendo questa persona molto forte e potente”.

Il 16 ottobre 1723 gli ottimi genitori Crostarosa vennero a riprendersi le figlie e la superiora, abbracciando Giulia, le disse: “Prega Dio per me e tu farai cose grandi per la gloria di Dio”. La santa donna infatti in un’estasi in presenza di tutta la comunità aveva ricevuto una rivelazione, “molti anni doppo della prima che il Signore mi avea a me significato, aggiunge la Crostarosa, ma niente conto jo feci del uno e del altra, perché mi sembrava imposibile per me”.

Don Giuseppe Crostarosa, convinto che la gloria di Dio passasse prima di tutto per la buona salute delle figlie, le portò con sé a Portici per tre mesi.

- Senza meno il Signore vi vuole tra le mie Visitandine di Scala, scriveva Falcoia.

 

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- Vi aspettano tutte e tre a Tramonti per fondarvi un monastero, ripetevano i genitori.

Decise il Signore, dicendo a Giulia:

- Questa è la mia volondà, che vai al monastero di Scala ed ivi ti eserciterai nella virtù dell’umiltà e starai tra quelle suori come minima di tutte.

Scala?... Ursola era restia ad andarvi, per le maniere forti di Falcoia, unico direttore spirituale, sotto la cui trafila dovevano perciò passare tutte... Ma Giulia aveva deciso e Ursola, la sua “ombra”, non poteva andare altrove; Giovanna seguì le due sorelle maggiori. Furono a Scala nel gennaio 1724 e presero l’abito il 7 febbraio: Giulia d’ora in poi e per tutta la vita sarà Maria Celeste, Ursola suor Maria Illuminata e Giovanna suor Maria Evangelista.

Nel primo anno di noviziato niente turbò il loro fervore e Maria Celeste, che riceveva quotidianamente l’Eucaristia, si sentì progressivamente trasformare in Gesù Cristo, come e per il pane consacrato. Il Signore le fece dono del suo cuore divino, della sua divina volontà, delle opere e virtù della sua vita terrena e le parve di “risorgere - ella scrive - ad una nuova vita, molto diferente da prima”.

 

In questo contesto si collocano gli avvenimenti del giorno delle Rogazioni di primavera, mercoledì 25 aprile 1725, che ella stessa racconterà venticinque anni dopo nella sua Autobiografia (verso gli anni 1750-1755); noi però preferiamo seguire la narrazione più immediata del settembre 1730, richiestale da Alfonso, venuto a Scala a predicare i ritiri:

Padre nel Signore dilettissimo, per adempire la sua obbedienza, quale mi a comandato che jo li dia un compendio del come passò per me quella cosa del nuovo Istituto, (ecco) per la prima sostanza per quanto singeramente mi ricordo.

Anni sono nel giorno delle Rogationi, mentre già mi era communicata, mi comingiò un amore sovave, che mi strugeva, verso del mio Giesù; e in questo sentì tirare tutta le anima mia a lui e per una chiarezza di purità si fece vedere a me di una bellezza che io no so dire, unendomi a sé con le sue mani, piedi e costato, con un giubilo inesplicabile di amore.

E dopo questo breve momento mi lasciò in potere di vedere di nuovo me stessa. E in una chiarezza ben grande di luce, vidde che lui con suo detto scriveva nel mio cuore col suo sangue.

E in questo tempo mi diede ad intendere tutto il preggio della sua vita e che voleva darmi un nuovo Istituto, che servisse al mondo per memoria di quanto lui avea operato per l’uomo. In questo mi diede una pieneza così grande di quanto dovea contenersi in questa

 

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Regola con tanta distintione e mi ordinò che io scrivessi in nome suo il tutto come lui mi avea mostrato...

La prima mattina che mi occorse questo, restai totalmente fuor di me, così per la dolcezza come per lo stupore, perdendo affatto l’uso de’ miei senzi. E dopo alcune ore, sebene tornai a me stessa, restai però così stupida che per molti giorni non ebbe animo di dir parola. Restai così in pensiero, che non sapeva che penzare di me, né come dirlo anche al mio Padre Spirituale.

E stiede con qualche turbatione, non sapendo se era cosa di Dio o no; e sebbene mi pareva che veramente fosse stato Dio, ad ogni modo dal altro canto no mi pareva posibile che Dio avesse potuto fare questo a me, perché nel mondo vi erano tante anime veramente sante, che Dio si averebbe potuto comunicare... tanto più che io mi trovavo novitia in questo monistero e stava nell’ultimo luoco della comunità.

Stiedi molti giorni senza manifestare a niuno il segreto, ma una mattina, dopo la santa comunione, il mio Sposo mi sgridò del mio tacere. Mi disse: Perché tu non vuoi manifestarlo? Temi di non essere avvilita? Sappi che in questo tacere ami te stessa più di me! E in questo strinze a sé lo spirito mio e lo strinze col suo e fece vedermi in un momento tutto quello che dovea patire di dissaprovazioni, desolazioni e perseguzioni e che dovea restare in quel abbandono che lui restò nella croce...

Al veduta che le anima mia ebbe di tante tribulazioni, che tutte distinte mi furono rappresentate, mi si coperse il corpo di un freddo e un indrizzamento, che restai come morta dallo spavento della mia fiaccha natura, ma però lo spirito così forte e rassegnato per eseguire la manifestazione a costo di ogni mio dispreggio, facendo un atto di sagrificazione a Dio del mio onore e stima. E mi delibarai di manifestarmi al mio Padre Spirituale e ai miei Superiori.

Frattanto non potei la notte prenner riposo, perché la communicatione no cessava col mio Sposo, che pareva che cinquanta dottori mi parlassero tutto in un tempo e l’anima stava sentenno come in un eccesso di amrniratione, che le meno sono quelle che o scritto, tanto nelle Regole come in altri miei scritti, che tiene il mio Direttore. Ebbe dal mio Sposo promesse grandissime, degne della sua sola misericordia e bontà: qui non le noto, che mi bisognerebbe, per dir quelle cose, dire altre cose spirituali che sono passate per me.

Mi ordinò che io scrivesse la Regola dopo la santa Communione, per quel tempo che lui mi averebbe dettato e, finito quel tempo che lui mi dettava, no sapeva io metterci una sillaba, non poteva proseguire a scrivere fuor di questo tempo”.

Di questa Regola formulò così l’intento nella sua Autobiografia:

“E allora li fu dato ad intennere un nuovo istituto, che avrebbe

 

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il Signore posto al mondo per mezzo suo e che lui, nella sua vita erano contenute tutte le leggi del loro vivere e delle loro Regole: come un aperto libro scritto di infinita perfettione divina, tutto ad un tempo in esso Divin Agnello contenuto”.

Maria Celeste si aprì con il confessore ordinario del monastero, il canonico Pietro Romano, e con la sua giovane maestra delle novizie, suor Maria Angela de Vito (ventitré anni), che le ordinarono di scrivere le Regole. “Per quaranta giorni digiunerai, farai penitenza e scriverai” le aveva detto il Signore. Sei altre suore, a parte del segreto per rivelazione interiore diretta, digiunarono insieme a lei.

Miracolo! Il segreto non filtrò nel resto della comunità, neppure per la superiora, anzi soprattutto per lei, secondo una politica voluta dal Falcoia, che non senza ragione considerava suor Giuseppa Schisano uno spirito semplice ma di cervello piccolo. Questa incompetenza poi gli era utile, m quanto “avea ordinato in segreto modo alle religiose che si indrizzassero solo a lui per queste cose e che non conferissero cosa alcuna di queste materie nelli rendimenti de’ conti di coscienza alla conzaputa Superiora; ma che lui voleva in queste materie star indeso del tutto che passava nel anime di ciascheduna religiosa”.

Ma il P. Tommaso fin dopo Pasqua sarebbe rimasto nella Città Eterna, per lucrare l’indulgenza giubilare dell’anno santo 1725 e per trattare alcuni affari del suo Istituto; a giugno passò per Scala il confratello Maurizio Filangieri, superiore religioso e “padre temporale” del monastero e dal 1722 superiore generale della sua congregazione. Tutto ciò, unito all’importanza del caso, indusse la maestra delle novizie a suggerire a Maria Celeste di metterlo al corrente di ogni cosa: rivelazioni e Regole.

Se la sera precedente il Filangieri era rimasto entusiasta, il mattino seguente si risvegliò disincantato (la notte non porta forse consiglio?), rimandando tutto al giudizio del Falcoia, al quale la maestra Maria Angela fece un accurato rapporto, non sappiamo se per posta o attraverso lo stesso Don Maurizio. Ad ogni modo i due “ fondatori ” si incontrarono a Napoli tra il 27 e il 30 giugno e Filangieri certamente mise in guardia il suo suddito.

La risposta del Falcoia, datata 30 giugno, fu di questo tenore: a Maria Celeste: “Siete una matta e un’orgogliosa; le vostre rivelazioni sono solo vane chimere. Bruciate le Regole, non accostatevi alla comunione fino al 15 agosto e non parlate più di simili frottole!”; a Maria Angela: “Vigilate perché si eseguano i miei ordini, umiliate per bene questa figlia e conservate il segreto su tutta la storia!”. Però le due lettere, benché inviate per via rapida e sicura, arriveranno alle destinatarie solo il 17 agosto!

Verso metà luglio, non avendo ricevuto risposta, la maestra inviò

 

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le Regole al P. Tommaso, che alla loro lettura si ricredette, revocando le precedenti decisioni e annunziandosi per settembre. “Ma quali decisioni?” si chiesero le suore.

Frattanto si consultò con numerosi teologi. Questi risposero che l’Opera era di Dio, ma per metterla in pratica occorreva rispettare due condizioni, cioè unirla a una delle Regole già approvate 3 e ottenere il consenso unanime delle professe Visitandine, che avevano emessi i voti secondo la Regola di sant’Agostino e le Costituzioni di san Francesco di Sales.

A settembre i due Pii Operai salirono insieme a Scala, dove Falcoia vide e ascoltò le suore e Filangieri riascoltò Maria Celeste, convincendosi che il progetto era da Dio. Senza sforzo comunicarono la loro persuasione al vescovo e al vicario generale, che risposero: “Siete voi i fondatori del monastero, prendetevi cura del cambiamento!”. Il P. Tommaso, convocato il capitolo, espose “L’Opera del Signore”, ma per l’opposizione della superiora e di altre due suore il progetto si arenò. Il P. Maurizio, che più di ogni altra cosa voleva la pace del monastero ordinato a Falcoia di lasciar cadere il tentativo, andò a informare Mons. Guerriero.

Falcoia convocò una seconda volta la comunità: “Non si parli più di nuove Regole e di nuovo Istituto!”; presa poi da parte Maria Celeste, con le sei altre suore che avevano ricevuto delle rivelazioni, la umiliò duramente: ha turbato il monastero con i suoi sogni, non accordi più alcun credito a eventualimanifestazioni”, perché il demonio si trasfigura volentieri in angelo di luce; la visionaria vada in giardino a strappare le erbacce durante l’orazione comune e lavori manualmente invece di andare in coro, poiché non è degna di prendervi posto . . .

Al contrario, alla maestra delle novizie ingiunse di fargli relazione in scritto di tutto ciò che di soprannaturale sarebbe accaduto a Maria Celeste, segretamente conservando quindi fede e fiducia in lei che d’altra parte non aveva perso la propria serenità: “Sta’ sicura e spera in me, che vedrai le opere mie” le disse il Signore.

Filangieri invece aveva voltato pagina definitivamente:

- Non mettete più piede nel monastero, ordinò al Falcoia, non ricevete più corrispondenza, né occupatevi più della loro direzione. Siete caduto nelle illusioni di questa penitente!

Tutta Napoli ne chiacchierava: “Il P. Falcoia, sì proprio lui s’è fatto giocare da una visionaria!”. E si rideva, ma “rispettosamente”, tanta era la stima che, malgrado tutto, si conservava per quest’uomo di valore.

Il superiore generale volle forse mettere a tacere i pettegolezzi che avrebbero potuto infangare la congregazione o subodorò che Falcoia

 

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non aveva ancora rinunciato del tutto? In ogni caso la superiora di Scala, che temeva una rinascita del “nuovo istituto”, non gli dava tregua. Verso la fine dell’inverno 1726, Don Maurizio convocò un gruppo di teologi dal parere scontato in partenza e invitò il vicario generale di Scala, Don Criscuolo: si diede torto, senza possibilità di appello, alla “visionaria” e al suo ingenuo direttore. Filangieri affidò allora al Criscuolo la missione di comunicare alle suore quanto segue: “Con decisione capitolare escluderete il P. Tommaso dalla direzione spirituale del monastero: riceverete un sostituto; metterete alla porta la novizia perturbatrice, vi impegnerete a non parlare più di cambiamento di Regole. Fatto questo, vi darò almeno 6.000 ducati e vi assicurerò una rendita annua di 500 ducati. Se invece rifiuterete, mi disinteresserò del vostro monastero e interdirò al P. Falcoia di venire a Scala, perché sono pur sempre il suo superiore!”.

A Scala si ebbe un no massiccio all’ultimatum: “ Il padre superiore si tenga pure i suoi ducati! Noi ci teniamo Maria Celeste e contiamo sulla Provvidenza”.

- La perdita per il monastero sarà pesante, mormorò la vecchia superiora.

Don Criscuolo, sotto l’incalzare delle onde, non seppe che controbattere e, per non partirsene del tutto sconfitto, chiamata la novizia davanti a tutto il capitolo, le disse:

- Avete messo sottosopra la comunità, non meritate di stare insieme alle altre. Rinchiudetevi in soffitta e non ne uscite per nessun’atto comunitario, tranne i pasti che prenderete seduta per terra e con una corda al collo. Fate penitenza per i vostri scandali.

Povero simpaticone di un Don Criscuolo, nelle settimane seguenti il Signore gli farà capire “con i fiori” il suo torto! La sua giovane nipote, suor Maria Maddalena, un anno dopo i voti aveva perso la ragione, tanto che l’ammirevole Maria Raffaella de Vito, sorella della maestra delle novizie, da circa due anni era costretta a sorvegliarla notte e giorno. Al vicario generale, che da poco aveva parlato di riportarla a casa, Raffaella si oppose, pregando ardentemente il Signore: “Se è vostra volontà dare la nuova Regola al nostro monastero, guarite questa povera religiosa della sua follia”. Alla fine di aprile 1726, un anno dopo la rivelazione dell’Opera, Maria Maddalena ritrovò calma e ragione e ben presto anche ufficio divino, sacramenti e responsabilità comunitarie .

La “prigioniera” della soffitta, che aveva accettato ogni cosa in silenzio e umiltà, fu restituita alla vita comunitaria; era passata per fasi di dubbio cocente e di evidente presenza di colui che voleva rivivere in lei la sua passione redentrice: “Tu sei la mia diletta ed amica, le disse un giorno, per ciò ti tengo nel mio regnio della croce e della

 

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gloria, nel regnio della mia pace e riposo nelle pene e afflitioni, come jo visse in terra viatore”.

Battutto frontalmente dal piccolo, cocciuto monastero, Filangieri pensò di conquistarlo aggirandolo e si rivolse ai genitori di Giulia, ai quali così parlò: “Vostra figlia getta il convento nella confusione. Per favore, ritiratela”. Ma i Crostarosa dal cuore ardente e dalla testa fredda, prese le debite informazioni, seppero che Falcoia e quasi tutte le suore sostenevano la figlia.

Il giorno di Pentecoste, 26 maggio 1726, suor Maria Giuseppa terminava il suo secondo mandato di superiora e il 5 giugno fu sostituita dalla giovane maestra delle novizie, Maria Angela de Vito, secondo il suggerimento di Falcoia consultato in segreto tramite Don Pietro Romano. Filangieri, che perdeva così l’ultimo punto di ancoraggio nel monastero, certo a conoscenza dell’intervento sotterraneo del suo suddito, furioso, decise di far valere tutta la sua autorità, interdicendogli formalmente ogni relazione con le suore e sostituendosi a lui nella direzione spirituale della comunità. Avrebbe avuto in mano tutti i fili e si sarebbe visto allora di chi era l’ultima parola!

Era poco prima del Natale 1726 e Falcoia si congedava dalle suore con un’ “ultimalettera:

Benedette figlie del Signore, ora conosco bene che Sua Divina Maestà v’ama assai; e vi dispone a farvi sante da vero... va togliendovi i maggiori impedimenti della vostra perfezione; e mostra voler sanare tutt’i disordini, sin ora trascorsi, non già per vostra colpa, ma per mia incuria, e colpa mia. Sappiate dunque, ch’il Padre Proposito, considerandomi per quell’illuso, ed inetto, che sono; e dall’altro canto amandovi teneramente, da vostro buon Padre nel Signore vuole zelare sopra i vostri pericoli, e vantaggi; e perciò vuole, non oscuramente, ch’io non m’intrighi più di codesto Monastero. Che lui n’avrà la cura: ed in effetto va cercando soggetto a proposito, che l’aiuti in quest’altra sollecitudine, che vuol addossarsi, per vostro amore. (Vedete quant’obbligazione dovete professarli!).

Ed io, che v’ho sempre stimate assai, al riflesso del vostro meglio, e della maggior gloria di Dio, me ne contento; quantunque l’amor proprio me lo renda sensibile. Ma non mi toglie la pace, Voi altresì, benedette del Signore, pigliate in pace queste determinazioni, come Divine... E poiché non avevo che offrire al Nascente Bambino, per questo santo Natale, offerimole, io le figlie e voi il Padre...

Devo pero io di due cose cordialmente pregarvi in questa lettera, che stimo sia l’ultima. Una si è, che: rassegnandovi al Divino Volere, con pace ed allegrezza, abbiate a ricevere quel Padre vi verrà assegnato; e puntualmente obbedirli, come quello vi rappresenterà il vostro

 

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Sposo, e terrà le sue veci. E l’altra, che non desistete di pregare sempre S.D.M. per me...”.

Questa lettera ufficiale, presentata forse a Filangieri, a Scala verrà letta in comune: sembra che volti per sempre una lunga pagina di speranza .

Per suor Maria Celeste ecco però un biglietto particolare con altro tono e nessuna rinunzia:

Figlia mia diletta nel Signore, spero in Dio benedetto voglino i nemici comuni restare confusi, e sterminati dalla potenza Divina; onde che non abbino da prevalere in questa mossa terribile che hanno fatta; e così avrà luogo di rivedervi.

Pregate il Signore perché si degni dar luce, e grazia a chi n’ha di bisogno, perché io non lascio di fare quello, ch’onestamente, e caritativamente può farsi, per la maggior gloria di Dio, e bene vostro, ed altrui: e così non s’intende, ch’io mai abbi da venire. Ma che non posso venire sin a tanto che le cose non piglino quella piega che conviene...

Nel Bambino nascente e nella sua SS. Madre, col suo Santo Sposo Giuseppe, c’incontreremo in questa porta, che sta aperta nella Grotta di Bettalemme.

Entrate, e vedete quelle menti, e quei cuori in che abisso d’annientamento si trovino. Unitamente con essi vi benedico mille volte, e resto in essi. Vostro Cordiale Padre. Tomaso Falcoia”.

Malgrado tutto, questo Natale 1726 fu un grande Natale: il 28 dicembre le tre sorelle Crostarosa emisero i voti da Visitandine (Giulia venne ammessa “con voti concordi” da parte del capitolo), otto giorni prima, nella cattedrale di Napoli, era stato ordinato sacerdote Alfonso de Liguori. Entrambi avevano trent’anni.

 

Poco tempo dopo, il sacerdotequalificato”, scelto dal Filangieri come sostituito di Falcoia, venne a trascorrere una quindicina di giorni nel monastero 4. Si aspettava una comunità in ebollizione e religiose turbate, forse anche in sciopero per le confessioni; invece rimase stupefatto per la pace che regnava nel monastero e nell’intimo delle religiose, che tutte si rivolsero a lui. Quando però tentò di offrire i suoi servizi quale padre spirituale permanente, le monache lo ringraziarono della sua carità, aggiungendo “che avrebbero aspettato il tempo che il Signore avrebbe piaciuto che il loro Direttore potesse continuare la sua carica”.

Durante tutto il 1727 Maria Celeste rimase “senza guida... perché molto di rado aveva comodo di scrivere al suo Padre Spirituale qualche lettera segreta per mano del Padre Confessore ordinario. Onde il Signore era la sua guida ed il suo condottiere”.

Un mattino, dopo la Comunione, fu rapita in spirito nella luce:

 

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“Il Signore gli mandò un Angelo con una frezza nelle mani, che intingeva nel sangue dell’Agniello Giesù e con quella feriva il suo cuore E con questa ferita fu talmente fortificata nel suo cuore per sofrire tutte le contrarietà, affronti e disprezzi e tutto quanto mai avesse auto a sofrire per impresaardua”.

 

Nella primavera del 1728 le cose cominciarono a sbloccarsi: il P. Roberto de Cillis fu eletto superiore generale dei Pii Operai e Falcoia divenne consultore generale, ritrovando così libertà di azione, ma solo fino a un certo punto, dal momento che Filangieri restava superiore a Scala, vi conservava alcune seguaci e, malgrado l’intrattabile meschineria, non aveva privato le povere suore di un aiuto pecuniario meritevole di riguardi.

Ma il 27 febbraio 1730 il sant’uomo rendeva in una sola volta un duplice servizio al monastero: morì e lasciò per testamento alle monache una rendita annua di 132,24 ducati. Inoltre in primavera si venne a sapere che Falcoia, malgrado i suoi sessantasette anni, stava per essere designato vescovo di Castellammare: nei riguardi della “opera del Signore” avrebbe ottenuto indipendenza piena dalla sua congregazione, autorità dovuta alla mitra episcopale e residenza distante da Scala solo una cavalcata (12 chilometri).

Tuttavia non tutti i problemi si sciolsero d’incanto, come neve al sole: la morte del “fondatore” non portava con sé il mutamento repentino delle tre Visitandinefilangeriste”, il vescovo del luogo Mons. Guerriero, un canonista, avrebbe potuto pregare il collega di Castellammare di restarsene tra le sue pecorelle o, stanco delle scosse del monastero, forse non sarebbe stato disposto a tollerare che si gettassero di nuovo pietre nelle sue acque ormai calme.

Ma ecco l’uomo provvidenziale, vecchio amico di Guerriero e uomo di Dio venerato da tutta Napoli, incontrato spesso da Falcoia al Collegio dei Cinesi, tra una missione e l’altra: Alfonso de Liguori, che, dalla sua convalescenza a S. Maria dei Monti nel maggio-giugno 1730, aveva in mano tutta Scala. Alle insistenze del vescovo e delle suore per il ritiro al monastero in settembre, Falcoia si premurò di aggiungere il proprio “ mandato ” di fondatore e direttore spirituale, mettendolo al corrente dei fatti, delle difficoltà, dei dubbi, delle speranze. Del resto ebbero tutto il tempo per incontrarsi a Napoli tra il 19 giugno, ritorno di Alfonso, e la metà di luglio, partenza per Roma del vescovo designato di Castellammare 5 .

Dalla Città Eterna, quest’ultimo scrisse alle sue figlie, che non rivedeva ormai da quattro anni, “che la sua venuta non poteva sortire se non per la fine del mese di ottobre e nej pringipj di novembre... Onde egli avrebbe mandato in Scala un Servo di Dio per nome

 

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D. Alfonzo di Liguori, prete e missionante napolitano... Per tanto tutte le religiose con libertà avessero conferito le cose del anime loro come fusse stata la sua persona medesima”.

Alfonso arrivò a Scala (l’abbiamo detto) il 5 settembre a sera, accompagnato da Giovanni Mazzini. Mentre predicava in cattedrale la novena del Crocifisso, il suo pensiero e la sua preghiera erano già per il monastero, riguardo al quale le dicerie napoletane l’avevano prevenuto contro l’“illusa”, anche se urtavano con la valutazione di Falcoia, del quale aveva la più alta stima.

Da uomo avvisato, non lasciò trasparire nulla e prima dell’inizio dei santi esercizi condusse la sua inchiesta, esteriormente con il rigore di un giudice istruttore, interiormente con la sensibilità di un mistico: prima di tutto ascoltò e interrogò in parlatorio la giovane priora e le sue assistenti; L’indomani, al confessionale, ebbe un lungo colloquio con Maria Celeste, che gli aprì tutta la sua vita, colpe e grazie, sofferenze e lumi, Opera e Regole; ricevette poi ognuna delle sei suore che pretendevano avere avuto qualche rivelazione; nei giorni successivi, infine, tutte le altre suore, che potettero esprimersi con lui in piena libertà, cominciando da suor Maria Giuseppa, “la quale, essendo già assoluta dall’officio di Superiora, non ebbe più impegnio a contraddire all’Opera del Signore”, secondo il rilievo piccante di Maria Celeste.

Nel Liguori maturò la convinzione che l’Opera era di Dio, l’illusione dei suoi denigratori. Convocata la comunità, comunicò che doveva disporsi ad accogliere la grande grazia e a quelle che vi si erano opposte creò un problema di coscienza per aver ritardato la gloria di Dio. La deposta superiora allora uscì in questa espressione:

- Giaché questa è la volontà di Dio, non voglio impedirla: sarò la prima ad accettarla.

A queste parole, tutte le suore si abbracciarono in una esplosione di gioia e di ringraziamento. Alfonso era raggiante.

Mons. Guerriero a sua volta diede piena libertà di azione al Liguori, che godeva di tutta la sua fiducia. Si decise il passaggio al nuovo Istituto per la prossima Pentecoste, 13 maggio 1731, con scelta non certo casuale: nascita della Chiesa apostolica, nascita nella Chiesa di una nuova famiglia apostolica; effusione del Soffio di Dio sulla creazione sterile per farvi fiorire la vita, effusione dello Spirito su una giovane Vergine perché il Figlio prediletto vivesse in un “uomo in cammino” in Gesùuomo viatore” e poi rinascesse in una moltitudine di donne e di uomini in cammino...

Il ritiro cominciò interamente orientato verso l’avvenimento in gestazione, con prediche tutte sulla vita e sulle virtù dell’Uomo-Dio.

A fine settembre Liguori e Mazzini furono di ritorno a Napoli. Tra Alfonso e Maria Celeste intanto si era stabilita una forte e pro-

 

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fonda amicizia, tanto che il 4 ottobre questa gli scriveva:

Padre nel Signore dilettissimo... io vi trovo sembre mio compagno nelle mie povere e fredde orazioni e unito al vostro spirito fo’ le mie communioni e mia sete di compagnia. Ma che maggiore è il mio gusto di vedere che tutta la nostra communità ne ave memoria di conzolazione. Il Signore benedica per sembre questa nostra amicizia per sua gloria e onore”.

Lassù una comunità viveva in gioioso fervore e in attesa.

Alfonso a sua volta come in ogni autunno si faceva evangelizzare, insieme ai fratelli delle Apostoliche Missioni, dal superiore Giulio Torni, che, dal 12 al 19 ottobre, dava gli esercizi ai sacerdoti nella basilica di S. Restituta. A metà ritiro arrivò da Scala un’abbondante corrispondenza, con bigliettini personali di almeno tredici suore. Alfonso rispose il 29 ottobre nel pieno della missione allo Spirito Santo, rivolgendosi prima all’intera comunità con tono confidenziale, nel quale si sente fremere il suo animo allora nel fondo della prova interiore:

“Sia lodato Gesù, Giuseppe e Maria

con S . Teresa in compagnia!

Appunto nel giorno della Santa mia, S. Teresa, ricevei le prime vostre lettere; con tanta mia consolazione in vedere la sola sopraccarta, che se n’avvidde ancora chi me le consegnò. Non ho scritto prima, perché sono stato molto affaccendato, e specialmente per la s. missione che si è fatta in Napoli, ed ancora ha da finire; tanto più, che dovea fare molte risposte...

Già sono passati più giorni dalla mia dimora in Scala, e pure sto colla memoria così fresca di voi, come ieri ne fossi partito... perché nel ricordarmi di voi, sentomi non so che, che non m’allontana, ma più m’unisce a Dio...

Sappiate che sinora, come io diceva, ho scontato bene Scala e sto scontando, anzi sto al meglio della tempesta; sto, che alle volte non vedocielo, né terra, ma mi trovo dentro una caverna oscura, ubi nullus ordo, sed terribilis horror inhabitat. Sia sempre fatta la volontà del Sommo Bene! E sia di mandarmi dannato, se questo è di sua maggior gloria; questo sì, pregate per me che io non l’offenda, perché non è di gloria sua che io l’offenda. Del resto, Signore, eccomi qua: un inferno è poco per me.

Il P. Falcoia mi ha scritto con tanta tenerezza, che mi ha incatenato; non mi ha scritto quando torna, ma io ho inteso, verso li 20 di novembre...

E poi, Sorelle mie dilettissime in Gesù, non vi raffreddate a pregarlo per me. Io, sacerdote chiamato ad acquistare anime, potrei essere di gloria di Dio; pregate che io gli dia gusto, e poi, se mi vuole mandare all’inferno, (sia) come a lui piace...

 

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Amate Gesù, e sopra tutto amate il suo bel Cuore divino, la sua bella Volontà. Né poi vi curate se siete predestinate o prescite, derelitte o accarezzate, care o abbandonate. Unitevi tutte alla sua volontà, e poi dite: Signore, ci basta il tuo gusto, la tua gloria. Questo sia l’unico nostro interesse che Dio resti intieramente glorificato sopra di noi; e poi vengano le disgrazie, gli abbandoni, le croci, le tempeste, le tenebre, le disperazioni, l’inferno: benvenuto! Sempreché così piace a Dio; sempre è l’istesso Dio buono, degno d’esser amato: dunque sempre sia amato e benedetto per tutti i secoli de’ secoli!

Diciamo così e poi fidiamoci di Dio, anco per dargli gusto; perché vuole che ci fidiamo di lui. Prego il Signore che vi faccia un giorno bruciar in quell’inferno di S. Teresa mia, ove l’Amore è il carnefice dei cuori.

 

Cor mio confida e spera

Che la tempesta ancor

Condurre sa talor

La nave in porto.

 

Per carità, quando scrivete, levate l’lllustrissimo, ch’io non son Vescovo.

D. Giovanni (Mazzini) si raccomanda alle orazioni di tutte...”.

Seguivano brevi risposte particolari per le tredici suore e alla fine, mostrandosi veramente parte in causa nell’attuazione del nuovo Istituto, terminava così:

“Se per caso m’aveste da scrivere di nuovo prima di Natale, specialmente se avete da dirmi qualche cosa speciale di Monsignor Falcoia o delle cose vostre, prego a farmi capitar le lettere prima della metà di dicembre; perché verso la metà dobbiamo partir, come sento, per una missione ben lunga, otto giornate lontano da Napoli...”.

Di quale missione si trattava? In Puglia o in Abruzzo? Il Giornale purtroppo ha lasciato in bianco le pagine riguardanti le predicazioni dell’inverno 1730-1731: aspettano ancora il cronista troppo fiducioso della sua memoria e del suo tempo. D’altra parte, dalle note delle assemblee settimanali, risulta che Alfonso fu assente fino al 16 aprile 1731 .

Dopo questa lontana missione, nella quale si era dato fino allo stremo, all’inizio di febbraio fu, per i ritiri a dei religiosi, ad Amalfi, dove, caduto ammalato, fu raggiunto da Mons. Falcoia, ormai a Castellammare da quattro mesi, con queste significative parole del 24 febbraio:

“Con mio notabile dispiacere ho sentito, che s’era infermato in Amalfi; e sono stato in pensiero di venir a ritrovarla. Ora, grazie al Signore, sento, che stia bene; e sommamente me ne rallegro; perché

 

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ridotto in stato di forze da poter tirar avant’il carro della gloria di Sua Div. Maestà. Spero in Dio benedetto che abbi a fare gran profitto nell’anime di codesti Monasteri, che han bisogno di grand’aiuto, come sento; e poi abbi da quietar ultimamente Monsignor di Scala intorno le cose del nostro Monastero.

Mi viene riferito, che già si va disponendo a permettere alle nostre monache la mutazione dell’Istituto, mercé le sue insinuazioni; ma odoro, che vogli mutare, ed accomodare a suo modo. Io vi prego, che v’industriate, con la vostra destrezza, perché lasci a me la cura d’aggiustare le regole, ed incamminare questa Barca, perché ho tutta la capacità delle cose del Monastero e delle monache, e questo negozio lo v’ho digerendo da molti anni.

E tutte le difficoltà, che possono nascere nella mente di Sua Signoria Ill.ma, l’ho previste, l’ho conferite, e l’ho considerate. Lui vedrà a suo tempo la Regola e Costituzioni aggiustate; ed allora quando non vi considera inconveniente alcuno, potrà approvarle; e conoscendovi dell’improprietà, potrebbe farmi l’onore di suggerirmele; ch’io non sarò duro nel mantenere le mie proposizioni, quando compariscono improprie. Questo grand’affare conviene concluderlo con sodisfazione e pace delle monache, che vi si han da trovare, e queste aggradiscono assai che le cose passino per le mie mani; poiché io le ho quivi portate, ed io l’ho coltivate tutti quest’anni. Per ora non bramerei altro, se non che Sua Signoria Ill.ma desse il suo beneplacito, che si facci, che poi le circostanze s’aggiusterebbero a suo piacere.

Lei ha da fare: io ne lo prego: Dio benedetto è servito: avete buona mano col Vescovo: avete zelo dell’onore di S. Divina Maestà. Avete carità con quelle povere figlie. Avete amore per me: non vi dico altro...”.

Alfonso non intervenne, perché, amico recente del vescovo di Castellammare e ancor più e da vecchia data di quello di Scala, non approvò il “toglieti tu, perché mi ci devo mettere io” di Falcoia nei riguardi di Mons. Guerriero. E lecito anche chiederci cosa pensasse della volontà tentacolare e dittatoriale di Falcoia: nella sua mano di ferro che sarebbero diventati il progetto religioso della Crostarosa, la libertà di quelle donne e l’Opera del Signore, della quale aveva personalmente riconosciuto l’autenticità e percepito la fonte pura e originale? Infine, il P. Pagano, suo direttore, e il canonico Torni, suo superiore, gli avevano interdetto di intromettersi in quest’affare tra Falcoia e Guerriero. Si spiegherà più tardi con Maria Celeste:

“Quando Falcoia mi applettò ad intromettermi con Guerriero per l’approvazione delle vostre Regole, perché allora era contro l’obbedienza del mio direttore, io chiaramente dissi a Falcoia che mi scusasse 6 .

 

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Rigido nei riguardi dell’ubbidienza altrui, Falcoia doveva pur comprendere, eppure tra i due amici per circa tre mesi cadde un freddo, dissipato poi solo dagli sforzi di Alfonso e dalla vicinanza dell’estate.

Rientrato a Napoli per la settimana santa. Liguori ebbe una grave ricaduta: al Collegio dei Cinesi si temette per la sua vita 7, a Scala e certo pure a Castellammare si trepidò e si pregò.

All’inizio di aprile, le notizie si fecero buone e Maria Celeste gli scrisse, dandogli volta a volta il tu, il voi o il lei secondo il suo stile:

Padre nel Signore stimatissimo e fratello dello spirito mio dilettissimo. O’ sentito la sua pericolosa infermità dalla lettera di nostra Madre e mi à dato timore, ma ora per la gratia di Dio ci avisate del suo miglioramento, con molta nostra consolatione. Abbiamo fatto da buoni amici, siamo stati inzieme infermi...

Padre mio, io parlerò al Padre (Falcoia) di voi, adesso che viene. Mi à dispiaciuto che voi li abbiate detto le proibitioni avute in Napoli, così dal Padre della Congregatione come dal Padre spirituale... Io tengo che questa sia una pruova di merito di patienza che Dio voglia fare di voi e di noi. Così la sento perché non posso persuadermi che la vostra venuta e l’avervi conosciuto non sia stata opera di Dio Già vi è ben noto che Dio à voluto servirsi di voi. Non mi do a credere che sia per questo poco solo...

Padre mio, che ti credevi di non partecipare ancor voi le nostre pene? Tutti li nostri amici anno da partecipare delle nostre pene. O quante ne ha sofferto Falcoia, lo sa Dio, per causa nostra! E tante volte à mostrato Dio di volercelo levare affatto 8, ma poi ce l’à restituito sembre contra ogni speranza umana. E così non mi fa apprenzione ancor questo di voi. I cuori sono tutti in mano del mio Dio. Che posso io temere? Non mi à negato ancora nessuna cosa che ò desiderato, con puro fine del onor suo e della sua gloria.

Anzi, avendo io indesa questa novità, andai al mio Sposo nel oratione e me ne lamentai, e Lui conzolandomi mi disse: Non temere. Nessuno potrà togliere questo amico che io ti ho dato...

Hai, mio caro Fratello, stiamo allegri qui nel mondo, crocifissi di pene. Ci affligga ogni umana creatura, ci opprimano l’incertezza, li dubbi, le pene delle nostre proprie miserie. Ci dia peso la presente vita, ci condandi ogni umano sapere. Nelli gusti eterni della volontà immutabile del nostro Dio non c’entrano queste miserie. Ci aggravi il corpo coll’infermità e debolezze, quanto si vuole. Nel cuore del nostro unico Bene tutte queste cose sono miele che cade sopra i viventi per renderli simili al suo Figliuolo diletto...

Prega per noi, che già si darà principio all’istituto, adesso che

 

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viene il P. Falcoia, et io sento vive le nostre obbligationi a Dio. Come faremo per contribuirli quanto pretende da noi?

Finisco perché la testa non mi aiuta. Prega per me e tutti e due nascondemoci nel core di Giesù. Mi benedica dentro, e mille volde li baggio i piedi.

Umilissima figlia nel Signore, Suor Maria Celeste Crostarosa.

Ci avisi, come passa col suo male. O’ riceuta la statuetta di S.Teresa...”.

A fine aprile finalmente Mons. Falcoia salì a Scala e il 2 maggio, con il consenso del vescovo del luogo, presiedette il capitolo del monastero, che all’unanimità votò in favore del nuovo Istituto, del nuovo abito, delle nuove Regole; secondo quanto era stato deciso già da un anno con il P. de Liguori, il giorno di Pentecoste (13 maggio 1731), “con indicibile consolazione di tutte quelle religiose”, la messa, la predica e il Te Deum consacrarono la nascita del nuovo Istituto.

Ubbidiente, Alfonso rimaneva a Napoli, ma il suo cuore era a Scala, partecipe della gioia: il suo saper fare con le suore e con Mons. Guerriero nel settembre 1730 aveva permesso all’Opera del Signore di maturare al punto giusto. Falcoia, che lo sapeva bene, gli perdonò finalmente d’essersi rifiutato d’intervenire ulteriormente, scrivendogli il 20 maggio 1731:

“...non mi ho preso collera: né si formalizzi dal vedere che ho differito rispondere; essendo ciò derivato dall’essere stato indisposto... Quante ragioni! Con assai manco spesa la pace era già fatta. Cordialmente l’abbraccio; e mi ricordo alle sue orazioni. Ed oh! Vi potessi avere alla mano, per opere di gran rilievo per il servizio di S. Div. Maestà. Con molta pace, spirito e vantaggio si è dato principio al nuovo Istituto”.

Solo due lapidarie linee di resoconto per Alfonso! Quanto a Maria Celeste, non doveva montarsi la testa dopo il grande avvenimento, opera sua in fin dei conti! Ella gli aveva da poco comunicato per l’ubbidienza ricevuta, una delle illuminazioni sperimentate spesso durante il ringraziamento alla comunione e il vescovo ne approfittò per battere forte sul chiodo dell’umiltà:

Resto ammirato, di tante rivelazioni! Né figlia mia sempre vi parla Gesù Cristo. Io non credito alle vostre visioni, e rivelazioni e voi dovete esserne ben’ contenta; perché non dovete darli credito né pur voi. Io mi regolo con altre massime, che con le vostre dicerie; e se voglio sapere quel’ che sentite, è per sicurezza, e regolamento dell’anima vostra. Gesù Cristo vi benedichi...”.

Verso la metà di luglio, Maria Celeste comunicava ad Alfonso queste espressioni di Falcoia risalenti forse all’inizio dell’estate:

Padre e Fratello dello spirito mio nel Signore... Vi accludo qui

 

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un biglietto venutomi da Mons. Falcoia. Leggetelo e vedete come parla bene di me. Nessuno mi conosce così bene come lui. Hai, ho il mio Dio e che ne ho a fare io di me, sia come si voglia. Tra li altri guai miei Falcoia basterebbe per mettermi sotto sopra, se Dio non mi aiutasse. Ma non so perché non mi posso fermare a guardarmi. Mi fo portare dalla corrente della divina providenza. Vi mando questo viglietto di questo mio padre, acciò voi ancora vi credete del vero, e non ti fai ingannare dalla mie parole, forse non di quella luce di verità come le fa la mia guida.

Una pena provo nel mio cuore con il detto Padre, ed è che egli si crede che io abbia desiderio di esser stimata e tenuta in congetto da lui e che io gusti di dire le cose mie a lui, acciò mi stimi da santa. Questo che penetra l’anima mia di lui, mi cagiona una nausea incredibile, e se volesse secondare quello moto di nausea, non li scriverebbe mai niente. Procuro però fingere questo sentire quanto posso, sebbene mi sento con esso tutta la dilezione possibile, ma ho pena che il mio cuore li sia così occuldo, giacché mi è Padre...

Li nostri abiti sono quasi tutti all’ordine...”.

E pressantemente l’invitava alla vestizione prevista per la festa della Trasfigurazione. Il 6 agosto 1731 fu come il battesimo del giovane Istituto nato dallo Spirito a Pentecoste: il saio nero delle Visitandine fu sostituito dalla tunica rossa e dal manto azzurro di coloro che ben presto verranno chiamate Redentoriste; alla cintura, il rosario della Madonna; sul petto, l’immagine del SS. Salvatore; per volere del Falcoia verrà aggiunto uno scapolare azzurro come il mantello.

A questa “trasfigurazione” si registrarono due grandi assenti: Falcoia impedito e Liguori trattenuto dall’ubbidienza. Ma gli avvenimenti della Pentecoste e del 6 agosto non passarono inavvertiti a Napoli, dove si riaccesero le discussioni. Il vescovo di Castellammare, sempre pronto a reagire, già nel corso di giugno stese una lettera-apologia, purtroppo per noi perduta, che, diffusa nella capitale, letta e discussa nei circoli dei teologi, iniluì efficacemente e positivamente sull’opinione pubblica nei riguardi dell’Opera di Scala. Alfonso stesso però, che non perdeva occasione per affermare il proprio punto di vista, ne restava l’avvocato più convincente, come costatava Falcoia nella lettera inviatagli da Scala il 4 novembre:

“Queste benedette figlie poi sono impegnatissime per lei... Mi sono rallegrato all’avviso. che il nuovo Istituto si vada accreditando: Lei n’ha il merito, perché gliene il peso. Ma qual sarebbe la sua consolazione nel vedere come s’avanza lo spirito loro nell’imitazione di Gesù Cristo; e come giorno per giorno crescono nel fervore...

Ora sto faticando sopra la Regola...”.

 

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Ah! la Regola... Esisteva un Istituto con un abito multicolore ma senza una Regola, perché Falcoia aveva conservato presso di sé il testo della Crostarosa e confiscato le copie fatte a cura di suor Maria Angela. Tuttavia lo spirito e le osservanze erano molto vivi tra le suore, che camminavano, anzi volavano con il fervore dei grandi inizi. Maria Celeste notava soprattutto l’ardore nell’imitare il Salvatore nella sua passione:

Cominciarono quelle religiose a correre velocemente dietro il loro Sposo e Maestro con gran fervore di spirito; le mortificazioni della carne erano molto straordinarie, unite con quelle dello spirito inzieme... i cilizij, le discipline erano j loro condinui esercizij con le vigilie della notte in ferventi orationi avanti il SS.mo Sagramento...”.

Il P. de Liguori, certamente rapito da questa assiduità dinanzi al tabernacolo, non dovette però farsi mallevadore per queste macerazioni, che pure non risparmiava a se stesso. Negli stessi giorni infatti scriveva ad altre monache, che gli avevano chiesto strumenti di penitenza per santificarsi maggiormente:

“Che catenelle! che cilizi! Vi mando una buona provvista di libri che, meglio delle catenelle, possono aiutarvi a farvi sante ”. E spediva loro otto libri di meditazione, undici opere di spiritualità e sei vite di santi .

Ma le suore di Scala non avevano neppure il libro delle Regole e delle Costituzioni... Chiesero perciò a Falcoia uno degli esemplari in suo possesso delle Regole scritte da Maria Celeste, ricevendo questa risposta sbalorditiva o estremamente scaltra:

- Mi occorrono. Li tengo io. Celeste ne faccia un’altra redazione

- Padre mio - lo supplicò la povera suora - mi pare una gran prosunzione la mia mettermi a scrivere di nuovo dopo tanti anni scorsi che l’anima le à riceute dal Signore... vi si richiede un manifesto miracolo del Signore.

Partita la lettera, la Crostarosa cominciò a rimproverarsi la sua disubbidienza e una sera prese penna e carta, inutilmente... Spense il lume e si coricò. Sentì allora il Signore: “ Sei stanca, riposati in me ” e in questo riposo ebbe una visione interiore: il cuore di Gesù trasfondeva in lei il suo sangue abbondantemente, mentre redigeva con giubilo e amore le Regole. Il Signore le chiese

- Hai tu confidenza in me?

- Certo, Signore.

- Non credi tu che jo possi farti scrivere la Regola di nuovo non solo in abbozzo, come prima hai scritto, ma nella sua compita perfettione?

L’indomani la mano di Maria Celeste volava sulla carta e la

 

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Regola fu scritta in sole due ore. Redasse poi le Costituzioni, sempre sotto intensa assistenza del Signore.

Perché a questo punto Falcoia tentò Dio e la sua penitente? Cercava una controprova all’ispirazione divina del primo testo, oppure, dando per scontato divergenze tra le due versioniispirate”, voleva imporne una terza, la sua?

 

In primavera e in estate Alfonso non fu a Scala, perché, tranne la piccola missione di Arenula dal 9 al 16 giugno, si dedicò totalmente al suo ministero napoletano. Il 24 luglio dai confratelli di Propaganda ricevette l’incarico del ritiro per i sacerdoti dell’ottobre 1732: avrebbe avuto così un anno intero per prepararsi.

Lo collegava con Scala una corrente di vita, interiore ed epistolare. Crescevano infatti la fiducia, l’amicizia, la fraternità, senza ombre di dominio maschilista, in una convivenza interiore profonda, fatta di santità e di ascolto del disegno di Dio.

In estate Maria Celeste gli scrisse:

“Una mattina, doppo la santa Comunione, ritrovandosi l’anima mia in quel solito riposo di amore nel mio Giesù, mi si fece una chiarezza nel anima e vidde Mamma Maria...

Il mio Sposo Giesù fece donatione alla sua cara Madre di tutte le anime di questo istituto, consegniandocele per sue care figlie; ed ella con grande amore le accettò...

Mi occorse pregare la mia cara Madre Maria che mi desse lume, se dovea o no conferire le cose dell’anima mia con V. R., già ché a me pareva di stare senza guida, già ché il mio Direttore ora non può come prima assistermi. Indesi da questa gran Madre dirmi: Figlia, io ho mandato qui questo mio figlio per tua consolatione ed aiuto. Dilli tutto il cuore tuo e obbedisci alle sue parole, ora hai bisognio di questo aiuto. E il mio Sposo in una simile preghiera, fatta da me doppo la Communione, mi disse: Sì, sposa mia, ti ò dato questo Padre e compagno nuovo nell’amor mio, che come vero Padre ti aiuterà nello spirito intraprendi ad obbedirlo...”.

La Crostarosa, che non era tipo da farsi pregare, a settembre riprese in mano la penna:

Padre mio, ora che Dio mi à dato comodità di parlarvi, devo io dirvi una sorta di communicatione che mi suole accadere per lo più doppo la Communione, sì come fu la prima domenica di questo mese di settembre... non con l’udito corporale, né con forme di parole, sebene io qui a basso con forma di parole le noto per farmi indennere:

Figlia... non ti ricordi tu come io ti diedi quest’Istituto? che fu una trasformatione dell’anima tua nella mia vita... Tutta la mia vita, opere e virtù, jo portai tanto nascosta e segreta, che da quasi tutto il mondo fu tenuta e condannata, dispreggiata et avvilita. Anche i miei

 

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dubitorno. E questo durò fino allo spirare della croce. Il tutto passò in dispreggio. Ed in questo diedi al mio Padre la magior gloria che mai creatura potesse darli, e feci i fondamenti veri alla Chiesa mia Sposa: restaurai i mali della superbia del mondo. La mia vita fu un tesoro nascosto ne i dispreggi e nella vera umiltà. Sappi che questo è lo spirito del vostro istituto: il proprio disprezzo di voi stesse...”.

Alfonso conserverà per tutta la vita le lettere di Maria Celeste, annotandovi, come su tutti gli altri documenti che archiviava, qualche parola che ne evidenziasse con immediatezza il contenuto; così sulla lettera che ora abbiamo citato pose: “Comunicazioni. Celeste”, su quella invece che segue, di fine settembre o inizio ottobre, troviamo: “Per me”:

Padre mio, mi occorse nell’orazione, mentre stavo pregando il Signore che mai avesse permesso che dal suo amore ci separassimo in eterno. Mi fu mostrato dal Signore nel eternità il luoco e la gloria che egli vi tenea apparechiata per premio del amore e fatighe fatte per lui. Mi promesse che in questa vita mai ci saressimo separati dal suo amore.

Una mattina, dopo la Comunione, ebbe una notabile chiarezza de i beni e doni fatti dal Signore al anima sua. Mi disse il Signore: Tu riceverai molte gratie da me per mezzo di quest’anima e lui riceverà per mezzo tuo molte gratie dalla mia misericordia. Il segnio reale che io dono a questo mio servo, acciò conosca che io l’amo sarà che tutte le anime, che staranno sotto la sua cura, io benedirò con aumento inumerabile di grazie e salute, anche quelli che odono le sue parole riceveranno copia di beni eterni. E questo sarà il segnio più chiaro del mio amore... Io ho fatti a lui i maggiori doni del mio puro amore... che conducano all’ultimo fine supremo della mia unione...”.

Gli echi di questa lettera e di altre confidenze furono da Alfonso preziosamente raccolti, quasi lamine di gioia, nelle sue Cose di coscienza a pagina 36:

Unito in spirito in Dio...

Bene Gesù, seguo le strappate dolorose, e dirmelo per essere più grato.

Bene la Madonna, tra Figli più cari suoi... Dato a lei in cura, e che mi accompagnasse nella conversione dell’anime.

Demonio maledice l’ora (in cui mi sono) dato a Dio. E tutto quel ch’ho fatto per detto Monastero.

E Giesù all’incontro ha benedetto tutto.

Vidde scritto il mio nome nel core di Giesù, predestinato.

E che Giesù si compiaceva tanto della mia devozione a Maria.

Mi riconobbe tra figli di Maria.

Celeste. Che sempre uniti in grazia di Dio”.

 


 

 

 

 





p. 275
1 Per questo capitolo e il seguente, riferirsi a queste fonti: Famiglia Crostarosa: Analecta”, 34 (1962), pp. 58-61, 222-225; - Maria Celeste Crostarosa: l’opera magistrale di S. MAJORANO, l’imitazione per la memoria del Salvatore; B. D’ORAZIO, La Ven. Sr. Maria Celeste Crostarosa: è la sua autobiografia presentata e edita in maniera non critica [nella presente traduzione correggiamo i testi secondo gli originali]; SH 5 (1957), pp. 407-415; 12 (1964), pp. 79-128; 14 (1966), pp. 338-373; - la Relazione stesa a caldo (1726) da suor M. Raffaella: “Analecta”, 3 (1924), pp. 256-268 e 4 (1925), pp. 35-46; - la corrispondenza tra Alfonso, ecc. e le suore di Scala SH 23 (1975), pp. 14-39; “Analecta”, 4 (1925), pp. 223-235; 5 (1926), pp. 43-46, 51, 116-121; 6 (1927), pp. 45-60; - S. Alfonso, Lettere I, pp. 1-14; - Falcoia, Lettere, pp. 68-113; - GREGORIO, Mons T Falcoia, pp. 131-250. In francese un approccio poco rigoroso è J. FAVRE, Une grande mystique au XVIII siecle, La Vénérable M. C. Crostarosa, Paris-St-Etienne 1931.



p. 277
2 Occorre ricordare che la nonna paterna di Alfonso, Andreana, era della famiglia Matrillo di Nola, città nella quale nacque don Giuseppe de Liguori?



p. 281
3 Il concilio Lateranense IV (1215) aveva proibito qualsiasi nuovareligione”, per cui qualsiasi fondazione doveva raccordarsi a una delle quattro regole antiche: di san Basilio, di sant’Agostino, di san Benedetto o di san Francesco d’Assisi, a cui si aggiunsero nel corso del secolo XIII quelle dei Trinitari e dei Carmelitani; cf. Histoire du Droit et des Institutions de l’Eglise en Occident diretto da G. LE BRAS e J. GAUDEMET, t. X, Les religieux, curato da J. HOURLIER, Paris 1974, p. 32.



p. 284
4 Confondendo i ricordi, Maria Celeste colloca la venuta del confessore durante il superiorato di Maria Giuseppa (Autobiografia, p. 164), mentre la sostituzione di Falcoia non fu decisa e annunziata che a natale del 1726, cioe sei mesi dopo l’elezione di Maria Angela.



p. 285
5 Al re spettava la nomina, con riserva di accettazione da parte del papa, per 22 sedi episcopali del regno, tra cui Lanciano (Abruzzo) e Castellammare, allora vacanti. si è scritto e ripetuto che Falcoia rifiutò l’arcivescovato di lanciano, mentre in realtà, nominato dal re per quella sede e saputolo da indiscrezioni, non rifiutò, ma fu preconizzato da Roma per una diocesi più piccola, che ugualmente non rifiutò, cf. GREGORIO, Mons T. Falcoia, pp. 253-259.



p. 289
6 È la famosa lettera del marzo 1733, che si trova in Lettere, I, p. 27. nessun documento ci permette di affermare che Pagano fosse contrario alla predicazione dei ritiri nel settembre 1730 a Scala; Alfonso avrebbe ubbidito.



p. 290
7 RIPA, op. cit, p. 452.



8 Per diverse gravi malattie e per la proibizione di Filangieri.



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