Theodule Rey-Mermet
Il santo del secolo dei lumi
Lettura del testo

Parte seconda “VA’, VENDI I TUOI BENI E SEGUIMI” (1723-1732)

22 - “FACENDO A GESU’ CRISTO UN SACRIFICIO TOTALE DELLA CITTA’ DI NAPOLI...” (1731-1732)

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22 - “FACENDO A GESUCRISTO UN SACRIFICIO TOTALE

DELLA CITTA’ DI NAPOLI...”

(1731-1732)

 

Scala, settembre 1731, un anno dopo. Dal 6 al 14 il P. de Liguori predicò nuovamente la novena del Crocifisso, in un gioioso ritrovarsi con il vecchio vescovo e le monache. Non poteva però attardarsi troppo, avendo fatto voto di non perdere neppure un minuto.

Quindici giorni dopo la sua partenza, a sua insaputa, fu proprio lui a mettere sottosopra il monastero.

“Mentre una sera la consaputa religiosa, che avea ricevuta la nuova Regola - spesso Maria Celeste designa così se stessa nell’Autobiografia - si trovava in refettorio ed era la vigilia di S. Francesco di Assisi, 3 ottobre dell’anno 1731, il Signore in un momento tirò a sé lo spirito della consaputa religiosa. Inni se li mostrò nostro Signore Gesù Christo assieme col Serafico Padre S. Francesco in lume di gloria ed il padre D. Alfonso di Liguori era ivi presente. Allora il Signore disse alla consaputa religiosa: Quest’anima è eletta per capo di questo mio Istituto: egli sarà il primo superiore nella Congregazione delli uomini. E la consaputa religiosa vide ella in Dio quest’opera già fatta e come effettuata. Restò l’anima sua piena di giubilo, senza poter prendere altro cibo corporale, sospesa da una gioia interiore, e li restò la compagnia di quel Santo Patriarca, che trasformato nel nostro Signore Gesù Christo compariva. E questo durò mentre durò la mensa e per allora non gli fu dichiarata altra cosa. Ma la consaputa religiosa non ne fece conto di questa cosa, passò avanti senza volervi credere”.

Questo il sobrio racconto della Crostarosa. La versione del Tannoia costituisce un commento del più alto interesse riguardo alla storia e al primitivo intento della congregazione dei Redentoristi:

Alfonso “non partì di certo col cuore da S. Maria de Monti né si lasciò addietro i suoi diletti Pastori, e Caprari. Considerando il loro bisogno ne piangeva, e pregava Iddio a voler prescegliere, tra figli di Abramo, chi fosse per interessarsi per loro bene... Iddio che in Scala aveva cominciato ad abbozzare nel cuore di Alfonso i primi disegni

 

 

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dell’Opera sua, anche in Scala con altro tratto di Provvidenza, volle perfezionarli .

Viveva in quel conservatorio una Religiosa di santa vita, molto favorita da Dio. Questa niente consapevole di quello passava per capo ad Alfonso, in un’estasi ch’ebbe, vide in ispirito, e fu nel giorno terzo di ottobre 1731, una nuova Congregazione di Preti tutta sollecita in .ajutare milioni di anime, che abbandonate vivevano, e senza ajuto in tanti villaggi, e contadi; e tra questi Alfonso, che presedeva a tutti. Nel tempo medesimo s’intese dire: Quest’anima è quella, che ho eletta per capo di quest’Opera di mia gloria1 .

Torniamo all’Autobiografia della Crostarosa:

“La mattina seguente era il giorno del Santo Patriarca, del quale la conzaputa religiosa era molto divota. Andò ella a comunicarsi, spensierata affatto di quanto la sera antecedente gli era occorso. Fu di nuovo sorpresa l’anima sua dalla chiarezza e lume del Signore, ove intese che scrivesse nella formola dell’Istituto quelle parole, che sono nel Vangelo che dice: Andate e predicate ad ogni creatura che ej si appressa il Regno de’ Cieli; e sopra di quelle parole avesse proseguito la formola di vita che lui gli dettava nel suo nome. Gli esercizij giornali e spirituali erano gli medemi notate nelle Regole già scritte; così il vestire similmente in tutto come era prescritto nelle consapute Regole. - (Si è esagerato il carattere estroso di questo dettaglio riguardante il vestito, ma si era in un’epoca e una regione dove tutte le confraternite si adunavano, questuavano per le città e andavano in processione in uniformi colorate: bianche, azzurre, rosse). - Ma che li congregati tutti dovessero vivere in povertà Apostolica, sì come quel amato suo Servo, che quel giorno si celebrava la festa, che così da vicino l’avea imitato. Ma che di tutti j loro beni temporali ne facessero deposito a’ piedi del Superiore; che si facesse un deposito comune, che si chiamasse deposito de’ poveri e di questo si servissero per le missioni, per far lemosine a vedue e pupilli, secondo il bisogno, a disposizione del Superiore. Ma se per limosina gli fussero dati capitali o entrate, si potessero ricevere e riporli in questo deposito de’ poveri e come cosa non propria, ma di altri... Nelle viaggi, non siano assai distante dalle loro abitazioni, andassero a due a due, predicando la penitenza. Ma quelli che fussero chiamati alla vita contemplativa o eremitica non siano impediti, perché queste anime, che attennano in solitudine al oratione, aiutano maggiormente alla conversione delle anime a coloro che sono destinati alla predicazione. Siano almeno tredici per ciascheduna casa e non sia in loro eletione andare per le Missioni ma quando saranno mandati e eletti dal Superiore2

 

Non ci si può inoltrare maggiormente nelle “rivelazioni” di Maria

 

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Celeste Crostarosa, senza porsi il problema della loro natura e della loro autenticità. Queste “visioni” e “comunicazioni” erano di carattere sensitivo, immaginativo, spirituale o semplici illusioni?

Nessuno storico di Alfonso o di Maria Celeste ha parlato di illusione. La profondità e l’originalità del messaggio delle lettere e della quindicina di scritti di questa donna senza cultura (aveva letto poco oltre il Vangelo e non aveva neppure imparato a scrivere) testimoniano una genialità spontanea, meravigliosamente sicura e coerente, e una evidente assistenza dello Spirito. Del resto ella mantenne, attraverso tutte le peripezie della sua vita, una padronanza e un equilibrio affascinanti. Quanto al contenuto, è risaputo che le rivelazioni private anche più credibili sono frammiste a elementi personali e sociologici, che certo vanno decantati ma che non alterano la sostanza del messaggio: basta pensare a sante come Brigida di Svezia, Caterina da Siena, Maria Margherita Alacoque. Il messaggio infine delle rivelazioni private non può imporsi a nessuno, non può diventare articolo di fede e, sul piano dell’ortodossia, resta sottomesso al giudizio della Chiesa. Maria Celeste parla solo di fenomeni interiori, anche se i suoi prolungati rapimenti erano noti in comunità; comincia sempre con il rifiutarsi ad essi e non fa alcun mistero di aver introdotto nelle Regole molta farina del proprio sacco 3 . Giudicare sull’origine divina o umana delle sue “comunicazioni” non spetta allo storico, che deve solo registrarle come dati oggettivi e tentare di stabilirne la portata sull’ulteriore sviluppo degli avvenimenti.

Alfonso, lo vedremo, rifiuterà l’abito multicolore, che lascerà volentieri ai soli prelati; la vita eremitica o claustrale ripiegata su se stessa; L’orario delle suore, incompatibile con l’azione apostolica, la comunità di tredici membri (il Cristo e i dodici) e l’andare a due a due in missione, imitazione troppo materiale della vita apostolica. Protesterà sempre di non essersi poggiato, per la sua fondazione, su lumi straordinari ma solo sui principi del Vangelo (“Portate la buona novella ai poveri, a ogni creatura”) e sulle indicazioni dell’ubbidienza, non tollererà nelle Regole dei Redentoristi alcuna allusione a rivelazioni e, infine, nella sua Praxis confessarii al n. 140 prescriverà un solido scetticismo di fronte ai visionari.

Tutto ciò però non gli impedì di incastonare preziosamente nel suo diario spirituale le illuminazioni particolari ricevute su di lui da Maria Celeste; su quei foglietti intimi, destinati a essere letti solo da Dio e dai suoi angeli, troviamo a pagina 56 riguardo alla primavera 1732:

Voto di religione: l) Fu giuramento commutato almeno per li scrupoli. 2) Vita equivalente. 3) Mutate le circostanze; almeno per aspettare l’esito dell’(istituto?) dove chiamato per rivelazione e per Padri Spirituali senza poterlo metter più in dubbio”.

 

 

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Questo per la storia interiore di Alfonso negli anni 1731-1732 per la fondazione dei Redentoristi, il messaggio di Maria Celeste non fu né il fattore iniziale, né il motivo decisivo, ma al contrario l’ostacolo maggiore, anche se ne determinò il tempo e il luogo, ne influenzò la Regola e lo spirito e avrebbe potuto caratterizzarli in maniera molto più ricca e felice, se Falcoia non avesse voluto per ben dieci anni ridurre ogni cosa alla sua misura.

 

Per ubbidienza, dunque, Maria Celeste scrisse a Falcoia le sue “rivelazioni” del 3 e 4 ottobre, causando un forte shock al prelato che da venti anniaspettava” una congregazione di missionari coi fine di imitare le virtù di Gesù Cristo e forse verso il 1710, al tempo del suo soggiorno romano, ne aveva anche avuto l’intuizione soprannaturale Si è parlato a questo proposito di “visione del Tevere”, “visione improvvisa di una nuova famiglia religiosa di uomini e di donne” ma si tratta di una fioritura senza radici storiche, perché l’unico documento, al quale dobbiamo tale amplificazione, è quello steso dal P. Cesare Sportelli (1701-1750), uno dei primi compagni del fondatore.

Questi era allora avvocato del foro di Napoli, dove aveva conosciuto Alfonso. Da lungo tempo ammiratore e penitente del P. Falcoia dal 1730 viveva, come la madre divenuta religiosa, a Castellammare da discepolo affezionato e quasi segretario del nuovo vescovo. In forza di questo duplice titolo, verso il 1733, avrebbe abbozzato su pochi foglietti un progetto di memorie sulle origini dell’Istituto.

Dopo un preambolo, la cui enfasi invita per reazione a non ingrandire le cose, dichiara che da Mons. Falcoia “appena ci è riuscito il ricavarne qualche mezza parola” sul suo segreto:

Trovavasi non sappiamo come, presso le sponde del Tevere, quando fu tocco talmente da un lume celeste, il quale scuopriva a lui quanto disegnava la divina Bontà a prò della sua Sposa, che non si poté rattenere di esultarne in guisa che un Padre che ritrovavasi con essoseco, ne comprese in qualche maniera i divini disegni4.

È molto? è poco? Tutto il resto è romanzo imbastito dagli storici redentoristi della seconda generazione, che, malgrado il silenzio di Tannoia e di Landi, parlano della fondazione, “tentata” da Falcoia nel 1710 a Taranto, di una congregazione di tredici preti votata all’imitazione delle virtù di Gesù Cristo, tentativo che sarebbe in seguito fallito. In realtà Falcoia (come poi Alfonso e gli altri missionari) fondava simili associazioni durante le più importanti missioni, cosicché, lasciata Taranto, non si interessò più di quella che aveva stabilito e che non fu un fallimento perché rimase in vita fino al 1923 5 . Tuttavia sembra che Alfonso, in una lettera a Maria Celeste di fine marzo 1733 si riferisca proprio alla “illuminazione” del Tevere:

 

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“Noi sappiamo che Falcoia per quest’Istituto, Celeste mia, non solo ha seguitato la rivelazione tua, ma ha seguitato ancora i lumi d’altri, e specialmente i lumi che Dio ha dato a lui medesimo prima che egli ti sapesse. E perciò, da tanti anni, è andato cercando, ed in Napoli, ed in Roma di stabilir quest’Istituto, seguitando sopra tutto il lume dell’Evangelio, che vale più de’ lumi tuoi e de’ lumi suoi”.

Perché non si sa niente di questi tentativi di Falcoia? Sembra che egli sia stato piuttosto una sentinella all’erta, tanto che, appena ricevuta la lettera di Maria Celeste, corse a Scala, mentre l’interessato Alfonso, era ancora all’oscuro di tutto.

Ma la superiora, Maria Angela, non seppe trattenersi dall’indirizzargli, il 25 ottobre, queste enigmatiche parole:

“Noi ora appunto stamo col nostro P. Falcoia... Suor Maria Celeste e Colomba ancora vi averebbero da scrivere sopra il consaputo negozio - (il nuovo Istituto evidentemente. C’è dunque qualcosa di nuovo?) - , ma non ancora ne hanno avuto il congedo dalla santa obedienza, né voi quanno lo saprete mostratevi inteso di queste brevi parole... Io sto attualmente negozianno collo Sposo e con Mamma Maria che manna assai operarii seconno il suo cuore nelle vigna della santa Chiesa ” (Ah! operai secondo il cuore di Cristo?...).

Quello stesso 25 ottobre Alfonso insieme al Sarnelli, diventato suddiacono a marzo, terminava il ritiro, predicato dal suo confratello Giuseppe Iorio al clero della capitale. Le misteriose righe della superiora gli giunsero in mezzo allo scompiglio della missione annuale allo Spirito Santo, dal 27 ottobre al 4 novembre.

Le donne! Lasciano indovinare tutto e non fanno capire niente!

Però proprio il 4 novembre da Scala, dove ancora si trovava, lo stesso Falcoia gli riproponeva l’enigma:

“Quando verrò a Napoli, Deo dante, subito glielo farò sapere... perché devo conferirgli un da fare di molta premura, ch’in qualche maniera concerne la sua cara persona...

Ora sto faticando sopra la Regola, che poi gliene farò fare presto una copia; perché la osservi, la consideri, e la facci considerar da qualch’altro inteso di simile materia. Tanto più, che Monsignore (Guerriero) vuole, che passi sotto gli occhi suoi, e ne facc’il giudizio, che la sua prudenza li detterà”.

Falcoia, sofferente di nefrite e di surmenage episcopale, non poté programmare tempestivamente il viaggio a Napoli. Ma l’affare premeva, per cui a metà novembre pregò il giovane amico di venire a Castellammare per una cosa di grande importanza riguardante la gloria di Dio. Alfonso si affrettò, facendosi accompagnare da Mazzini e Mannarini.

Il P. Giuseppe Landi (1725-1797) ci ha lasciato un racconto del-

 

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l’incontro nella sua Istoria manoscritta. Il vecchio vescovo, soggiogato, come tutte le altre volte, dalla gentilezza, modestia, disponibilità, fervore irradiante del giovane cavaliere in abito liso, subito, senza una parola su Maria Celeste, andò diritto allo scopo.

- Ho intenzione di impiantare nella Chiesa un nuovo Istituto di operai apostolici e voi sarete la pietra fondamentale di questo edificio.

Liguori arrossì e ringraziò profondendosi in scuse:

- La vostra amicizia vi fa andare fuori strada, padre... Mi proponete un’avventura dove ci sono più possibilità di perdere che di vincere, mentre a Napoli, ai Cinesi, nelle missioni, nei ritiri ho tanto bene certo da fare, che mi assorbe interamente, forze e tempo. Lasciare il certo per l’incerto? In ogni caso bisognerebbe riflettere molto, pregare, consultarsi, conoscere il pensiero del mio direttore, il P. Pagano...

Falcoia non si mostrò incantato da questa indipendenza, perché l’opera gli premeva:

- Avrei perfino voluto trattenervi subito, per mettervi al lavoro. Non si può far aspettare Dio... Dopo tutto però la vostra circospezione non è da deridere, tutt’altro. Vi capisco, anzi vi approvo. Si tratta di un’impresa notevole, nella quale è in gioco l’onore di Dio. Pesate la cosa, chiedete consiglio: il vostro direttore, va benissimo. Raccomandiamoci al Signore per conoscere la sua volontà.

Poi, scoprendo le sue carte:

- Aspetto con fiducia una vostra risposta. L’idea infatti viene non tanto da me quanto da un’ispirazione del Signore che mi persegue da lungo tempo e ora visioni di anime sante hanno delineato il disegno di questa congregazione e premono perché non si ritardi più 6 .

C’è quindi del nuovo a Scala. Senz’altro è il segreto che pesava tanto sulla superiora e che Maria Celeste non aveva il permesso di comunicargli!

Alfonso e i suoi compagni si mossero subito da un versante all’altro: salirono a S. Maria dei Monti, L’altopiano della grazia iniziale, e scesero a Scala, dove le suore, felicissime, li ospitarono nella loro foresteria (quattro vani a due piani) a cinquecento metri, in Via Torricella. Con Mazzini Alfonso si portò in chiesa e, nel piccolo vano confessionale (visibile ancora oggi a destra del presbiterio), ascoltò alcune confessioni, seguite poi da un lungo dialogo con Maria Celeste. Intanto nella navata il compagno pregava.

Con la sicurezza data dalla rettitudine, Crostarosa raccontò al Liguori le rivelazioni del 3 e 4 ottobre:

- L’opera del Signore comprende anche un Istituto maschile... e Dio vuole te per fondarlo.

Il sacerdote dapprima restò muto, sotto shock. Ma non aveva

 

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riconosciuto lui stesso l’autenticità delle prime rivelazioni? E tutto questo non si ricollegava all’interrogativo, che gli aveva colpito il cuore e la coscienza a S. Maria dei Monti? Rivedeva i pascoli e i caprai; sentiva l’appello degli abbandonati... Sì, ma la responsabilità era sovrumana. No, no, lui così miserabile non poteva pensarci. E poi visioni!...

- Tu, Celeste, prendi i tuoi sogni per manifestazioni divine. I a tua immaginazione ti porta fuori strada.

- Sviata, pazza, tutto quello che vuoi! Ma Dio vuole questo Istituto e che sii proprio tu a cominciarlo.

“E quanto più Alfonso la contrariava - riporta Tannoia - quella tanto più insisteva, che Iddio voleva da lui una tal’Opera in sussidio de’ villani, e delle anime più abbandonate”.

Nel corso dell’incontro Mazzini aveva lasciato la chiesa, certo per discrezione, e raggiunto Mannarini all’ospizio (situato a un livello inferiore riguardo a Via Torricella, l’entrata immetteva direttamente nel piano delle due camere, da dove si scendeva nei vani inferiori, uno dei quali sala da pranzo). Il tempo passava, passava, mentre si aspettava Alfonso per cominciare il pasto... Ma lasciamo parlare lo stesso Mazzini nella sua testimonianza al processo di canonizzazione:

Viddi un giorno, che stava egli confessando nella Chiesa, e sentii un spirituale contrasto, ch’egli faceva con una Monaca di quel Monistero nel Confessionale, e quindi finito ebbe di confessare, se ne salì in Casa, e si ritirò nella sua Camera, dove l’intesimo piangere dirottamente. Era già l’ora della tavola, onde io mi feci animo di entrar dentro per sapere cosa mai era quella sua afflizione, se forse era stata la cagione il suddetto contrasto, dicendoli, che se non era stata cosa di confessione, L’avesse pure schiettamente manifestata per vedere se era cosa da potersi da noi rimediare.

Udendo ciò il Servo di Dio mi disse:

- Suor Maria Celeste... mi ha detto, che io lasciassi Napoli, e fondassi qui un Istituto addetto solo a far Missioni per li Villaggi, e Paesi rurali, che avevano bisogno di ajuti spirituali, che ivi mancavano, come non mancavano tanto nelle Città, e luoghi culti, per esser questa la volontà di Dio: ma io come voglio fare? non è cosa possibile per tutt’i versi. Voi sapete le mie applicazioni in Napoli, l’impiego delle Missioni, ed altre cure per bene del Prossimo...

Ed esagerava l’impossibilità della riuscita, e nel tempo stesso che non eseguendo l’insinuazione di quella Serva di Dio, si opponeva egli alla divina volontà; e perciò fra questi dubbj si sentiva mancar lo spirito, e venir meno.

Allora io procurai di consolarlo con molte ragioni, e specialmente li dissi:

 

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- Non ti dissanimare D. Alfonso mio, chi sa che ne vuole Iddio bisogna pensarci.

Al che ripigliò egli dicendo:

- Ma li Compagni dove sono?

Io soggiunsi:

- Eccomi qua io sono il primo. Via andiamo ora a reficiarci un poco, e lasciamone la cura a Dio.

Si rasserenò subito, e venne a mangiare ”.

Mannarini fece eco al Mazzini: sarebbe stato il terzo del gruppo.

Ormai sul punto di ritornare a Napoli, ognuno avrebbe sottoposto il problema al proprio direttore, per conoscere la volontà di Dio.

Furono di ritorno nella capitale sabato 17 novembre, dal momento che il 19 Alfonso era già presente alle Apostoliche Missioni.

 

- Visioni, novità: due cose di cui diffido a priori. Perciò tagliate netto con Scala e riprendete i vostri abituali ministeri.

Questa fu la prima reazione del P. Pagano, reazione di una persona saggia; quella di Alfonso fu ubbidire e lo avrebbe fatto con piena gioia, se l’ossessione degli abbandonati non gli fosse rimasta dentro, giorno e notte.

Proprio su di essa faceva assegnamento Falcoia, che il 24 novembre tornava alla carica:

“Il Signore vi vuole, sì signore anzi v’ha scelto per una Pietra fondamentale di quest’Edificio. Io non so qual motivo poss’averne per metterlo in questione e dubitarne. Il vostro cuore medesimo non ve lo dice? Le disposizioni nelle quali si ritrova, d’abbracciare coraggiosamente tutto il più ripugnante al cuore di carne, e seguitar il gran Maestro che li va avanti, non ve n’assicura? Possono essere questi sensi derivanti da altro spirito, fuorché dallo Spirito Santo, poiché sono tanto contrari agli appetiti del vecchio Adamo, e tanto a misura del nuovo che per farsi nostro esemplare ha fatto tanto, e tanto patito? Non ne sia più. Pregh’il Signore, ch’assecondi con la sua grazia, e lei si prepari a fare, e patire gran cose, per amore di Sua Div. Maestà.

Mille abbracci al mio dolcissimo Sig. D. Matteo (Ripa); e lo preghi, che non pubblichi quel che sa”.

Ripa era da poco partito per Roma, dove si tratterrà otto mesi, senza sapere niente, però lo scalpore fu grande, quando ai Cinesi cominciò a filtrare qualcosa dei progetti di Liguori e di Mannarini.

 

Riprendete i vostri abituali ministeri”, aveva sentenziato Pagano e per Alfonso si trattò di una campagna missionaria contrassegnata come nessun’altra da segni già di rottura.

Il precedente martedì santo, 20 marzo 1731, il terremoto aveva

 

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seminato rovine in Puglia, da S. Severo a Lecce, e la sola Foggia aveva dissepolto dalle macerie più di tremila morti. L’Icona Vetere (antichissima pittura su legno della Madonna, deteriorata dal tempo, ricoperta da una placca di argento, tranne l’ovale del viso, dove dietro il vetro non si vede altro che un velo nero) era stata strappata dalla collegiata di S. Pietro, che già crollava, da un sacerdote a rischio della vita.

I foggiani, mentre la terra ancora tremava e tutti gli edifici religiosi si sbriciolavano o minacciavano rovina, “ rifugiata ” la loro Madonna in una baracca di legno in mezzo a un campo, le si strinsero intorno in preghiera. Il giovedì santo, mentre la città e il territorio circostante erano sangue, grida e lacrime, tutto il popolo vide nell’ovale il volto vivo della Vergine; lo stesso misericordioso prodigio si ripeté l’indomani. Il primo aprile, calmatesi le scosse, la venerabile icone fu portata nella chiesa meno danneggiata, S. Giovanni Battista dei Cappuccini 7.

Per ridare speranza e coraggio a quelle popolazioni religiose e per raccogliere i frutti di conversione fatti maturare dal cataclisma, i vescovi delle regioni sinistrate avevano fatto appello alle diverse società missionarie del Regno, per cui il primo dicembre 1731 Liguori, per la prima volta superiore del gruppo missionario, partì con cinque confratelli verso Taranto (otto giorni di carrozza) e il tallone dello stivale italiano. “Missionarono” lungo il mar Ionio nella diocesi di Nardò, poi sull’Adriatico in quella di Polignano, non lontano da Bari, e il superiore, portando il peso maggiore, assicurò la predica grande. Le popolazioni fecero a gara in manifestazioni di pentimento: donne che svenivano, uomini che battevano la fronte sul pavimento o contro le mura delle chiese...

Non era questo però il mondo degli abbandonati, dei quali ormai Alfonso aveva fame e sete.

Verso metà febbraio 1732 il gruppo, di ritorno, passò per Foggia volendo venerare la Vergine dal volto vivo e Mons. Pietro Faccolli, vescovo di Troia, allora nella martoriata città, accolse con calore e quasi doppia venerazione il santo missionario nipote del suo predecessore, Mons. Cavalieri. Don Francesco Garzilli, canonico della collegiata, volle ospitare in casa sua i quattro missionari (due avevano riguadagnato direttamente Napoli dopo Nardò) e sarà in seguito ricompensato dal Signore: a cinquantasei anni diventeràfiglio” di Alfonso e lo resterà per più di quaranta. Clero e notabili assediarono di visite il nipote del loro precedente vescovo, invitandolo, anzi forzandolo a predicare una novena in onore della Madonna.

- Che dirà Don Giulio Torni, dal quale io non ho il mandato e neppure il permesso?

Il vescovo, anch’egli “fratello” di Propaganda, lo pregava, pren-

 

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dendo su di sé ogni responsabilità; e poi era per la Madonna e per un popolo disastrato... La carrozza dei confratelli partì senza il Liguori che salì sul pulpito della chiesa di S. Giovanni Battista.

Ma v’era gente più fuori che dentro la chiesa, per cui fu necessario piazzare una cattedra sulla porta e, di fronte, L’Icona Vetere; tutti i confessori della città non riuscirono a soddisfare la ressa di penitenti. La Vergine aggiunse un suo premio, come quarantacinque anni dopo, certo in vista dell’incoronazione dell’immagine, testimonierà lo stesso Alfonso, ormai vescovo in pensione, scrivendo ai canonici di Foggia:

“A tutti quelli che vedranno e leggeranno questa nostra lettera facciamo noto e con giuramento attestiamo quanto segue:

Nell’anno 1732, nella città di Foggia, mentre tenevamo un corso di prediche al popolo nella chiesa di S. Giovanni Battista, dove allora veniva custodito il grande quadro con un’apertura - a forma ovale ricoperta da un velo nero, vedemmo più volte e in giorni diversi il volto della Vergine Maria, popolarmente detta Icona Vetere, apparire da quell’apertura. Il suo aspetto era come di ragazza di tredici o quattordici anni, ricoperta da un velo bianco, e si muoveva da destra a sinistra. Abbiamo visto questo volto non come dipinto, ma integro, quasi in rilievo e in carne e ossa, come di una adolescente che si volta a destra e a sinistra. Nello stesso tempo che era contemplato da noi, era ugualmente visto da tutto il popolo accorso per ascoltare la predica, che con grande fervore, lacrime e singhiozzi si raccomandava alla Santissima Madre di Dio.

In fede della verità di quanto detto abbiamo apposto il nostro sigillo.

Dato in Nocera dei Pagani il 10 ottobre 1777.

Alfonso Maria de Liguori, vescovo8.

Per umiltà il santo non dice tutto, perché una sera, licenziata la folla, mentre si stava per riporre la santa icona nel coro della chiesa il missionario, salito sull’altare per esaminarla più da vicino, fu subito rapito in estasi e poté contemplare a proprio agio il più bel viso della terra e del cielo. Dopo una lunga ora, ritornato su questa terra, pazzo di gioia e di... confusione, non trovò di meglio che intonare l’Ave Maris stella, cantandola poi con la sua voce magnifica assieme alla trentina di sacerdoti e di signori presenti. L’indomani, chiamato un pittore, gli impartì istruzioni per tentare di riprodurre qualcosa dei tratti della Vergine ammirevole, dando egli stesso, come vuole la tradizione, gli ultimi ritocchi: è possibile vedere ancora oggi questa “Madonna di Foggia” nella casa dei Redentoristi di Ciorani.

Da Foggia Alfonso volle affidare le pesanti preoccupazioni sul suo futuro all’arcangelo san Michele, uno dei suoi patroni battesimali, venerato sul Monte S. Angelo, a una cinquantina di chilometri. Passò la

 

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notte a Manfredonia ai piedi del monte e Mons. Marco de Marco provò anche lui a trattenerlo per predicare al suo popolo. Ma il missionario questa volta fu più ostinato dell’arcivescovo:

- Vogliate scusarmi, Monsignore, ma io non sono padrone di me stesso. Non ho il permesso del mio superiore.

- Ma avete da poco predicato in Foggia e il cielo non vi è certo precipitato sulla testa.

- Voglia Iddio che, ritornato a Napoli, non venga messo in penitenza per aver avuto troppa accondiscendenza a Foggia!

L’indomani, inerpicatosi sulla montagna (771 metri) su cui si erge il più celebre dei circa ottocento santuari italiani dedicati a san Michele, celebrò la messa con una pietà tale da colpire tutti i presenti e si raccolse a lungo in preghiera: preparava la spada per un combattimento che presentiva tanto terribile da rendere un fiore la probabile sfuriata di Giulio Torni al suo ritorno 9 .

Lunedì 3 marzo il Giornale degli Illustrissimi annotava: “Ha rinnovato l’ordine il medesimo Superiore che niuno fratello predicasse più senza la sua espressa licenza” - Liguori non era ancora rientrato, ma era presente nel pensiero di tutti - ; 10 marzo - il “criminaleera al suo banco - Torni “ha fatto un ordine ai nostri Fratelli rinnovando che nessuno ardisca predicare senza sua espressa licenza”; 17 marzo identico categorico richiamo. Alfonso dovette sentirsi trapassato da parte a parte: tanta insistenza per la scappatella veniale di Foggia? No, Torni guardava più lontano, pensando a certe voci di secessione, di fondazione; tutti sentivano il dramma nell’aria.

Precipitò ben presto.

 

Ritornato dopo i suoi tre mesi di apostolato pugliese, Alfonso trovò un Pagano di parere ben diverso, dopo aver riflettuto e pregato.

- Mi avete posto un problema difficile e tanto delicato, gli spiegò, ebbene ora vi dico senza esitazioni: L’Opera è di Dio; ci va di mezzo l’onore di Gesù Cristo e il bene certo delle anime. Tuttavia, per prudenza, domandate il parere a uomini più illuminati di me, al P. Cuttica, che conoscete da vent’anni, e al P. Domenico Manulio, un gesuita impastato di santità e di sapere.

Ferme e identiche furono le conclusioni di questi due eminenti ecclesiastici: Dio voleva la fondazione la Chiesa ne aveva bisogno: Alfonso vi si dedicasse senza perdere altro tempo. Questo fu anche il parere di altri uomini di Dio che il Liguori frattanto aveva consultato.

Riflettere lungamente, consultarsi molto, pregare ancora di più, poi decidere senza più demordere: era la sua regola, di conseguenza:

Accertato Alfonso della volontà di Dio, si animò, e prese coraggio: e facendo a Gesù Cristo un sacrificio totale della Città di Napoli,

 

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si offerse menar i suoi giorni dentro proquoi, e tugurj, e morire in quelli attorneato da’ Villani, e da’ Pastori10.

Se avessimo voluto porre una frase come epigrafe sul frontespizio della storia di Alfonso de Liguori, avremmo scelto questo passo del Tannoia Ogni grande vita conosce un incrocio, una svolta, un passaggio, dove una volta per tutte vien deciso un orientamento, per il meglio o per il peggio, e fissata la rotta su una vocazione nuova, su una scelta d’essere, spesso imprevista e sconvolgente Allora, morta una vita che sarebbe potuta essere, nasce quella che effettivamente sarà.

La “città di Napoliera per Alfonso un ambito sociale e culturale non privo di prestigio, il suo “ambiente”, nel quale emergeva a livello dei migliori, un popolo che, anche nei suoi poveri giacigli, era ricco di sacerdoti di valore; al contrario i “villani e pastori” erano allora il mondo dei sottosviluppati economicamente, culturalmente, religiosamente; gli “abbandonati”, perché poveri, dal momento che c’è sempre qualcuno pronto a ronzare intorno ai ricchi.

Chi non coglie il mutamento radicale deciso qui da Alfonso, si condanna a non comprendere il Liguori fondatore, il Liguori scrittore, il Liguori moralista. Il cavaliere napoletano di classe, L’intellettuale completo, L’artista raffinato, il sacerdote ricercato da nobili e da anime d’élite, il più stimato degli Illustrissimi nella capitale e nel Regno, a trentacinque anni e sei mesi, nel marzo 1732, scelse per tutta la vita di dire addio al “continente” della sua giovinezza e della sua prima maturità, non senza lacerazioni, “facendo a Gesù Cristo un sacrificio totale della Città di Napoli”, cominciò a mollare gli ormeggi per andare a consumare quanto gli rimaneva di vita nella “Cinadove era chiamato da Dio. Cambiavamondo”.

 

Ma Napoli si rifiutò di perderlo. Dalle confidenze nelle consultazioni era trapelato qualcosa del suo progetto, della sua partenza e gli antichirumori di Scala ”, brace accesa sotto la cenere ancora calda, ripresero fuoco. In pochi giorni forte fu la tempesta contro di lui:

- Ha perso la testa! E’ un fanatico! Un visionario!...

- E pieno di se stesso! Il fumo degli incensieri, agitati intorno a lui da ogni parte, gli ha fatto perdere la testa...

- E poi visioni di monache ! La Chiesa di Dio si fonda ora su allucinazioni! Come se i “lumi” non avessero spazzato via il Medioevo!

I suoi confratelli di Propaganda, primi a scambiarsi queste taglienti parole, arrossivano vedendo Liguori, il più eminente tra di loro, sprofondare in scempiaggini, e diventavano sempre più accaniti contro di lui: più di tutti - colmo della sofferenza per Alfonso - il suo maestro Torni e lo zio Gizzio, L’uno superiore delle Apostoliche Missioni, L’altro del seminario.

 

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Opponevasi il Canonico Torni, scrive Tannoia, credendolo di certo stravolto di capo, e, quello ch’è più da una donnicciuola... perduto, e reso inutile per la gloria di Dio, e per lo bene delle anime. Non potevasi dar pace il Canonico Gizzio, né sapeva persuadersi, come un uomo di tanto senno dovevasi veder perduto tra visioni, ed inezie. Più volte tutti e due tentarono distoglierlo da tal’impresa. Saldo Alfonso nel suo proponimento, se ossequiava il Zio, e rispettava il Maestro, non smuovevasi bensì dal sentimento del suo Direttore. Questa sua costanza, perché troppo l’amavano, non poteva non affliggere soggetti così rispettabili. Non giovando le persuasive, si venne a riprenzioni e rampogne .

- Non è Iddio che vi guida, irato li disse un giorno il Canonico Gizzio, ma la fantasia di una Monaca, che non credete, e tener dovete per illusa.

- Io non mi regolo colle visioni, rispose umilmente Alfonso, ma col Vangelo...

- Che pensieri disperati sono questi!

- Chi confida in Dio, signor Zio, può tutto, e spera tutto”.

Una mattina, entrando nella sagrestia della cattedrale - tutti sanno che questi luoghi importanti sono i templi della dignità - , L’“illuminato” fu accolto da una violenta litania di rimproveri e, al termine, da questa tagliente ironia:

- Devesi far scorno di sua presunzione, ed ostentare nella Chiesa fondazioni e nuovi Istituti!

Alfonso non aprì bocca.

 

Certo in colloqui meno esplosivi cercò di farsi capire: è impensabile che la sua bruciante e serena convinzione non abbia per un attimo scosso le certezze degli avversari. In uno di questi colloqui Gizzio disse al nipote:

- Anch’io ho un direttore e gli ubbidisco in tutto. È un santo: fra Ludovico Fiorillo, un predicatore tutto zelo. Perché non regolarvi per questo che avete in mente con lui? Anzi vi consiglio a prendervelo per Direttore.

- Io non mi regolo di capo mio, zio, ma dipendo in tutto dal P. Pagano .

Pietro Marco Gizzio non aggiunse parole, ma Pagano, messo al corrente da Alfonso, accettò la sfida:

- Io anche l’approvo. Se dice il P. Fiorillo, che Iddio vuole quest’Opera, la voglio anch’io; se dice di no, no dico anch’io.

Per il momento tutto sembrava rimesso in discussione e nella direzione di Gizzio...

Alfonso raddoppiò preghiere e penitenze, perché Dio finalmente

 

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facesse conoscere quello che voleva, e Scala, messa in allarme, prolungò invocazioni, veglie e macerazioni, perché il Signore illuminasse i direttori dell’amico e padre.

Fiorillo (+1734) e Liguori, che si conoscevano solo per fama nei primi giorni di aprile si trovarono per caso l’uno di fronte all’altro nella camera del superiore del seminario.

- E voi chi siete? chiese Fiorillo.

- Alfonso de Liguori.

Un sorriso illuminò il volto del venerando Domenicano, che uscì in questa ispirata battuta:

- Iddio non è contento di voi, vi vuole tutto suo; e vuole altre cose da voi.

Alfonso tirò un sospiro di sollievo, mentre la gioia gli gonfiava il cuore e Gizzio, invece, restava a bocca chiusa. Fu fissato un appuntamento al convento di S. Domenico Maggiore.

L’ex-avvocato, che ritrovava i chiostri frequentati da studente mise Fiorillo al corrente di tutto: il suo caso di coscienza di fronte agli abbandonati di S. Maria dei Monti; i “lumi” di Scala; i sì dei padri Pagano, Cuttica, Manulio; la disponibilità di Mazzini, Mannarini, Sarnelli, Sportelli e, a Scala, del confessore del monastero Pietro Romano e di un certo Silvestro Tosquez; le istanze del vescovo di Castellammare; le Regole in corso di redazione...

- Vi chiedo sei mesi per riflettere, concluse il Domenicano.

- Non solo sei mesi, ma anche un anno, rispose Alfonso.

Ma già nei giorni seguenti Fiorillo volle rivederlo e, tutto felice, lo abbracciò; Alfonso riassunse a pagina 56b delle sue Cose di coscienza quanto gli disse:

Fiorillo: Se avessi saputa quest’altra Congregazione, non ti avrei risoluto così presto, avrei cercato di unirmi insieme. Del resto già si trova fatto, si son dati passi avanti, opera, ti rimetto a Falcoia e fidati di Dio, buttati in Dio come una pietra al fondo, senza pensare che s’ha da fare, e come la Divina Provvidenza vi penserà... Animo, e core generoso vuole Dio da te, perché per persecuzione ne avrete assai. E se io fussi prete, ti seguirei”.

Fiorillo però proibì a Alfonso di fare assegnamento sul suo parere e di ritornare a vederlo, perché il clero non glielo avrebbe perdonato e ne avrebbe sofferto il suo apostolato, aggiungendo che, nel caso che questo suo primo intervento gli fosse stato rimproverato:

“Io dirò che me ne sono spogliato, e perciò allontanato. E scrivimi .

Nel giudizio n’avrò da render conto, fusse questo tutto il male, ch’ai fatto”.

 

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Evidentemente il verdetto del P. Fiorillo non restò un segreto né per Pagano, né per Falcoia, la cui reazione fu del 7 aprile:

Prosiegua il promovere le cose di S. Div. Maestà, senza stancarsi, e senza restar contento del già fatto; sino a tanto, che non le vegga stabilite: sicuro, ch’il ben condurre a fine un affare di simili levature, il merito, per esser sollevato a quelle grand’opere, ch’il Signore vuol esigere da lei, ed ancor io glie le ho annunziate ed annunzio, di comune consenso col P. Lodovico Fiorillo, quantunqu’io non abb’il suo spirito ed il suo lume...

Per quello dice (e dice bene) che non si deve far menzione d’Apostolato, e di rivelazioni, le Monache già sono prevenute, e nelle Regole si parla castigato... Con tutto ciò questo punto si discuterà meglio; ed io penso di venir in Napoli quanto prima per questo... In tanto bramo sapere precisamente quando sarà la vostra partenza per le Missioni... L’annuncio quelle felicità per la Santa Pasqua, che desidero per me...”.

 

Alfonso era già in missione nella stessa capitale. Con undici confratelli trascorse gran parte della quaresima nell’evangelizzare e confessare all’Ospizio di S. Gennaro extra moenia monastero di religiose pensionato per sposate, casa per vecchi, internato per ragazze, conservatorio per “vergini periclitanti”...

Dopo pasqua, dal 26 aprile al 28 maggio, quattordici missionari si spartirono la diocesi di Caiazzo, vicino Capua, e Liguori, divenuto amico del vescovo, Mons. Costantino Vigilante, lo mise a parte dei suoi progetti di fondazione a Scala, “se Dio e il nuovo vescovo lo vogliono”, aggiunse, dato che Mons. Guerriero si era spento da poco.

- Ma allora venitevene nella mia diocesi, insistette Mons. Vigilante.

- Scrivete a Mons. Falcoia, rispose umilmente Alfonso.

Il vescovo di Caiazzo scriverà e la fondazione si farà, ma due anni più tardi.

Il 28 maggio Alfonso ricadde nella “ fossa dei leoni ” della capitale. Che raccogliesse in fretta qualche compagno e se ne andasse! Cuttica e Manulio lo spingevano, Pagano lo frenava, Falcoia, che non si era fatto più vedere a Napoli, si preoccupava della casa a Scala. A Fiorillo, che non poteva incontrare, Alfonso lanciò un appello di questo tenore: “Mi fate morire. Pronunziatevi. E mandatemi via dal mondo”. La risposta fu del 2 giugno:

Stima V.S., che io avessi lasciato, e scordato il negozio, ch’è di tanta gloria del Signore: Ora più che mai l`ho a cuore: Stia allegro, e si fidi di Dio, perché esso vi darà tutta la sua assistenza in questa causa tanto a lui cara. Io non ho Soggetti; ma se mi capitasse qualcheduno, la servirò. Vorrei io esser Prete di nuovo per aver la fortuna

 

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di venirli a portare li fagotti appresso. Non si dia addietro per li pochi soggetti, perché il Signore li manderà appresso, e li pochi buoni faranno per molti. La benedico in nome di Gesù, e di Maria, e facendo umilissima riverenza l’abbraccio caramente nella carità del Signore11.

Il buon Domenicano però non tolse l’embargo, che manteneva segreta la sua opinione, per paura di compromettere il suo ministero nel discredito crescente che opprimeva Alfonso.

Il 12 giugno un diversivo di sei giorni portò quest’ultimo nell’isola di Procida per gli esercizi al clero e la riforma della confraternita dei Turchini (camice turchino, mozzetta e cintura rossa). Ma che diversivo poteva trovare in questa missione con fratelli... nemici e sotto il comando di Torni. La collera e il disprezzo degli Illustrissimi era al colmo.

- Voi non vedete, gli disse un giorno Gizzio, che siete infanatichito: voi non fate contro di Direttore; tutta Napoli vi è contraria, il P. Pagano non ve lo approva, e Fiorillo nemmeno; e voi contro il sentimento di Uomini così illuminati, caparbiamente vi ostinate nelle vostre idee, e vi guidate colle visioncelle delle Monache... Pazzo, pazzo, pazzo, non vedete, che siete illuso, ed uscito di cervello.

- Vel dissi, Signor Zio, che io non mi regolo colle visioni, ma col Vangelo di Gesù Cristo: vi dico, ed abbiatelo per certo, che non opero di volontà mia, e senza dipendere da chi debbo.

Era urgente far cadere il segreto nel quale si era rifugiato Fiorillo, ma il Domenicano era da poco partito per un viaggio. Pagano ritenne allora necessario divulgare la sua lettera, così anche un altro amico di Alfonso, Gennaro Fortunato, antico professore del seminario allora vescovo di Cassano; Falcoia, a Ischia per curare i suoi reni, consultato da Alfonso in una rapida puntata, rispose con un “sì” sicurissimo. Cuttica e Manulio? Il primo disse sì, il secondo no. Il sì era largamente vincente.

Con la lettera di Fiorillo in una tasca e una copia nell’altra, Liguori si recò in seminario dai due suoi superiori. Non aveva ancora aperto bocca e già piovevano i rimproveri, cento volte ripetuti: “...e Fiorillo non ve l’approva ”.

- L’approvazione di Fiorillo? Eccola, leggete.

Silenzio mortificato dei due canonici. Torni tentò una sortita:

- Non mi basta questo, voglio l’originale.

- Eccolo...

Il “maestroconsegnò le armi:

- Questo mi basta per cautela e per onore della mia congregazione .

Sconvolto, Gizzio non riuscì a dire una parola, vedendo chiaro in un solo istante tutto quello che il nipote aveva dovuto soffrire;

 

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d’ora in poi lo difenderà in seminario, alle Apostoliche Missioni e fin nell’arcivescovato.

Il cardinale Pignatelli, che con la storia dell’Istituto rischiava di perdere l’uomo sul quale poggiavano le più rosee speranze della sua chiesa, aveva condiviso in un primo momento la desolazione e l’indignazione generale e, stando alla testimonianza del P. Gaspare Caione, aveva fatte sue le espressioni più dure dei cenacoli napoletani contro Alfonso: “Orgoglioso, pazzo, illuso, infatuato di se stesso”. Gizzio gli suggerì di interrogare Pagano e Fiorillo, uomini rispettati da tutti, le cui risposte gli fecero cambiare idea. Convocò allora il Torni:

- Sento dire che la congregazione della cattedrale sta per decretare l’espulsione di Don Alfonso de Liguori. Non si muova un dito senza il mio consenso!

Torni fu felice, Alfonso ancora di più e corse a ringraziare Sua Eminenza:

- Figlio mio, gli disse affettuosamente il vecchio cardinale, perché non siete venuto a ritrovarmi prima?

L’oppressione si schiudeva nelle alte sfere: Gizzio, Torni, Pignatelli . . .

 

Ci fu però qualcuno che la lettera di Fiorillo non riuscì a disarmare: Matteo Ripa, che verso il 20 luglio, dopo otto mesi di girovagare, ritornava da Roma, raggiante di felicità e di speranza, con il breve di approvazione della sua congregazione. Nessuno fino ad allora aveva osato incrinare la sua gioia, finché un fratello di Alfonso, il sacerdote Don Gaetano, il primo giorno del solenne triduo di inaugurazione (venerdì 25 luglio), lo mise senza volerlo al corrente della sua disgrazia. Incredibile ! Ripa prese tutte le informazioni, ma l’evidenza era brutale: Alfonso lo lasciava, seguito da Mannarini.

Nella sua Storia non si diffuse in rimpianti per quest’ultimo, benché “congregato”: “ Il signor D. Vincenzo Mandarino, che governava in mio luogo era mal veduto da tutti per la sua condotta un poco dura nel governare12. Ripa e la sua consulta (Carmine De Benedictis e Gennaro Fatigati) gli ingiunsero di sottomettersi o di dimettersi. Mannarini partì l’8 agosto e salì a Scala.

Ma Don Matteo non sapeva più che inventare per trattenere Alfonso, che pure era semplice convittore. Per tentare di convincerlo che seguiva chimere a scapito di un’opera garantita dalla Santa Sede e tanto bisognosa di lui, propose di portare il caso davanti a un areopago di teologi, al cui verdetto Alfonso si sarebbe dovuto attenere. Ma questi fu irriducibile: “Dio lo chiamava altrove”.

Dopo tutto, scrisse Ripa il cui cuore non arrivava a irritarsi contro Alfonso, la colpa era di Mons. Falcoia: quell’uomo di Dio pre-

 

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stava fede a visioni! Passasse pure! Ma non poteva fondare senza turbare la pace degli altri? Gli indirizzò una lettera di aspri rimproveri 13.

“Le parti di P. spirituale, gli rispose Falcoia il 29 luglio, non s’estendono a dare le vocazioni... ai PP. spirituali non rest’altro, che l’approvare, o riprovare la vocazione... Or quando l’anima fidata in Dio benedetto, e nella divina Parola: Qui vos audit, me audit, s’appigli a questa regola, si deve credere, che non sbagli. Potrebbe sbagliarla il P. spirituale, nel dargli il suo parere, direte voi? Rispondo, che la fedeltà divina non lascia di comunicare la sua luce a quelli, ch’ha posti nel mondo, per rifonder lume agl’altri... Per l’opera sua... se potessi innalzare quest’edificio con l’ossa mie, le esibisco tutte, per contribuirvi un tantino alla sua sollevazione... io sopra tutto ciò, e sopr’ogn’altra cosa, amo la divina volontà... Anz’io dico: O quest’opera (di Scala) è di Dio, e non svanirà, quando chi la promuove, è fedele, e noi, opponendoci, ci opponemo ad un’opera di Dio. O quest’opera non è di Dio; e svanirà: né lei, né altri, e più, verun’altr’opera di Dio patiranno alcun documento... Bisogna discorrerla un poco più col lume, ch’è sopra il tetto, che col lume, ch’è sotto la soffitta. Io credevo d’incontrare questi sentimenti nel suo amplissimo cuore, quando richiesto dal Sig. D. Alfonso: se doveva comunicare a lei quel ch’occorreva? presto risposi: Sì. E la ragione, che l’addussi, fu: D. Matteo è uomo di Dio... L’abbraccio”.

Ripa rifiutò l’abbraccio e fu la fine, sotto il sole d’agosto d’una amicizia e d’una collaborazione quasi trentennali. Invece nella sua Storia accompagnava il Liguori con questo omaggio pieno di nostalgia:

“Nel otto dello stesse mese di Agosto, (Mannarini) rimasto escluso dal numero de’ nostri, se ne andò, e di poi in Novembre se ne partì anche il signor D. Alfonso de Liguori, il quale però non mai fu nostro Congregato, ma convisse sempre con noi da Convittore, e fu l’esempio, ed il modello di tutti, e siccome ho detto, egli solo bastava a servire la Chiesa, nel Predicare, e Confessare, eseguendo questo Ministero con zelo grande, e con gran profitto delle anime”.

Alfonso da parte sua resterà sempre un ammiratore della personalità fuori del comune e dell’ossessione missionaria del grande servo della Chiesa che fu Matteo Ripa 14. Dopo un primo tempo di comprensibile opposizione, il P. Gennaro Fatigati, che alla morte del Ripa ne rileverà il posto per trentanove anni (1746-1785), conserverà anche lui per il Liguori e i suoi figli un’indefettibile amicizia 15.

 

“In Novembre se ne partì anche il signor D. Alfonso de Liguoriscriveva Ripa, ma noi sappiamo da Tannoia, che certamente l’aveva appreso da Fatigati, che già “sin dal mese di Agosto erasi Alfonso ritirato in Casa da sopra i Cinesi, per dar sesto a’ suoi affari16 (il 22

 

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agosto suo fratello Ercole si sposò con la cugina Rachele de Liguori). (Contraddizione? No. Senz’altro Alfonso dovette assicurare il servizio nella chiesa dei Cinesi fino alla sua partenza in novembre, dal momento che dal Supportico Lopez bastava percorrere i cinquecento metri di Via Cristallini. Per questo la versione del Ripa: “In Novembre se ne partì anche il signor D. Alfonso”.

Anche nelle varie contraddizioni, infatti, Liguori non era uomo da venir meno ai suoi impegni. Parimenti da giugno a novembre non volle sfuggire alle assemblee del lunedì, nelle quali era guardato come illuso e transfuga dalla maggior parte dei confratelli.

Transfuga? La prima parola della “missione” non è: “Andate”? Era giunta per lui l’ora di sradicarsi definitivamente: “Fare a Gesù Cristo un sacrificio totale della città di Napoli”.

Forse per l’addio, il 17 settembre, dopo tre anni e mezzo, sedette nuovamente al suo seggio di Piazza di Portanova? Era questo il pensiero del “magistrato” che in lui restava sempre? Ma i suoi decisivi sradicamenti erano altrove: il primo dalla comunità dei suoi cari Cinesi; il secondo, più profondo, dalla sua culla spirituale e del suo ambiente vitale, i Girolamini e il P. Pagano.

Come una chioccia che ha covato un’aquila, Pagano e Fiorillo si sentivano scavalcati da quell’avventuriero di Dio, col timore anche di restare compromessi per la riprovazione generale che lo schiacciava: entrambi gli consigliarono di passare sotto la direzione spirituale di Falcoia.

I motivi del resto non mancavano: stava per allontanarsi definitivamente da Napoli; la sua “nuova vocazioneera collegata a Scala, dove da dodici anni Falcoia seguiva tutti gli avvenimenti, aveva bisogno di un missionario esperto, di un “religiosoavvezzo ai problemi organizzativi delle comunità; Falcoia era vescovo e per una nuova fondazione questo significava avere un asso nella manica, inoltre era universalmente stimato e venerato.

Però almeno trent’anni di vita filiale e fiduciosa legavano Alfonso al suo P. Pagano, trent’anni di splendori e di drammi, vissuti insieme!... L’equilibrio della sua coscienza, subito tormentata, non ne sarebbe rimasto compromesso?

Passò in preghiera la novena dell’Assunta, ai piedi della Madonna della Mercede nella cara chiesa della Redenzione dei Cattivi e la luce venne con chiarezza, perché ancora una volta “la Madre di Gesù era ”, come a Cana, in questa nuova svolta decisiva della sua vita. Nel diario annotava a pagina 50:

Eliggo Falcoia, a cui Fiorillo e Pagano ultimamente con maggior gloria di Dio m’an commesso la condotta mia”.

Da Ischia, dove ancora era in cura, Falcoia rispose il 24 agosto a questa consegna che lo appagava:

 

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“V’ho ricevuto per figlio, e confirmo il contratto; e l’ho per confirmato ad ogni respiro”.

Le clausole di questo “ contratto ”? Le Cose di coscienza nelle pagine 63 e 64 ne svelano il segreto:

Oggi 30 agosto 1732. Confirmata la risoluzione... di dipendere in tutto da Falcoia, che già t’ha accettato per figlio...

Sì, Signore. Non più dubbi...

(Con la) soggezione a Falcoia, non s’intendono non aver più vigore i precetti di Pagano circa la mia coscienza, confirmatimi da lui per tutta la vita l’ultima volta, come sta notato.

Né tal direzione di Pagano s’è intesa mai rivocata né da me, quando mi sono soggettato a Falcoia, né da lui rimettendomi a Falcoia, ma s’è intesa solamente farsi la soggezione a Falcoia per le cose future circa la mia nuova vocazione, come espressamente dichiarò Pagano l’ultima volta”.

Però, notiamolo bene, la sottomissione a Falcoia non era una dipendenza canonica, perché, avendo Scala un suo vescovo, quello di Castellammare esercitava un’autorità liberamente scelta e liberamente seguita da colui o coloro che per cristiana prudenza avessero voluto rifarsi a lui come a “direttore”. Direttore: sarà questo il titolo e la funzione di Falcoia nella futura congregazione.

Entro questi limiti va inteso l’impegno ben presto preso dal Liguori e rivelato dal suo diario a pagina 68:

“Faccio voto di obbedienza a Mons. Falcoia, ma solo in quelli casi, che mi ordinasse per precetto di obbedienza dicendomi espressamente: Te lo comando in virtù di santa obbedienza, e non altrimenti”.

A pagina 56c il primo ordine ricevuto dal suo nuovo direttore:

Falcoia: Precetto di non metter più in dubbio la mia Vocazione all’Istituto, e non sentire più alcuno, che mi dicesse il contrario”.

All’inizio di settembre Mons. Falcoia si trovava a Scala, il cui nuovo vescovo dal 9 giugno era Antonio Maria Santoro (1681-1741), appartenente alla famiglia dei Minimi; il 5 scriveva a Alfonso:

Ieri parlai ancor io con Sua Signoria Ill.ma che si rimise in tutto, e per tutto a quello che avrei fatto io. Si determinarono molti particolari; e restò accreditatissimo l’intento nostro, e la stima de’ soggetti. Non dico altro; che troppo ho da fare.

Col Sig. D. Giulio Torni lei si mostri, com’un soggetto portato, e non totalmente inteso di ogni cosa. Mostri, ch’io il tutto; ma non comunico il tutto, e questo intorno alle cose dell’Istituto. Perché, quando sarà il punto di venire, dirà; già vanno i compagni, conviene, che vada ancor io... Gesù Cristo ancora finxit longius ire. Bisogna mantenerlo. Ma non resterà preso in modo, che stringhi troppo...

La vostra venuta in Scala, al principio dell’opera non puol esser

 

- 318 -


prima di novembre; quando potrà venire assieme con gli altri. Ma prima conviene rassettare qui le cose, e trovarsi il luogo, e farvelo trovare preparato. Su questo punto ce la sentiremo meglio appresso. In tanto facci allegramente gli esercizi e la santa Missione...”.

Gli esercizi erano quelli al clero napoletano in S. Restituta dal 16 al 23 ottobre: otto giorni pieni, con tre prediche al giorno. Invece dell’insuccesso, che un pretemalfamato ” avrebbe dovuto aspettarsi, attirò partecipanti più numerosi degli anni precedenti, perché il sacerdote, che spesso è screditato, ha più tenerezza per i suoi confratelli malmenati. Il vecchio cardinale, da otto anni assente alle prediche, volle presiedervi per tre giorni, per interesse e ancor più per accreditare la persona e l’impresa del fondatore tanto contestato: “ Si vede, disse un giorno, che è vaso di elezione, e che lo Spirito Santo parla per esso” 17.

Poi fu la volta della missione annuale allo Spirito Santo, dal 25 ottobre al 3 novembre, insieme a sessantasei confratelli. Alfonso vi parteciperà fino al 2 novembre.

Il 22 ottobre però inviava questo biglietto a Falcoia:

Padre mio, per carità presto, presto, presto, ché io mi moro di desiderio di venire; presto mandatemi a chiamare, e levatemi il mandato che mi avete fatto per Napoli. D. Giovanni Battista (di Donato! è lesto ancora ed arde. Vedete all’incontro il demonio quanto fa per impedire che cominciamo presto: ma cominciamo presto, ché non sarà niente, e tutto riuscirà bene.

Sto al penultimo giorno degli esercizi, ed oggi parlo di Mamma mia Maria.

Pregate sempre per me, ma sempre, sempre; e presto, presto, presto, a lode di Gesù e di Maria!”.

 

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p. 299
1 TANNOIA, I, pp. 63-64.



2 Autobiografia, pp. 186-188. Per le fonti di questo capitolo cf. la nota 1 del capitolo precedente, aggiungendovi le deposizioni dei testimoni ai processi di canonizzazione, in Summarium, pp. 98-128 o “Analecta”, 3 (1924) e DE MEULE-MEESTER, Origines..., I, pp. 27-43.



p. 300
3 S. Alfonso, Lettere, I, p. 24



p. 301
4Analecta”, 3 (1924), pp. 214-215: SH 5 (1957), pp. 232-233.



5 Cf. GREGORIO, Mons. T. Falcoia, pp. 102-116.



p. 303
6 G. LANDI, Istoria della congregazione del SS. Redentore, ms., I, pp. 7-8, riprodotto in “Analecta”, 6 (1927), PP 118-121.



p. 306
7 Cf. TELLERIA, I, pp. 161-162; SH 8 (1960), p. 432, n. 49a.



p. 307
8 Lettere, II, pp. 456-457; SH 22 (1974), pp. 239-254.



p. 308
9 Cf. TANNOIA, I, pp. 57-61 Per gli anni 1730-1732, la cronologia, già di per

complicata, lascia parecchio a desiderare in Tannoia, che però quanto alla sostanza e allo spirito degli avvenimenti resta sempre un memorialista incomparabile.



p. 309
10 TANNOIA, I, p. 66; per quest’episodio e il seguito del capitolo, cf. pp. 65-76.



p. 313
11 Testo nella deposizione di Tannoia, in “Analecta”, 3 (1924), pp. 74-75; originale in AGR, SAM, III, 419.



p. 314
12 RIPA, op cit, II, p. 452.



p. 315
13 RIPA, op. cit, III, pp. 8-14; cf. le confidenze di Alfonso del 29 agosto 1758 (AGR, XXVII, 33) e le lettere di Falcoia a Ripa (Lettere, pp. 96, 101, 105).



14 cf. Lettere, II, pp. 430-432.



15 La congregazione sarà soppressa con decreto del 27 rante i suoi 156 anni di esistenza ebbe 191 membri, formò 106 sacerdoti cinesi e 67 dei paesi turchi, cf. SH 6 (1958), p. 310, n. 2.



16 TANNOIA, I, p. 82.



p. 318
17 TANNOIA, I, pp. 74-75; SH 7 (1959), pp. 436 437.



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