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PARTE TERZA “ANDATE PIUTTOSTO ALLE PECORE PERDUTE” (Mt. 10, 6) (1732-1762) 23 - IL VOTO DI FONDATORE (novembre-dicembre 1732) |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
“L’anno da Dio preordinato al nascimento felice di nostra Congregazione fu l’anno 1732. Sedeva sul Vaticano papa Clemente XII, e reggeva coll’Impero questo Regno di Napoli Carlo Augusto, Sesto di questo nome. Alfonso, ottenuta la benedizione dal Ven. P. Fiorillo e dal P. D. Tommaso Pagano suo Direttore, cavalca alla peggio... un giumento da soma, e celandolo a’ suoi parenti, ed a’ suoi più cari amici, lascia Napoli, e portasi nella Città di Scala” 1.
Tannoia introduce così nella storia la nascita dei Redentoristi, sottolineando con forte contrasto il fatto apparentemente insignificante, che ne caratterizzerà per sempre il fine e lo spirito. L’inizio dell’Istituto fu prima di tutto la morte e la rinascita di un uomo: non c’era più il distinto cavaliere napoletano, al suo posto un povero tra i poveri. Il segno “luminoso” di questa morte e di questa rinascita fu un asino, come a Betlemme, come il giorno delle palme all’inizio della passione del Redentore.
Il cavallo era animale nobile, trono dei re e orgoglio dei “cavalieri”; la mula bianca era cavalcatura pontificia, ma l’asino... “L’asino è comune in tutti i paesi del Regno. Il più povero contadino n’è provveduto per il suo uso. Questo è l’animale de’ miserabili”2 . Un nobile non montava mai il somaro dei servi!
Orbene quel pomeriggio domenicale del due novembre 1732, il cavaliere D. Alfonso de Liguori, a dorso d’asino, si allontanava dalla capitale, prendendo, lungo l’incomparabile golfo, la strada per Portici, Castellammare di Stabia e Scala. Secondo il diario delle Apostoliche Missioni aveva passato l’intera mattinata nei ministeri della missione che stava per concludersi allo Spirito Santo. Poi, senza nemmeno passare al Supportico Lopez, era partito.
Da mesi i suoi soffrivano e arrossivano, vedendolo in pasto alle malelingue e agli imbecilli, ma molto più erano straziati dalla sua partenza, da tutti sentita ormai vicina e definitiva. Un pomeriggio, duran-
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te la siesta, il padre era entrato in camera di Alfonso e, gettatosi sul letto, L’aveva stretto tra le braccia per tre ore, lunghe e atroci, ripetendogli tra le lacrime:
- Figlio perché mi lasci... Figlio non merito io, né aspettava da te questo dolore... Figlio non mi abbandonare!
Lunga agonia: Alfonso confesserà un giorno “ che in vita sua sperimentato non aveva tentazione più cruda, né conflitto più amaro ” 3. Il padre e la madre, il fratello sacerdote Don Gaetano, Ercole e la sua giovane moglie non lo vedranno partire.
E in realtà chi lo vide partire? La sua “fuga” da Napoli con quell’equipaggiamento fu una rottura per tutta la vita, non una dimostrazione. Approfittò delle ore della siesta per andarsene discretamente e passare la notte a Castellammare, oppure aspettò l’aurora di lunedì 3 novembre per coprire in una sola volta la distanza Napoli-Scala? Non lo sappiamo, né ci interessa; ciò che importa è il brusco cambiamento di rotta, il cui segno shoccante è l’asino.
Alfonso lasciava la “città” definitivamente. Non sarà, come Francesco de Geronimo, L’apostolo di una Napoli che non aveva bisogno di lui, perché ricca di sacerdoti e di sacerdoti di qualità, per tutte le classi sociali; non sarà, come il P. Segneri, L’apostolo dei centri urbani di tutto il Regno, perché cattedrali e collegiate beneficiavano già di un clero capitolare che monopolizzava sia la cultura generale sia il sapere teologico, biblico, e anche giuridico 4. Alfonso sarà invece l’apostolo delle campagne abbandonate, perché non c’era nessuna persona di valore che evangelizzasse villaggi e casolari.
La capitale lo rivedrà solo per rari viaggi dì affari e per qualche occasionale predicazione: rompendo con la sua classe e la sua cultura, scendeva sul “ pianeta ” dei poveri privi di soccorsi spirituali. La missione di Cristo, dice il Vaticano II, fu prima di tutto l’incarnarsi in una “natura umana completa quale esiste in noi che siamo infelici e poveri”5 e Alfonso si incarnò per sempre tra gli abbandonati del suo tempo .
Con lui cavalcavano verso Scala, nello stesso umile equipaggiamento, altri due gentiluomini, da noi già conosciuti, suoi carissimi amici, L’avvocato Cesare Sportelli e il sacerdote Giovanni Mazzini, che entrambi gli si erano promessi per gli “ abbandonati ”: Mazzini, il cuore di Napoli che lo accompagnava; Sportelli, L’amicizia e l’influenza di Falcoia che gli venivano incontro. Non sappiamo se quest’ultimo li aspettò a Castellammare o li aveva preceduti a Scala. In ogni caso si ritrovarono insieme la sera del 3 novembre nella cittadina della montagna amalfitana, con altri quattro “ postulanti ”. Furono quindi sei intorno ad Alfonso e a Falcoia ma solo per quella sera e quella notte,
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perché l’indomani, martedì 4, Sportelli dovette ritornare a Napoli per impegni urgenti 6.
Infatti Don Cesare, trentuno anni, giurista e già teologo, non era ancora del tutto libero dal mondo, perché procuratore generale del marchese del Vasto; sarebbe stato già chierico e ben presto sacerdote, se la sua famiglia avesse potuto costituirgli un patrimonio ma aveva fatto fallimento. Frattanto, in cerca di un beneficio ecclesiastico quale titolo di ordinazione, faceva la spola tra la sua residenza napoletana e Castellammare, dove la madre era religiosa e il padre spirituale vescovo. Sarà il prezioso regalo di Falcoia al Liguori e al nascente Istituto 7.
Ma un demonio voleva che i due più decisi, i compagni del fondatore nell’esodo a dorso di asino, non restassero con lui. Infatti anche Giovanni Mazzini, ventinove anni, prete da diciotto mesi, dovrà dopo soli otto giorni riguadagnare Napoli, per ordine del suo direttore un prudente gesuita, che gli aveva imposto una proroga di tre anni: il tempo per vedere quale strada avesse preso l’“avventura”...
A Scala li aspettavano Vincenzo Mannarini, trentadue anni e il canonico Pietro Romano, teologo e predicatore stimato, confessole ordinario delle monache, che già conosciamo; inoltre Giovanni Battista De Donato, decano per età (la cinquantina), superstite della piccola congregazione missionaria del SS. Sacramento da poco scioltasi a Teano; e infine un altro secolare votato come Sportelli al sacerdozio Don Silvestro Tosquez.
Questo gentiluomo nativo di Troia, trentenne, dottore in legge e teologo come Sportelli, era giudice alla Vicaria, la Suprema Corte civile e penale, e amministratore generale delle regie dogane. Suo fratello Francesco era un personaggio alla corte imperiale a Vienna e Don Silvestro era personalmente molto legato con il minimo Antonio Santoro, vescovo di Scala e Ravello (possibilità da non disprezzare!) Inoltre - amalgama insolito - era uno spirituale, fino al misticismo. Al contrario del giovane del Vangelo, aveva deciso di lasciare ogni cosa per il Cristo; entrato nella primavera del 1732 in relazione e poi in confidenza con Mannarini, gli aveva raccontato la sua strana vocazione di “fondatore”: otto anni prima, mentre era malato a Vienna aveva ricevuto “lumi” su un nuovo Istituto, rinnovati ora dal Signore con la rivelazione dell’abito: “un Ordine che totalmente fosse addetto alla imitazione del Salvatore e de’ suoi S.ti Apostoli”.
- Ma il Signore, gli disse commosso Mannarini, sta per inviare quest’Istituto alla sua Chiesa.
- Allora vi entro, esclamò Silvestro, è da tanti anni che lo desidero.
Era il sabato 31 maggio, vigilia di Pentecoste. Non si perse tempo e per i primi giorni di giugno, Mannarini fissò al Tosquez un in-
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contro con Liguori e Sportelli; poi lo dirottò verso Castellammare: “Il sentimento del mio riverito Sig. Tosquez, scrisse Falcoia il 6 giugno, m’ha portato edificazione particolare”, tanto da fargli rispondere a Don Silvestro, che gli aveva chiesto l’autorizzazione di andare a vedere le monache di Scala:
- Ma certo, andate a respirare un po’ il profumo della loro vita esemplare.
La sua meravigliosa natural facondia abbagliò Falcoia e poi soggiogò le religiose; da parte sua Tosquez rimase impressionato fino all’esaltazione dal fervore del monastero e dalle rivelazioni di Maria Celeste 8.
Secondo le lettere di Falcoia, Alfonso invece fu sul chi va là, fin dal suo primo incontro con questo profeta in farsetto: il vescovo di Castellammare non stava introducendo nel monastero un pericoloso concorrente? No, gli rispose Falcoia il 12 settembre:
“Credo avrete ricevuto un’altra mia; e con quella vi saranno passate molte apprensioni. Con questa poi v’assicuro, che S. Div. Maestà... metterà a sest’ogni cosa. In fatti, ho Suor Maria Celeste alla mano. Il Monastero tutto sta in pace, e m’obbedisce ognuna, come han fatto per tanti anni. E qualche durezza di D. Silvestro s’anderà digerendo ed addolcendo, con l’olio della carità, e pazienza. La fiducia tutta in Dio benedetto...
Caro mio da voi bramerei, che dessivo un poco più di pace alla vostra mente, ed al vostro bel cuore, col non andar tanto pensando, né tanto temendo: amate un buon Dio, che ha cura di tutto. Celeste s’è mutata assai e sta all’obbedienza. Queste figlie tutte tutte stanno quietissime ed obbedientissime, e fanno davvero: D. Silvestro starà al segno; e Dio benedetto porterà il tutto al bene. Vedrete, e vi rallegrerete. Intanto rappatumatevi al possibile con D. Silvestro, ed unitevi tutti nelle viscere della carità del Signore: non v’opprimete né contradite a cos’alcuna. Ma tenetemi avvisato al possibile; che ogni frutto si maturerà.
Con questo vi prego e v’impongo, che rifiuti tutte le tante riflessioni, che v’angustiano, e vi molestano...
Intorno al resto lasciate la cur’a me, e pregate S.D.M., che m’assista con i suoi santi lumi”9 .
Con la stessa lettera Falcoia comunicava d’essersi impegnato a cercare una casa e una chiesa per i missionari, senza riuscirvi ancora: “ Aspetto, che venga e vedano...”.
Tre settimane dopo ebbe luogo l’incontro del 3 novembre a Scala, accampati provvisoriamente nell’ospizio, angusto e povero, del monastero: un bugigattolo e quattro camere, una delle quali subito trasformata in oratorio; pagliericci con misere coperte; qualche utensile di terracotta per la cucina e la mensa. In queste ristrettezze però i nostri
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missionari spaziavano con lo spirito al largo e con il cuore nella gioia 10. Ma tutti non potevano starci, per cui D. Pietro Romano continuò ad alloggiare, almeno per sei mesi, presso i suoi; forse anche qualche altro confratello fece lo stesso. Però il luogo comunitario di incontro e di fondazione fu certamente l’ospizio delle suore.
I padri, votati alla salvezza degli abbandonati, dovevano prendere il nome del SS. Salvatore, come le suore, per cui l’inaugurazione venne fissata il 9 novembre, festa della dedicazione della basilica del SS. Salvatore, cattedrale della diocesi di Roma, “madre e capo di tutte le chiese” (comunemente detta S. Giovanni in Laterano, per i secondi patroni: Giovanni Battista e Giovanni Evangelista). Dal 4 al 9 il gruppo visse un’intensa preparazione spirituale.
Alfonso ebbe con il suo nuovo direttore di coscienza lunghi colloqui, certamente sulla futura congregazione, ma anche sulla sua vita personale, essendo il loro primo incontro da quando Falcoia aveva assunto il carico della sua anima. A pagina 65 del suo diario spirituale leggiamo:
“6 Novembre 1732. Falcoia: Ti confirmo, e sigillo tutto quel che t’ha ordinato Pagano senza sentire che sia, e di quale obbedienza ti possi avvalere per sempre”.
Gli ultimi tre giorni (6-8 novembre) fratelli e suore si riunirono per un solenne triduo eucaristico nella piccola chiesa del monastero, da due mesi luogo di vive emozioni. L’11 settembre, durante la lunga adorazione dinanzi al Santissimo esposto solennemente, che le monache erano solite fare ogni giovedì, il Signore aveva sconvolto i presenti, come l’indomani ne aveva scritto Falcoia a Alfonso:
“Qui all’altra sera nell’esposizione del Venerabile, si viddero molte maraviglie nell’Ostia sacrosanta da tutte le sorelle presenti, è dal Padre Confessore... Si viddero chiaramente la santa Croce, primo nera con un Crocifisso in mezzo, e questa molto splendente; e poi la croce sanguigna e poi bianca. Vi si osservarono tre globi rubicondi: L’istrumenti della Passione di N. Signore, nuvolette bianche, ed altre distinzioni, che loro stesse m’aveano scritte, o mi scriveranno. Alcune s’atterrirono, e piansero assai; altre si ritirarono, per riverenza, e timore; e poi tutte sono rimaste consolate; e riflettono, che S. Div. Maestà con questo ha voluto dare un’autentica e confirma dell’Istituto, e disponerle alle croci, che nella sua scuola non mancano mai. Non è bene però, pubblicare, per ora questo fatto; onde può tenere con sé, per sua consolazione, e per motivo di uscire da qualche sua perplessità” 11 .
Decisamente gli “incoraggiamenti” del Signore sono destinati a Complicare in maniera singolare la vita! Ah! le proteste e le risate a Napoli quando si diffuse l’“ultima nuova”!
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Quei fenomeni s’erano rinnovati i due giovedì seguenti, 18 e 25 settembre; poi a ottobre niente. Ma giovedì 6 novembre e i due giorni seguenti, durante il solenne triduo di preparazione alla fondazione dei padri del SS. Salvatore, tornarono a verificarsi fatti analoghi, in presenza delle religiose, dei vescovi Santoro e Falcoia, dei membri del futuro Istituto e di sei dignitari ecclesiastici. In tutti i nuovi testimoni generale fu la reazione di diffidenza, ma impotente di fronte all’evidenza. Gli stessi segni appariranno ancora il giorno della presentazione della Vergine e poi il 29-30 novembre e 1° dicembre, dopo un terribile terremoto.
I due prelati si credettero allora in dovere di informare il Nunzio di Napoli, Mons. Raniero Simonetti, il cardinale Antonio Banchieri Segretario di Stato, disporrà un’inchiesta canonica; papa Clemente XII ne chiederà gli Acta summaria, che gli saranno inviati da Mons. Santoro il 7 febbraio 1733 con le deposizioni, tutte affermative, di due vescovi, diciannove monache, cinque canonici e, infine, del P. de Liguori e di tre suoi compagni 12.
Un lungo silenzio si stenderà poi sui “fatti eucaristici” di Scala: troppe “rivelazioni”, che offuscavano i Lumi, avevano già screditato l’Opera del Signore! Il rapporto del vescovo Santoro non farà alcuna menzione alla nascita dei due Istituti gemelli; Alfonso e i suoi figli cercheranno di far dimenticare i compromettenti fenomeni; Mazzini, che pure ne era stato spettatore, non dirà una sola parola su di essi al processo di canonizzazione del padre e amico; Tannoia, pur attingendoli da diversi testimoni, non vorrà saperne, contagiando con il suo silenzio gli storici di Alfonso sino alla fine del XIX secolo.
Malgrado questo, però, sembra che i “fatti” di Scala abbiano suggerito al fondatore alcuni motivi fondamentali dello stemma della sua congregazione, fissato verso il 1743: su tre colli, la croce con la lancia e la spugna della passione e con il motto: Copiosa apud eum redemptio 13
Redenzione - Redentoristi: i sei missionari (Alfonso de Liguori, Giovanni Mazzini 14, Pietro Romano, Giovanni B. De Donato, Vincenzo Mannarini e Silvestro Tosquez ) raccolti intorno all ‘altare cui presiedeva Falcoia, la mattina del 9 novembre 1732, non sospettavano ancora che proprio questo sarebbe stato il loro nome. Dopo una lunga meditazione, cantarono la messa dello Spirito Santo e il Te Deum di ringraziamento nell’umile oratorio dell’ospizio, non nella cattedrale di Scala (cosa avrebbero potuto fare nella grande nave capace di duemila persone?)15. Quel giorno nasceva la congregazione dei padri del SS. Salvatore, divenuta poi del SS. Redentore per decisione di Roma.
Fu festa grande per il clero, la nobiltà e il popolo di Scala, perché finalmente avevano con loro quell’Alfonso che già da due anni
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avrebbero voluto trattenere e con lui altri missionari dello stesso stampo, perché della sua scuola, scuola non solo di dure penitenze, sulle quali Tannoia si dilunga con impressionanti precisazioni, ma soprattutto di preghiera. Alfonso non ancora assorbito dal ministero “persisteva le ore intiere, e di vantaggio” nel celebrare la messa, prolungandola nella preparazione e nel ringraziamento e attardandosi in orazioni e adorazioni 16.
Aveva gran bisogno di preghiera e di forza: la croce più pesante, la croce del Cristo non è quella scelta da noi (cilizi, discipline e digiuni), ma quella della quale siamo caricati da coloro dai quali dovremmo ricevere solo aiuto e amicizia...
La settimana seguente il gruppo di fratelli, tranne Mazzini, si riunì in assemblea costituente sotto la “direzione” di Falcoia, che aveva “portate seco al ospitio delle Monache”le due Regole scritte da Maria Celeste a sei anni di distanza l’una dall’altra17 e una terza, quella da lui modificata. Il gruppo pensava - idea in apparenza indiscutibile - che l’Opera del Signore fosse una sola con due branche, perciò con una sola Regola, quella data a Maria Celeste, anche se con Costituzioni differenti da preparare; Falcoia invece, pur partendo dai dati della “veggente”, voleva essere - idea questa discutibile - per entrambi i rami il legislatore libero e supremo, non senza i consigli di Alfonso, del quale non poteva né del resto voleva fare a meno, ma neutralizzando il vescovo locale, benché anch’egli religioso.
Fin dalle prime discussioni affiorarono radicali divergenze, discrete nelle riunioni intorno a Falcoia, forti nelle conversazioni di corridoio: i cinque non si accordavano né sulle Regole, né sul fine, né sull’egemonia del vescovo di Castellammare. Donato, il più anziano del gruppo aveva portato con sé la Regola della sua defunta piccola congregazione di Teano, ispirata dai Gesuiti, che intendeva far risorgere a Scala: niente ufficio in comune (soprattutto questo!) ma, insieme alle missioni, collegi per gli studi letterari, per cui le case avrebbero dovuto sorgere nei centri non già nelle campagne o nei piccoli paesi; Tosquez e Mannarini, pur condividendo la sua opzione per i collegi nelle città, volevano le regole di Maria Celeste, purificate dalle infiltrazioni falcoiane.
Il disaccordo non verteva solo sulle scelte globali, ma anche su punti particolari: ufficio in coro o in privato? cantato o recitato?... ci si coricherà sulla lana o sulla paglia? Alfonso era per il giusto mezzo:
- Lasciamo i materassi ai ricchi e ai malati, la tavola e la nuda terra ai miserabili e ai monaci più austeri: a uomini che devono essere mortificati conviene la paglia.
In questo certo Tosquez non lo contraddiceva, perché, incondizionatamente per Maria Celeste, voleva un’imitazione letterale di Gesù
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Cristo (tunica rossa e mantello azzurro!) e del sistema economico della chiesa di Gerusalemme (ognuno vendesse tutti i suoi beni e deponesse il ricavato ai piedi del superiore).
“Ridevasene Alfonso per le pretensioni del Tosquez. Essendo noi semplici Preti, non conviene, diceva, mascherarci in faccia al Pubblico circa il vestire con una novità non per anco intesa; e vie più rideva per lo preteso spropriamento: chi vorrà seppellire, diceva, i tanti Anania, che mentitori ci saranno tra di noi...
Non conveniva con veruno, rispetto al possedere. Se manca, dicea, una discreta povertà, manca tutto, perché manca il vero spirito di Gesù Cristo, e mancando con questa la Vita comune, ch’è madre, e protettrice della Povertà, non vi può essere santità in Congregazione. Dippiu: preso piede il mio e tuo tra Congregati, mancar non possono inconvenienti gravi. Si uscirà in Missione, non per Dio, e per tirare Ani me a Gesù Cristo, ma per se stesso, e per foraggiare”18.
Di fronte a tante divergenze e alla contestazione da parte della maggioranza della “direzione” di Falcoia, Don Silvestro propose di sostituire il prelato con suor Maria Celeste:
- Il Signore si è servito di lei per rivelare l’Opera sua, spetta anche a lei essere arbitra delle nostre divergenze.
Falcoia parò il colpo senza scomporsi:
- Dato che non siete dello stesso parere, tutti concordemente vi uniformerete alle mie determinazioni 19.
Don Pietro Romano, uomo di equilibrio e di bontà, da sette anni a parte dell’Opera del Signore, penitente del Falcoia, confessore ordinario delle religiose e loro postino durante il periodo del rigore filangeriano, stava con calma per il “Direttore”.
Alfonso fu sorpreso dalla tempesta? Appena mollati gli ormeggi, la nave stava andando a fondo... Ma, non soffrendo il mal di mare, conservò la calma e fece suo il leitmotiv di Falcoia: tempus et Deus. Cercò di impedire la disgregazione del gruppo, mentre prendeva tempo, aspettando con pazienza la luce e l’arrivo dei sicuri “fratelli dell’anima”, Mazzini, Sportelli e forse anche Sarnelli.
Non si allontanò un palmo dal suo intento fondamentale di dedicarsi agli abbandonati delle campagne, però, per non compromettere tutto e spinto da Falcoia, per il momento non si oppose alle scuole primarie 20, anche perché, partecipe dei movimenti del suo tempo, sapeva che esse erano sorelle delle missioni popolari, nate insieme all’inizio dei tempi moderni dallo stesso “gigantesco sforzo di acculturazione religiosa”, come ben sottolinea Jean Delumeau:
“Nella mentalità delle élites cristiane prese così corpo un’affermazione pressante: L’ignoranza religiosa è causa di dannazione. Su questo punto Lutero e san Vincenzo de’ Paoli, Calvino e san Carlo Borromeo
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hanno ragionato nella stessa maniera. Cominciando dal momento in cui le due Riforme, opposte ma anche solidali, hanno sviluppato sul campo la loro azione, gli sforzi precipui delle Chiese d’Occidente hanno mirato a insegnare la dottrina cristiana alle masse, soprattutto ai contadini fino ad allora ignorati... Di qui le missioni all’interno che dal XVII al XX secolo hanno quadrettato l’Europa romana; di qui... il moltiplicarsi delle scuole; di qui infine l’enorme importanza del catechismo del quale la stampa permetteva la diffusione”21.
Missionario e vescovo, Alfonso sarà, lo vedremo, un appassionato catechista. Passi pure l’imparare a leggere e a scrivere, disse a se stesso, se tale concessione può quietare provvisoriamente Donato e i suoi partigiani, soddisfare le preoccupazioni educative di Falcoia e favorire l’inizio e il riconoscimento legale della congregazione. Però tale tolleranza, solo abbozzata, sarà ben presto energicamente esclusa, perché esistevano già istituti per l’insegnamento primario, mentre non ve n’erano per l’evangelizzazione delle campagne; e poi, come gli aveva detto Torni, “questi tanti progetti servono per non effettuarsene veruno”.
Riguardo alle altre divergenze, Alfonso sosteneva la necessità di rimettersi in tutti i punti controversi all’arbitrato del Falcoia e sembra anche che fosse riuscito a farlo accettare, almeno esteriormente, come moderatore nato: per la sua età (settant’anni), per la sua esperienza di vita comunitaria e missionaria, per la sua condizione di “ esterno ” nell’opera. Inoltre, dovendo procedere a nuove fondazioni nella diocesi di Caiazzo e altrove, per garantire, al di là degli interessi dei vescovi locali, la mobilità e l’unità dell’Istituto, era indispensabile un vescovo alla sua direzione, almeno fino all’approvazione della Santa Sede.
Fu una settimana di prova per ognuno, perché, tranne Pietro Romano, gli altri cinque, Falcoia per primo, si sentivano un’anima di fondatore. Sabato, Liguori annotava a pagina 66 delle sue Cose di coscienza:
“Obbedienza di Falcoia di star forte per qualsiasi cosa, che vedo, o che sento de’ compagni per l’Istituto, se restassi anche solo, m’aiuta Dio. Obbedienza di non deliberare più. 15 novembre 1732”.
L’indomani, domenica, il vescovo di Castellammare ritornava alla sua sede, deluso e felice al tempo stesso, perché, se il lavoro dei sei giorni non era stato una creazione, dal momento che neppure una costituzione era uscita dal nulla, gli restava da fare ogni cosa e niente egli adorava di più !
D’accordo con Alfonso aveva nominato superiore locale a Scala Donato, non solo perché più anziano e esperto nella vita religiosa, ma forse anche per tentare di calmarlo, dandogli un osso da rodere. Alfonso del resto era di fatto il “superiore maggiore” e doveva restare
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libero per le altre fondazioni; solo con lui, quale responsabile dell’Opera, il Direttore tratterà tutte le cose direttamente; si dovrà a lui e non a Donato il regolamento provvisorio.
Appena partito Falcoia, martedì 18 novembre, data da segnare con una pietra miliare, arrivò nella nascente comunità il primo fratello coadiutore, Don Vito Curzio: ventisei anni, letterato e calligrafo, gentiluomo, un passato di spadaccino irascibile e pericoloso: “In mano, invece del Crocifisso e del rosario, tenevo la pistola e il pugnale” dirà in seguito; fuggito dalla sua patria, Acquaviva vicino a Bari, per non finire in prigione e forse sulla forca, in Campania era diventato amministratore dei possedimenti del marchese del Vasto nell’isola di Procida e s’era perciò legato con il procuratore generale dello stesso marchese, Don Cesare Sportelli, in casa del quale alloggiava durante i suoi soggiorni nella capitale. L’esempio e i discorsi dell’avvocato avevano finito per metterlo sottosopra e una mattina, svegliatosi molto perplesso, gli disse che “aveva avuto un sogno troppo curioso, ed era di aver veduto tanti Sacerdoti che rampicavansi per salire un Monte molto aspero, e scosceso, e che essendo venuta anche a lui voglia di salirci, per quanto ci si fosse rampicato, sempre sdrucciolava, e se ne cadeva abbasso, e che uno di que’ Sacerdoti avendoli dato la mano, ci era salito anch’esso in unione degli altri”.
Recatisi insieme al Collegio dei Cinesi, i nostri due giovani avevano incrociato Alfonso. Sorpresa di Vito Curzio:
- Cesare, questo è quel Sacerdote che sta notte mi ha dato la mano, e che mi ha ajutato a salire la Montagna cogli altri Preti.
Sportelli allora gli spiegò che era il famoso missionario Don Alfonso de Liguori; che raccoglieva apostoli per evangelizzare la povera gente; che lui, Cesare, stava per raggiungerlo...
- Ecco dove Dio mi chiama, fu la conclusione di Vito.
Il tempo di regolare le sue cose rendendo felice qualche poveraccio con il suo guardaroba e i suoi scudi e fu a Scala il 18 novembre, con le mani vuote e disponibili e con il cuore pronto all’ascesa della santità, in qualità di fratello laico per tutta la vita, di “fratello servente”, come si diceva.
Era l’ora del pranzo e qualcuno (Donato senz’altro) pregò il bel gentiluomo di servire a tavola. Il sangue gli montò alla testa: “Come, tu hai da servire a tavola! eh che sei fatto servitore?”; ma mentre pensava a un possibile colpo mancino per quell’insolente di un prete, che lo aveva trattato da servo, vide Don Alfonso, cavaliere napoletano, alzarsi e servire insieme con lui. Stavolta la provocazione andò a segno:
- Miserabile, disse Vito a se stesso, questi può servire a tavola e tu no!
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Il colpo di grazia raggiunse l’“ uomo vecchio ” di Curzio e non... Don Giovanni Battista 22.
Con questo fratello - Alfonso poteva dubitarne? - la sua congregazione era veramente fondata con un masso di granito che non si sposterà più nella base.
Tre o quattro giorni dopo, Alfonso affidò Vito a Dio e al P. De Donato (con Mannarini, Romano e Tosquez) e riprese la strada di Napoli, per tre settimane.
Tosquez?... Il “gentiluomo divoto”, come lo chiamava Maria Celeste, non aveva perso tempo. Prima della partenza del Falcoia, era riuscito a sottrargli per le monache l’esemplare delle Regole “compiute” (la seconda redazione della suora) insieme alla sua versione ritoccata e aumentata e, con questi documenti e un memoriale redatto dalle religiose, si presentò dal suo amico Mons. Santoro a implorare per il monastero e la sua Regola un’approvazione, purtroppo data da Mons. Guerriero solo oralmente. Il 28 novembre - veramente non si perdeva tempo con Tosquez - il vescovo di Scala rivolgeva al suo collega di Castellammare una lettera, dal tono lusingatore ma non fino al punto di non far percepire l’ossequiosa ironia:
“Circa gli ordini che mi dà col raccomandarmi queste sue benedette figlie, e l’adunanza di questi buoni religiosi, mi trovo di averli eseguiti, tostoché V. S. Ill.ma è partita, con esibirmi loro in tutto quello che la mia debolezza consente; non avendo mancato di portarmi spesso al monistero, a consolar queste buone figlie tutte afflitte per la partenza del loro Padre. E li continuerò per ubbidire V. S. Ill.ma, a cui non manco di ragguagliare come, in esecuzione de’ suoi ordini lasciati al loro confessore, furono dal Sig. D. Silvestro consegnate alle medesime le Regole, le quali subito furono da me confermate, ed approvate in piedi di loro Memoriale, come cosa degna del zelo di V. S. Ill.ma, a cui per fine esibendomi prontissimo ai suoi riveriti comandamenti, con tutto il cuore resto...”23.
Grande allegrezza e ringraziamenti al convento e all’ospizio, gioia però non piena per le suore, perché al padre spirituale “ venne voglia di aggiungere alcune cose a dette Regole... con dispiacere di tutte le religiose”. Alle nove Regole (carità reciproca, povertà, purità, umile dolcezza, mortificazione, raccoglimento silenzioso, orazione, annegazione di sé nell’amore della croce) ne aveva aggiunto altre tre (fede, speranza, amore di Dio), per raggiungere il numero di dodici; al di sopra della tunica aveva prescritto lo scapolare 24.
Per il momento però queste delusioni erano vinte dall’allegrezza, come testimoniano queste parole, scritte a caldo da Celeste ad Alfonso,
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parole di un entusiasmo incapace di contenersi e di un ottimismo straripante:
“No si può credere le maraviglie del Signore! Sia egli sembre lodato in eterno. Io in brieve carta non posso narrarli le gratie che il Signore ci ave congedute per mezzo di questo suo servo D. Silvestro a favore del nostro Istituto per parte di cotesto Vescovo, quale mi pare che non poteva darli né farli di più. Io non vi do la distinta relatione di quel che è passato, perché vi vorebbe un quinterno di scritto e il corriere à fretta di partire. Vi dico solo che bene non mi sono ingannata con esso lui, sin da che fu qua la prima volta e sento anche di più appresso di lui. E voi che vi credevate che io era ingannata: ti illudevo ancor tu assieme con me! Vai trovanno chi sarà e chi non sarà sostituto di Falcoia per l’Opera dell’Istituto? Ma tu non ci penzare, perché già ci ave penzato Dio. Vai trovanno conzuldori per le determinationi che si anno a fare? Ma sappi che costui sarà il suo conzuldore e della tua anima ancora, lo credi o no. Dio li à dati talenti soprabondanti che no li averebbe dato tanto di gratie e di doni naturali se non avesse a servire per aiuto di molti. Per se stesso, li basta la mettà per farsi santo. E questo si vede in effetti, perché a lui il Signore dà tutti li lumi ed apre tutte le vie a mano piena. Onde non vi è più che dubitare, ma solo ringratiamolo con la faccie per terra delle grande sue misericordie, che possono dirsi senza numero, sopra di noi.
Quando egli ritornerà in Napoli, sentirete bene il tutto. E date gratie a Dio benedetto. Finisco per la fretta e vi lascio nel Core di Giesù. Celeste” 25.
Verso il 22 novembre Alfonso aveva riguadagnato la capitale, dalla quale solo tre settimane prima era partito come uno che evade, per regolare, dopo l’atto di fondazione, la sua situazione di fronte al vescovo, alla famiglia, alla congregazione delle Apostoliche Missioni e per partecipare con più di quaranta “ fratelli ” alla missione alla SS. Annunziata. Ma perché era ridisceso tanto presto, dal momento che la missione sarebbe iniziata solo il 6 dicembre a sera? Sembrava quasi volesse ora salvarsi da Scala, come prima da Napoli... Di fronte a inizi tanto catastrofici, aveva fretta di prendere le distanze per giudicare, consultare Pagano, sentire l’animo di Mazzini e di Sportelli...
Si fermò in casa di quest’ultimo 26, dove fu poi raggiunto da Tosquez, che aveva lì il suo alloggio napoletano.
L’incontro con l’arcivescovo fu una lunga lotta, perché Pignatelli non poteva rassegnarsi a perdere questa “voce dello Spirito Santo”, come aveva sperimentato durante il recente ritiro ai sacerdoti in una esperienza personale sconvolgente; Liguori, da parte sua, non poteva
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in coscienza rimettere in discussione una decisione confermata dalla parola di quattro uomini di Dio e dall’accordo tardivo ma cordiale dello stesso cardinale. Alla fine si decise di rivedersi ancora.
Il superiore degli Illustrissimi, Giulio Torni, e i suoi due assistenti, Filippo Aveta e Tommaso Carace, risposero alla sua domanda di restare membro della congregazione e di continuare a beneficiare della sua cappellania:
- La vostra partenza per Scala è stata presa tanto male dall’assemblea dei fratelli, che sarà difficile non radiarvi dalla nostra società...
Ma anche qui, su proposta benevola di Torni e di Gizzio, non si troncò.
Poche veloci parole partirono per informare Falcoia, al più tardi verso il 24 novembre.
La risposta del vescovo, datata 26, la lettera di Celeste, la presenza di Tosquez non riuscirono a riscaldare il cuore di Alfonso, perché le cose in realtà andavano male: la comunità di Scala stava per scoppiare; nell’aria aleggiava l’idea di scavalcare Falcoia, la città, la sua amata città si accaniva nello spezzargli le braccia. Allora, lontano da Scala, lontano da Falcoia in qualche chiesa della capitale che lo torturava - è facile immaginarlo ai piedi della sua Madonna della Mercede - , Alfonso pronunziò il suo voto di fondatore, come si legge a p. 67 del diario:
“Oggi li 28 Novembre 1732, ho fatto voto di non lasciar l’Istituto se non me lo comandasse Falcoia, o altro Direttore suo successore per me”.
Anche se quest’Istituto era stato appena concepito e non si sapeva ancora cosa ne sarebbe stato, il Liguori, rispondendo all’appello del Vangelo e in dialogo con i suoi direttori, ne aveva maturato un’idea precisa. Si votava a questa impresa, non già alle Regole di Maria Celeste o di Falcoia o di chiunque altro. Aggiungeva infatti:
“Non in quanto le regole, le regole o stabilirle, o mutarle resta a mio arbitrio.
E resta poterci spiegare, o mettere altre condizioni a mio arbitrio...
Di più voto di non mettere in dubbio detta mia vocazione, come di sopra”.
Questo voto storico e di immensa portata, illuminante sulla sua coscienza profonda di fondatore e di primo responsabile dell’Istituto di fronte a Dio e di fronte al mondo degli abbandonati, ci dà la possibilità di valorizzare adeguatamente la gran mole di umiltà di giudizio, di ubbidienza libera e di concessioni per la pace, ispiratrice, per ben undici anni, del suo rapporto con l’invadente Direttore
Emise questo voto dopo essersi consultato con Pagano e Fio-
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rillo, che certamente vide, al pari di Torni e, ancora una volta, del cardinale? Il superiore delle Apostoliche Missioni, giudice diocesano e missionario prestigioso, lo rese edotto sulle Regole da stabilire.
Occupò gli otto giorni, che lo separavano ancora dalla missione all’Annunziata, lenendo le ferite della sua famiglia e incontrando i suoi amici, sacerdoti e laici, delle Cappelle serotine, soprattutto il fratello di cuore e di santità Gennaro Sarnelli. Dal 7 al 12 dicembre viene segnalato dal Giornale tutte le mattine alla missione, ma due giorni prima della sua chiusura (sabato 13) scompare. Aveva fretta di raggiungere Castellammare e Scala, anche se era un salire il Calvario, come scrisse dettagliatamente a Torni, che gli rispose il 20 dicembre:
“Non ho potuto contenere le lagrime nel leggere la stimatissima lettera di V. S. Ill.ma in cui mi ragguaglia delli gravi travagli che da per tutto l’opprimono, e non lascio di pregare il Sig.re, siccome spero sicuramente nella sua Paterna carità che le dia fortezza di spirito per soffrire con coraggio tutto ciò che intorno alla sua persona permetterà che succeda la sua sapientissima Providenza, e lume sempre maggiore per intendere la sua Divina volontà. Del resto V. S. Ill.ma non creda che io abbia verun sentimento di odio o di abborrimento verso la sua persona, che questo stimerei essere un’empietà. Io l’ho amato sempre la V. S. Ill.ma tenerissimamente ed ora tanto è lungi che il mio cuore si sia mutato, che le dico sinceramente che ora l’amo anche più di prima. Che perciò può V. S. Ill.ma scrivermi sempre che le piacerà e tutto ciò che vorrà: che a me saranno sempre carissime le sue lettere .
La nostra Congregazione parimente riconosce V. S. Ill.ma per uno de’ suoi più cari fratèlli niente meno che prima, e nemmeno intorno alla Cappellania si è dato niun passo, né si darà mai verun passo intorno alla sua persona senza l’ordine espresso del nostro Emo. Sig. Arcivescovo, avendo l’Ema Sua così ordinato: onde V. S. Ill.ma seguiti a celebrar le messe per la d Cappellania fintanto che abbia avviso in contrario; ma stia sicuro che mentre sarò io Superiore e dipenderà da me, non si farà mutazione alcuna.
Intorno all’Istituto io spero che le cose si faranno secondo le regole che io così stimando nel Sig.re le ho comunicato, e che il tutto sarà approvato dalla Santa Sede Apostolica, acciocché l’opera appoggiata e fondata supra firmam Petram possa avere la sua stabilezza...”27 .
Ma nel Natale del 1732 l’Istituto non aveva altra “stabilezza” che quella della “stalla” di Betlemme.