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PARTE TERZA “ANDATE PIUTTOSTO ALLE PECORE PERDUTE” (Mt. 10, 6) (1732-1762) 24 - “ANCORCHÉ MI VEDESSI RESTATO SOLO” (gennaio-maggio 1733) |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
24 - “ANCORCHÉ MI VEDESSI RESTATO SOLO”
I missionari diocesani delle varie congregazioni napoletane, che vivevano sparsi nella capitale, si riunivano tre o quattro volte l’anno per “andare in missione”, poi ritornavano a casa loro. Alfonso e i suoi figli invece vivranno in comunità, intorno al Cristo, come gli apostoli, e questa comunità sarà in missione permanente, dodici mesi su dodici. Perciò le loro case verranno ubicate fuori dei grandi centri e le loro chiese saranno per il territorio circostante una continua missione.
Bellissimo! Ma questa neonata congregazione, debitamente fondata a Scala il 9 novembre 1732, non era ancora stabilita in nessun luogo. Era solo provvisoriamente accampata nell’ospizio delle suore e nessuno sapeva dove avrebbe affondato le radici né quale sarebbe stato il suo centro di missione, non avendo né convento, né chiesa.
Per quest’ultima una soluzione era a portata di mano, perché a duecento metri dall’“accampamento” apriva le sue larghe navate la cattedrale di S. Lorenzo, dove in pieno accordo con il vescovo e con il clero Alfonso iniziò la missione continua: “Piantò subito nella Cattedrale la meditazione al Popolo ogni mattina, e di sera, la visita a Gesù Sacramentato, ed a Maria Santissima. Ogni Giovedì ci era il sermone, e l’esposizione del Venerabile, ed ogni Sabato un sermone in onore di Maria Santissima, ma nelle Domeniche, e negli altri giorni festivi, perché il popolo era tutto in Città, non si mancava istruirlo ne’ proprj doveri colla predica, e colle lezioni catechistiche. Oltre di ciò eresse due Congregazioni, una per li Gentiluomini, e l’altra di bracciali ed artieri. Similmente due altre, una per i figliuoli, e l’altra per le zitelle, e nelle Domeniche vi erano da parte altre due istruzioni rispettivamente per questi. Scala si vide santificata con estremo compiacimento di Monsign. Santoro”. Questi improvvisamente, lasciato il suo palazzo di Ravello, venne a istallarsi a Scala nella residenza del vicario generale.
“Vedendosi Alfonso accerchiato da tanti valenti operarj, prese anche di mira i luoghi convicini. Amalfi, Conca, Ravello, Atrani, Minori
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partecipavano tutti del suo zelo... Ne’ giorni festivi specialmente i Missionarj erano tutti in armi a danno dell’inferno. Vedevasi Alfonso. e vedevasi i compagni girar a piedi i paesi della Costa...
Divulgata la notizia de’ nuovi Missionarj, istituiti da Alfonso in ajuto specialmente de’ villaggi, e de’ luoghi abbandonati, non furono poche le richieste, ch’ebbe da molti Vescovi per avere delle Missioni in varj luoghetti, anzi tanti, e tanti s’invogliarono avere stabilmente i Missionarj nelle proprie Diocesi... Se ne consolava Alfonso, e da tutti Si rendevano grazie a Dio, vedendosi benedetta l’Opera, ma mancando i Soggetti, non era nello stato Alfonso a poterli compiacere. Il vescovo di Cajazzo ci aspetta, e conta i momenti, così Alfonso al suo Direttore Monsig. Falcoja a’ ventinove dello stesso Decembre, quello di Cassano (Gennaro Fortunato) lo stesso: a Salerno anche siamo desiderati. Bisogna ci sieno Soggetti istruiti, al che ci vuole il tempo, e quello che più importa, dello stesso sentimento. Vedete mandarmi presto Sportelli” 1.
Per ora c’era accordo almeno per quanto riguardava lo zelo, anche se il gruppo non poteva ancora riversarsi al di là del ristretto ambito amalfitano.
La fiducia dei vescovi per il Liguori era totale; a p. 57 del suo piccolo diario egli annotava questa battuta significativa di Mons. Scorza:
“Vescovo Amalfi: li do vices et voces, e lo faccio Arcivescovo di Amalfi. Specialmente prima per Tramonti, sempre che voglio”.
E parallelamente questa delega generale da parte di Mons. Santoro:
“Vescovo di Ravello. Al Monastero nuovo sempre, che voglio una volta per sempre confessarci, predicarci, entrarvi dentro”.
“Tramonti”: questo nome è inciso nel cuore di ogni Redentorista, perché là la congregazione tenne la sua prima missione. Mentre sotto la direzione di Alfonso, gli apprendisti missionari preparavano febbrilmente le loro prediche per essa, Falcoia si infiammava nel suo grande zelo e scriveva a Alfonso:
“Si consolerà, nel sentire dal Sig. D. Silvestro, che viene, con mia grand’invidia, a ritrovarvi. Sarei venuto ancor io, per godere degli odori delle vostre sante Missioni. Ma più gravi rispetti me l’han’impedito. Fate pure e seguitate l’altre, ed i santi esercizi, con la benedizione del Signore, ch’io m’unisco con S.D.M. nel benedirvi codeste sante, e fruttuose fatiche; e sarei contentissimo, se potessi nettarvi le scarpe, ed asciugarvi le camicie. Lo fò col cuore, ch’è con voi, e v’accompagna, per dove andate... Nelle Regole vi sarà un buon metodo di Missionare...” 2.
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Tramonti: una valle scoscesa inerpicantesi dal mare fino al valico di Chiunzi a 656 metri su Nocera e Pagani; scaglionati sui pendii. dodici villaggi e tredici chiese o “parrocchie”3 (Paterno ne aveva due); piccole “parrocchie” che raggiungevano insieme i 3.756 abitanti e costituivano un’unica arcipretura; a Polvica un convento di Frati Minori, a Pocara un conservatorio carmelitano. Il clero diocesano si era costituito in congregazione e aveva con i religiosi rapporti improntati più alla concorrenza economica che all’emulazione apostolica.
Verso la metà di gennaio 1733, Liguori, Donato e Mannarini (non sappiamo se Tosquez annunziato da Falcoia di fatto poi li raggiunse), a piedi, si avviarono verso Ravello e Maiori, risalendo poi la vallata di Tramonti fino ai pendii ai quali stava aggrappato il villaggio più alto, Campinola; un asino portava forse i pochi bagagli.
Della spedizione faceva certamente parte anche il fratello Vito Curzio, che “coadiutore” dei sacerdoti, avrebbe animato la preghiera, preso parte alle visite, ai catechismi, all’accoglienza e all’ascolto della povera gente e assicurato la cucina del gruppo (compatiamolo! ), dal momento che i padri in missione sarebbero vissuti a loro spese in una casa presa in prestito o in affitto 4 .
Il debutto della prima missione redentorista avvenne con tutta probabilità a carnevale, cioè allora e in quei luoghi il 17 gennaio, festa di sant’Antonio abate, che quell’anno cadeva di sabato. Da quella sera a Campinola si susseguirono le uscite processionali per chiamare solennemente il popolo alla grazia della missione: una missione che durerà “ almeno 15 giorni per paesi piccioli ”, come dice un progetto di quegli anni, scritto di propria mano da Alfonso 5. E qui i missionari avevano tutto il tempo necessario.
Dopo Campinola, furono raggiunti da Pietro Romano per le parrocchie di Pietre e Gete. Alfonso partecipò poco alla missione in quest’ultimo villaggio, perché, dopo gli esercizi nel vicino carmelo di Pocara, dovette rientrare a Scala per iniziare il 22 febbraio l’animazione della quaresima in cattedrale.
Predicare un quaresimale? Questo tipo di ministero sarà proibito da Alfonso e dalla sua Regola ai Redentoristi, “perché si attenda sempre da’ soggetti al fine della loro vocazione all’impiegarsi in aiuto delL’anime più abbandonate...”. Però la cattedrale di Scala era per il momento la chiesa del loro provvisorio convento e, se si voleva la missione continua, la quaresima doveva esserne un tempo forte: un tempo forte di conversione, non già di belle frasi e di giri di maniche.
Il successo a Tramonti fu tale che, fin dalla seconda missione (a Pietre), notabili e popolo chiesero che la nuova congregazione venisse a stabilirsi tra loro. E perché no, dato che era ancora in cerca di un convento e di una chiesa tutta sua?
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“Non sgomenti codesti Signori di Tramonti, scriveva Falcoia a Liguori il 12 febbraio, né l’assicuri; ma li vada mantenendo fra la speranza, che potranno esser serviti, ed il dubbio; poiché vi sono le tante premure preventive e la tenea penuria di soggetti: e la pianta è tanto esile che non può sì presto dividersi. Conservo la lettera dell’aggarbatissimo Monsignore di Caiazzo, cui rispondo dal canto mio, che si degni di pazientar un poco. Mentre ora non semo ancor a taglio di poterlo servire ecc. Su queste simili note può rispondere ancor lei, che dopo Pasca potrebbe andar ad abboccarsi con lui” 6.
Altri pensieri preoccupavano il prelato, che nella stessa lettera dichiarava “andar tirando avanti la mia croce; quantunque mi venga più aggravata da varie strade, e specialmente da quella del Sig. D. Silvestro, che volta contro di me tutto quello, ch’io l’ho con amore posto nelle sue mani”.
Gli aveva messo in mano troppo, fino a farsi sostituire da lui nel corso di un ritiro che stava predicando alle Clarisse di Ravello, desiderando assentarsi due giorni per andare a Napoli. Nel monastero di Scala, del quale gli aveva spalancato le porte, le parole del gentiluomo risuonavano come oracoli; sinceramente (perché no?) pretendeva di leggere nelle coscienze, non dubitava di niente e sentenziava sui problemi delle suore con la sicurezza e l’autorità di un profeta, in chiesa le sue espressioni, volta a volta estatiche o sofferenti, erano spiate dalle grate e commentate con ammirazione; ricco. rimpolpava forse con i suoi ducati le troppo magre rendite delle doti e di Filangieri, da lui si aspettava, non senza probabilità di successo, l’approvazione pontificia delle regole. In breve, il Dottor Tosquez stava per diventare il padre spirituale e temporale del monastero.
“D. Silvestro starà al segno” aveva scritto Falcoia: pura illusione! Nella stessa lettera: “Ho Suor Maria Celeste alla mano”, ma non per molto tempo!
Sappiamo che, fin da quando lo aveva conosciuto, pur stimandolo sinceramente come uomo di Dio, Celeste stava a lui come... il Cristo alla croce. Da otto anni, di stazione in stazione aveva portato questa croce sempre più pesante e infine nel novembre 1732 vi era stata inchiodata dal comportamento di Falcoia “con i fratelli”. Fu anche il consummatum est, come scriverà più tardi:
“Il P. Spirituale delle monache, sì come avea fatto colle Regole delle monache, cominciò ad imponere molti esercizi e orazioni vocali... e queste cose scrivea nelle Costituzioni degli uomini... ed altre cose simili. Ma in queste cose non si univano j pareri di tutti j fratelli, ma vi cominciarono delle molte contraddizioni tra di loro, e andavano e venivano dal monistero lamentandosi del consaputo P. Spirituale, perché
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lui volea farsi capo di tutti j fratelli e che ogni uno fosse stato da lui dipendente e soggetto al suo parere. Il P. D. Alfonso Liguori e il confessore ordinario delle monache si fecero del partito del detto Padre spirituale, essendo gli consaputi soggetti a lui per la loro direzione di spirito; il P. D. Vincenzo Mannarini e il Pad. D. Giovan Battista De Donato, con il consaputo gentiluomo divoto si fecero di contrario sentimento... Inni cominciarono le cose a pigliare dispareri e contraddizioni tra di loro e durarono queste contraddizioni per qualche tempo con aggiunta di parole forti e cominciò ad esservi qualche disturbo tacito tra li congregati.
All’incontro vedendo la consaputa religiosa, che avea ricevute le Regole dal Signore, che quel P. Spirituale andava a turbare l’opera del Signore e l’unione, tanto necessaria, dej fratelli, ricorse al Signore coll’orazione. Ed egli li fece sentire che non sarebbe egli stato più suo P. Spirituale e che ella se ne ritirasse, perché non era sua volontà che fosse suo direttore. Inni la consaputa religiosa non fece conto di quanto avea sentito, ma sì bene si ritirò in silenzio e non conferiva col consaputo padre più le cose che passavano per l’anima sua. Ella avea sofferta una interna battaglia dal ora che il Signore gli rivelò l’Opera del nuovo Istituto, che gli durò sino a quest’ultimo tempo, che erano passati ben cinque anni, col consaputo Padre spirituale”7.
Questo testo dell’Autobiografia sottolinea quale motivo determinante della crisi il disaccordo sul nuovo Istituto maschile, nella lettera del 20 aprile 1733 al suo confessore ordinario, Don Pietro Romano Maria Celeste parla anche, analizzandola, dell’effettiva assenza di direzione in cui l’avevano sempre lasciata le incertezze del Falcoia:
“Estra j lumi... ebbe tre motivi e cause che mi mossero a tale risoluzione e mi mossero ad effettuare que’ lumi, non per j lumi né per credito, ma per la ragione che, estra di quelli, io avea nella mia anima.
La prima fu che per tanti anni di guida e chiarezza fatta a lui era mai sempre detto padre in una certa perplessità di mente su le mie strade e questo mi rendeva insicura al condotta del cammino, onde giudicai che il Signore non si volesse compiacere per tale canale darmi lume chiaro e certezza di camminar bene e sicura.
Secondo motivo fu che tutte le mie parole dette e fatti o in qualche abbondanza di spirito o in un certo moto di purità di Dio straordinario.. lui, per volontà di Dio, li prendeva in sinistri sensi ed assai lontani da quello che in me proceduti erano, onde le sue risposte mi impedivano quel bene e quella purità... mi poneva in grandi afflizioni di anima, tanto più (che) un certo fisso pensiero che un tal padre non penetrando, per volontà di Dio, il mio interno, non mi potesse condurre per quella strada, che mi bisognava in pace e quiete della mia anima . . .
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Terzo, perché... chiedendogli più volte voler consiglio di altro ministro della Chiesa per la mia anima, specialmente su di cose importanti, lui ciò me l’attribuiva a superbia, disapprovandomi tale desiderio; onde l’anima mia a tale effetto si contentava vivere sempre piangendo per le cose che lui diceva; ma mai ardì di farlo per non passargli avanti una iota. Ma allor che poi si compiacque il Signore dare effettuazione al opera del nuovo Istituto e vedendo dett’anima cresciute le sue afflizioni, per cagione che... lui si affaticava metter dubbi, difficoltà e opposizioni, le quali cagionavano disunioni e dubbi nelle persone che doveano abbracciare l’istituto, si deliberò assolutamente lasciare tale guida, se bene di uomo santo fosse, per mettere l’anima sua in pace e j fratelli e j congregati in santa libertà, posto che si era già approvato che l’opera era di Dio, ed avvalersi in avvenire di altri consigli e di altra guida”.
La suora si rivolse in maniera particolare a Don Giulio Torni, che a Napoli era anche vicario episcopale per le religiose.
Un pericoloso fossato venne quindi a scavarsi, anche se ancora discretamente all’inizio del 1733, tra Tosquez e Crostarosa da una parte e Mons. Falcoia dall’altra. Passasse pure per Don Silvestro, tanto ingombrante quanto intraprendente, ma in Celeste, come in Falcoia, Alfonso vedeva una colonna dell’opera; precedentemente ne aveva riconosciuto e fatto approvare dal vescovo Guerriero la missione divina; per di più era legato a quest’anima di Dio da profonda amicizia! Certo comprendeva i motivi - non li condivideva però anche un poco? - che allontanavano la suora dal direttore, ma era chiaro che una tale spaccatura avrebbe rinforzato gli oppositori di Falcoia e fatto vacillare gravemente il duplice istituto. Loro comune dovere non era forse accettare i sacrifici necessari per salvare l’opera? Avrebbe convinto Celeste, anche perché non gli sembrava che la rottura fosse già definitiva. Tutto insomma non crollava a Scala, a Napoli invece...
Napoli infatti non aveva deposto le armi. Quando Torni aveva scritto al suo caro allievo: “ La nostra Congregazione riconosce S. V. Ill.ma per uno de ‘suoi più cari fratelli niente meno che prima ”, aveva lasciato parlare solo il suo cuore e quello del canonico Gizzio, perché in realtà la fondazione a Scala, L’animazione apostolica della costiera amalfitana, i successi di Tramonti avevano ridestato con forza tra i confratelli di Propaganda un fuoco che non si era mai spento: “Perché quest’orgoglioso fa compagnia a parte? ”. Fu richiesto che venisse messa ai voti l’espulsione di Alfonso e assegnata ad altri la cappellania, che lo aiutava a far vivere la sua nascente comunità, ma Torni ricorse al cardinale dicendo:
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- Si vede ch’è rabbia: non contenti di averlo denigrato nella riputazione, li vogliono togliere anche il pane.
Pignatelli fu desolato, ma rifiutò di proibire la consultazione, concludendo:
- Che si determini, non vi affliggete: penserò io al dippiù ed a quel che conviene.
Questa “figura del giorno del Giudizio” (l’espressione è di un testimone, Don Tommaso Buonacquisto) ebbe luogo lunedì 23 febbraio. Nel verbale della seduta il segretario annotò cinquanta nomi, assente Sarnelli e “Canonico Gizzio scusato” per non assistere all’esecuzione del nipote; poi aggiunse: “Il nostro P. Superiore ha ordinato la bussola per nostro Fratello D. Alfonso Liguori: così se si doveva escludere dalla nostra Congregazione come se si doveva toglierli la cappellania per essere passato...”. La sua penna non seppe formulare il motivo dell’espulsione (ma completerà la storia: “ per essere passato agli abbandonati”) e si rifiutò di riportare l’esito dello scrutinio. Il 28 febbraio però Torni scrisse al condannato:
“Fu da tutti unitamente stabilito, che V. S. Ill.ma fosse cassato dalla Congregazione, e che la Cappellania si provvedesse in persona d’un nostro fratello8... Questo voto però fu remissivo all’arbitrio del nostro Emo. Sig.r Cardinale. il qua!e espressamente comandò, che dalla Congregazione non si dasse passo alcuno in questo affare, senza suo espresso ordine... mi ordinò come Superiore de’ Superiori e della Congregazione, che V. S. Ill.ma restasse Fratello e seguitasse la celebrazione di dette Messe nella solita Cappellania...
Credo che più di questo non poteva Io operare in suo servizio e per darle a conoscere con questo tenero affetto ancora l’amo... ”.
Poi il canonico aggiunge, pensando a Falcoia che a stento lo sopportava come terzo incomodo nella creazione della nuova congregazione missionaria:
“ Non rispondo a V. S. Ill.ma circa quello che desidera per lo regolamento di codesta Comunità, perché le mie consulte sono in codesta Comunità molto mal’intese; mi comandi per la sua persona tantum, ch’io son prontissimo a darle tutta quella soddisfazione che posso, ma non per codesta sua Comunità perché non le darò giammai risposta ”9.
Rigettato dagli Illustrissimi, Alfonso, si vide privato anche dei lumi di Torni e di quelli di Maria Celeste dall’assolutismo di Falcoia, che stimava e amava ma non più di quanto stimasse e amasse Torni e Maria Celeste e del quale non voleva e non poteva fare a meno, perché l’Istituto era ancora tanto precario. Tra queste angosce intanto continuava la sua quaresima a Scala.
Lunedì 2 marzo, con tutta probabilità, rientrarono all’ospizio i
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missionari da Tramonti e fu come l’acido su una piaga aperta. Tannoia ci ha conservato alcune briciole delle lettere di Alfonso a Falcoia:
“Oh Padre mio, e che conversazione tediosa è lo stare ora in conversazione con D. Vincenzo: L’ho provata questi pochi giorni, e solo per Gesù Cristo può sopportarsi...
Padre mio, io ringrazio il Signore, che mi fortifica in mezzo a tante tempeste, e quello ch’è peggio anche domestiche tra di noi, resistere, e non dissanimarmi. Tanto mi merito, dopo che ho passato quanto ognuno sa, con avermi disgustato casa, amici, ed Arcivescovo, voltando le spalle a tutti, per obbedire a Dio. V. S. Illustrissima, e le sue parole mi danno animo che mi fidi di Dio, ancorché mi vedessi restato solo nell’Istituto. Padre mio, non mi abbandonate, perché se anche V. S. Illustrissima mi abbandona, io non so che farò. Del resto ordinate, che io obbedirò...”.
E, gesto di speranza contro ogni speranza, concludeva:
“Le invio, secondo l’appuntata, lo sbozzo delle Regola, ed altro non le dico: abbiate pietà di me” 10
In realtà il terreno franava dappertutto; ora era la volta del monastero, malgrado che Alfonso con una lettera severa avesse creduto riportare Celeste sotto il bacolo di Falcoia, ricevendo però un rifiuto il cui garbo l’aveva gelato 11. D’altra parte il clima diventava irrespirabile per opera di una piccola “ peste ”, suor Maria Colomba delle Sante Piaghe (il nome era veramente indovinato!): venticinque anni intelligente, fattasi passare (sinceramente o no?) per visionaria e stimmatizzata, aveva conquistato la fiducia del padre spirituale, che ormai governava il monastero secondo la sua bussola. Tra lei e Tosquez il gioco era a chi eliminasse l’altro e scriveva lettere su lettere a Castellammare: “ Don Silvestro distoglie le suore dalla vostra direzione. Pretende governare la comunità. Porta alle stelle suor Celeste, perché v’è attacco tra loro, tutto spirituale s’intende, però... E’ tanto più dannoso, perché non è che un ipocrita che si atteggia da santo. E tutto questo è sicuro: Dio me l’ha rivelato... ”.
L’insinuazione fece presa su Falcoia, fece presa su Alfonso e spezzò in due la comunità.
“ Non mancava che questo, si disse Mons. Santoro, divisioni tra i padri, divisioni tra le suore: sta qui "L’Opera del Signore" della quale ho ingenuamente approvato le Regole? ”. Fatta su loro richiesta una visita canonica alle religiose, ordinò che gli venisse restituito il decreto di approvazione e che si ritornasse all’abito e all’osservanza di san Francesco di Sales. Era gettare alla rinfusa nella pattumiera Celeste e Falcoia, Tosquez e Liguori, ma anche la stessa Colomba e le sue partigiane che avevano messo in moto una valanga precipitata molto più
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in basso di quanto si erano ripromesse. V’è un solo Dio in Israele e un solo vescovo a Scala, non già due!...
Ma le monache avrebbero perso la faccia, da Scala fino a Napoli e oltre... Lo supplicarono e ottennero di conservare il loro vestito e di seguire ciò che esse astutamente chiamarono “le Regole scritte dal padre spirituale ”, cioè di mantenere lo status quo; solo non si sarebbe più parlato ufficialmente di “Regole date dal Signore a Maria Celeste”, ma di “Regole di san Francesco di Sales” o di “Regole di Mons. Falcoia”. Santoro non vide che il bello e Tosquez, giocando fino in fondo i grandi capi, riportò al vescovo il suo decreto di approvazione e, conservando presso di sé il manoscritto originale delle Regole della Crostarosa, riconsegnò alle suore il testo rimaneggiato da Falcoia; poi se ne tornò definitivamente a Napoli.
Maria Celeste entrò in una notte senza stelle e, priva anche della luce del Signore, cominciò a temere d’essersi ingannata: tanti “ santi ” e “ sante ” la perseguitavano per rendere gloria a Dio! La sua corrispondenza veniva intercettata, le lettere di Tosquez erano passate al setaccio, si trovavano crimini sotto ogni parola e la calunnia cresceva, straripando verso Castellammare. Falcoia reagì con sanzioni via via più passionali: Celeste fu privata della comunione, del parlatorio, della corrispondenza, di ogni contatto con le consorelle, che nella maggioranza la sostenevano, anche delle due sorelle di sangue. Sola nella sua cella prigione, perse l’appetito; assalita dalla febbre, costretta a letto dalla debolezza, restò senza soccorsi, senza visite... Di tanto in tanto una delle sue accusatrici, inviata dalla superiora M. Angela, veniva a farle un discorso ipocrita:
- Questo gentiluomo, che prende in giro le persone spirituali, è stato introdotto dal demonio nell’Opera del Signore: un gaudente, un mondano, che ha fatto perdere la testa a religiose! Cara sorellina, credimi: se vuoi uscire dai guai, rimettiti sotto la guida del nostro padre spirituale... Altrimenti, te lo dico in segreto, sarai gettata in prigione e punita duramente fino alla morte...
- Non so se questo secolare sia buono o cattivo, rispondeva Celeste, sono però dell’avviso che bisogna allontanarlo dal monastero, ma senza calunnie. Quanto al ritornare sotto la direzione di Mons. Falcoia, in coscienza non posso.
Mentre invano si faceva di tutto per piegare questo fuscello, il vescovo di Castellammare si mise appositamente in viaggio per Napoli, al fine di rabbonire Torni e Tosquez 12, Quest’ultimo “in molti giorni non volle mai ammetterne discorso, scrisse il 16 marzo Falcoia ad Alfonso, se non l’ultima sera... quando dopo una lunga diceria, mi caricò (caritativamente) d’una serie d’ingiurie e villanie ”. L’incontro con Torni andò meglio, ma restava da convincere il grosso delle religiose,
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le quali, tranne Maria Colomba e la sua piccola combriccola, avevano tuttora nel cuore Maria Celeste e le sue Regole. Nello stesso mese di marzo indirizzò perciò alla comunità una lunga apologia, nella quale intrecciava accortamente astuzia, fede e buon senso:
“La difficoltà potissima consiste nelle Nove regole, che si hanno per ricevute dal medesimo Salvatore. Ed il dubbio sta, se abbiano da riceversi quelle, che si dicono ricevute, o quelle, che io ho accomodate. Questo dubbio è vanissimo da un canto; perché tanto l’une, quanto L’altre, nella sostanza sono le stesse; mentre sono Regole tratte dalle virtù di Gesù Cristo. V. Gr. dalla Carità, dall’Umiltà, dalla Mortificazione, ecc., e tanto l’une quanto l’altre portano uno stess’ordine, una stessa sostanza ed uno stesso fine e conseguenza.
...e se qualche cosa s’è mutata, è stato quello, in che discordavan le prime, che si dissero ricevute, dalle seconde, che si fecero per ordine mio dopo che mi avevo richiamate tutte le copie delle prime... Quando si dicesse: Noi volemo quelle proprio, che ci ha date Gesù Cristo, e non quelle, che ci date voi. Risponderej, ch’io voglio propriamente, ch’abbiate quelle, che vi dà Gesù Cristo, e non altre...
S.D.M. ha manifestato di volere questo nuovo Istituto, nel quale s’attendesse di proposito, e pienamente, quanto ci sia possibile, con la sua Divina grazia, all’imitazione della vita Sacrosanta del suo benedetto Figliuolo Umanato. Ha dato anch’un barlume di quelle sante virtù, che sono l’orme del nostro Salvatore... ma non ha date le parole... Onde le parole sono state della creatura, quando il disegno è stato del Creatore... E questo l’ha fatto S.D.M., acciò la creatura non s’invanisse di se medesima e si soggettasse a’ suoi Ministri...
L’avere posto io le mani a fare così; doveva esser per voi una sicurezza grande per credere, che andava bene quel che facevo; perché io solo mi trovavo in mezzo; e questo canale v’ha dato S.D.M. per farvi scorrere la grazia della cognizione del Suo divino volere: e se non è così, per qual’altra banda voi ne potete essere accertate? Chi avevivo che vi regolasse? Per qual altra strada potevivo assicurarvi, che le Rivelazioni non fossero illusioni ? . . .
V’ho posto le mani, perché io solo sapeva il tutto; e mi pareva di poter addrizzare la barca in ogni evento. E v’assicuro, che mi stimarei felice, se potessi ritirarmene, come più volte ho pensato, perché ho creduto, che non potevo cavarne più bene; stante la diffidenza di qualch’uno che ha mostrato di credermi impegnato a resistere alla manifestata volontà di Dio ecc.
V’ho poste le mani ad aggiustare le Regole in quel modo, che l’ho aggiustate, perché per voi era tutto tanto: e poi ho considerato, che devono passare sotto gli occhi purgatissimi de’ Superiori Maggiori, che trovano i nei nel sole; e tutta l’opra loro si è l’approvare o riprovare:
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e riprovano volentieri, per piccoli dubbi, massimamente, quando sono cose nuove; e più quando corrono sott’un aere di rivelazioni, e visioni.
V’ho posto le mani solamente per accomodare quello, che mi pareva doversi accomodare, del resto ho seguitato le stesse tracce... Ma quando v’avessi dato io da per me la Regola, come l’ho data a varie Comunità, non dovevivo voi accettarla come venuta dalle mani di Dio, ed adorarla, e pontualmente eseguirla, senza ponere avant’il vostro proprio giudizio, ch’è quanto a dire il vostro capital’inimico? Non sono stato io tant’anni vostro Padre? Non v’ho allevato coi sospiri, e lacrime?...”13.
La storia antica e recente ha sempre dimostrato che le rivelazioni possono essere frammiste a illusioni e perciò hanno bisogno del controllo esteriore di uno sguardo sicuro. Sfortunatamente però sembra che Falcoia non abbia mai potuto o voluto operare, una volta per tutte, L’indispensabile discernimento del caso Crostarosa. Mancanza di acutezza spirituale o autoritarismo maschile e clericale che non sapeva ridimensionarsi di fronte a una donna e umiliarsi di fronte a Dio? Ad ogni modo questa lettera fu un ulteriore passo di un cammino titubante, al quale le religiose non furono capaci di opporsi, anche se non riuscirono ad adattarsi. E Maria Celeste si allontanò definitivamente da Falcoia...
Definitivamente? Il prelato non poteva ammetterlo, anzi credette di riportare la recalcitrante sotto la sua direzione facendo leva sull’autorità e l’amicizia di Alfonso, che non si fece pregare, giudicando necessaria per la stabilità dell’opera la spinta simultanea dei due contrafforti, Crostarosa e Falcoia.
Venuto in missione comandata al monastero, tenne una conferenza sul traviamento delle anime che, illudendosi, perdono il cammino delL’orazione, “e la predica consisté tutta in esagerare quante anime si sono ingannate...”, notava Maria Celeste, che, pregata poi di scendere alle grate per un colloquio, si rifiutò, adducendo come scusa il suo stato di salute.
Alfonso allora le “scrisse una lettera di un foglio” (cioè sedici pagine) di difficile interpretazione, perché arringa dell’avvocato Liguori in favore del cliente Falcoia, che quasi scriveva per mano sua, come emerge dalle seguenti annotazioni delle lettere dello stesso prelato: “ Mandatemi la lettera scritta a Celeste ” (16 marzo); poco dopo: la lettera “scritta a Celeste non l’ho ancora letta: ve la rimando appresso ”; infine: “ La lettera di Celeste è giudiziosissima. Non so se questa sia copia, oppur’originale: L’ho letta; ve la rimando ” 14 . Sembra perciò che la lettera fiume non sia stata scritta con tutta l’indipendenza necessaria
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in simili frangenti e consegnata a Celeste dopo il visto del Direttore: documento quindi già chiaramente orientato, quasi servizio su comando.
Alfonso vi esprimeva le sue convinzioni fondamentali: importanza di un direttore e dell’ubbidienza, necessità di Falcoia per la sua competenza e quale garante dell’unità, indipendenza di fronte alle rivelazioni (riguardo a queste si sente perfino l’ombra del dubbio); ma non poteva dire tutto quello che pensava su Celeste, su Falcoia, sul diritto di decisione che egli si riservava riguardo alle Regole... Anzi pensava completamente tutto ciò che scriveva? Ci perdoni se non riusciamo a superare la tentazione di porci questa domanda.
A questo punto il lettore non può più ignorare i passi principali di questo documento di capitale importanza:
“ Viva Gesù, Giuseppe, Maria, Teresa!
Celeste, Sorella mia dilettissima in Gesù Cristo e Maria... leggi questo foglio, e facci orazione tre giorni, ma tutta rassegnata in una perfetta indifferenza, senza scrivermi o notarvi cosa alcuna per rispondermi, e poi fa quel che ti piace... Distinguiamo l’affare dell’anima tua dall’affare dell’Istituto.
E prima, in quanto all’affare dell’anima tua, dimmi Celeste, tu perché hai lasciato Monsignor Falcoia? Il quale è santo, è illuminato come tante volte mi hai detto... e per tanti anni ti ha guidato sì bene, che tu ne devi sempre ringraziare Dio e lui colla faccia per terra. Che male hai scoverto mo’ nell’anima sua? In che precipizio forse ti ha fatto cadere? L’hai lasciato, perché t’inquietava con tenerti umiliata ed oppressa? Ma questo, Sorella mia, non vedi che era assolutamente necessario per soggiogare il tuo spirito altiero, e per non farti affezionare al tuo giudizio proprio? ...Ti ha assicurato forse D. Silvestro? Ma se a te è sospetto Falcoia che ti ha sempre umiliata, molto più devi tenere per sospetto il giudizio di D. Silvestro; mentre sai che questo ti stima più che S. Teresa...
Oh quanto, Celeste mia, D. Silvestro ti ha fatto perdere di umiltà... Ah! Celeste antica, dove sei? Com’è stata questa ruina, come? Che mi sento morire, quando ci penso... Dov’è la tua bella antica obbedienza a’ Superiori? Dove la tua bella umiltà, con cui desideravi d’essere disprezzata e disapprovata da tutti? Ora, lasciata quasi in tutto l’obbedienza, vai cercando, sotto vani pretesti della gloria di Dio, d’essere stimata ed approvata da tutti. Non ha bisogno Dio, per la gloria sua che ti difendi, no. Quando egli ti vedrà veramente umile, quanto più ti vedrà umiliata, tanto più egli s’impegnerà a difendere te e l’opera sua . . .
In quanto poi all’affare dell’Istituto, è certo che le Regole da te notate, hanno bisogno di mille e mille spieghe. E tu medesima non ti ricordi che mi dicesti, dal principio che io venni al Monistero, che
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Falcoia faceva bene a discifrare il divino dallo umano, essendo nelle Regole notate molte cose di giudizio proprio? E l’istesso tu medesima me l’accordasti in quanto ancora all’Istituto degli uomini... S’hanno d’aggiungervi tanti altri capi e costituzioni particolari distintamente per le scuole, per le missioni, per le case di studio, per la diversità degli esercizi che s’han da fare, per gl’impieghi che si permettono o proibiscono, per le accademie, per le congregazioni e per tante altre cose...
Or queste spieghe e costituzioni fra noi, chi le ha da fare? Io e D. Vincenzo siamo poco pratici di comunità e senza esperienza, aggiungendo di me che sono ignorante. D. Silvestro è meno pratico di noi; D. Giovanni Battista conserva l’affetto alle sue Regole antiche; onde, come sai, sta costante a non volere il coro, cosa così principale... Oltrecché, se noi lasciassimo Falcoia per unirci tra noi a far queste Regole, D. Silvestro certamente vorrebbe fare da direttore, e da interprete infallibile delle tue rivelazioni, non solo passate, ma ancora future; poiché egli è stato avvezzo sinora a far sempre da maestro, e mai da discepolo; e povero quell’uno poi, che si mettesse a contraddirlo in questa cosa, come ho veduto coll’esperienza, ché egli vuol vincere in tutto... Ed io già m’immagino, Celeste mia, che questa sarebbe la tua intenzione, di tirarci tutti, poiché abbiamo lasciato Falcoia a dipendere alla cieca dagli oracoli di D. Silvestro, come dipendi tu. Se Dio lo volesse, lo farei; ma per mò, questa ispirazione non me la sento. -
Torniamo a noi...
Per istabilire bene le Regole e l’Istituto, è necessario che ci rimettiamo ad un soggetto atto per questo; sì perché noi non siamo atti per questo; sì perché questa è la via più facile e sicura, come han fatto tutte le Religioni; sì ancora per mantenere l’unione fra noi. Altrimenti, da una parte, non vi sarà mai perfetta unione fra di noi, dovendo sempre stare in contese ed in apportar ragioni per quello che ognuno pretende che si stabilisca; e d’altra parte, lo stabilimento delle Regole anderebbe in infinito, e sempre in contrasti...
E voi rimettetevi al vostro presente Superiore. Io venero il P. Superiore, e so che debbo ubbidire nelle Regole già stabilite; ma non mai ho avuto intenzione di stare a quelle regole che fa il Signor D. Giov. Battista. Obbedirò in ciò solamente a quel che stabilisce Monsignor Falcoia, mio direttore e direttore certamente di tutta questa Opera. Ed in ciò sappi una volta per sempre, Sorella mia, che io son venuto all’Istituto, non per esserne Capo e Direttore o per precedere in alcuna cosa, come mi avverti, né per piacere agli uomini... Sono venuto dunque solo, solo per obbedire a Dio; e spero di non lasciare mai, per quanti appletti mi dieno gli uomini, conforme specialmente ora sono stato applettato da Napoli a ritornarmente. Ma sappi che in ciò non seguito le tue rivelazioni, come ti scrissi da principio; ma
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seguito solo la via ordinaria e sicura della santa obbedienza de’ miei Padri spirituali, alla quale via sta promessa da Gesù Cristo quella sicurezza di accertare la volontà di Dio, che non sta promessa a tutte le rivelazioni del mondo, come dicono tutti i Maestri di spirito...
E sappi, con ciò, che quando mi viene il dubbio, che tutti i lumi tuoi sin da principio siano stati illusioni, per quello che ora so di te (mentre è certo che mo’ tutti i lumi e visioni tue, che ti confermano nella tua ostinazione, sono vere illusioni, come ti ha scritto Falcoia e lo conoscerebbe ognuno); in tale dubbio, questo mi fa animo a resistere e mi dà forza: il pensare che io non seguito in ciò le tue rivelazioni, ma seguito l’obbedienza del mio Padre spirituale. E così, ancorché tutte le tue fossero state illusioni, io coll’ubbidienza vado sicuro, e non posso errare nella mia vocazione.
Torniamo a noi. Posto ciò dunque, che si ha da eleggere uno necessariamente per i dubbi, affari e circostanze presenti che vi sono, D. Vincenzo dice che si elegga un’altro, e non Falcoia. Ma perché, rispondo io, si ha da eleggere un’altro, e non Falcoia, se non vogliamo operare per passione? Per Falcoia, noi abbiamo lumi ancora di Dio troppo chiari, che Dio l’abbia eletto per regolare quest’Opera sua. Basterebbe primieramente per tutto, il sapere che egli si trovava direttore tuo, per sapere che ad esso Dio dava il peso dell’Opera: dovendo egli, e non altri, approvare e spiegare i lumi tuoi...
Ma quando non ci fosse niente di queste notizie soprannaturali, dovendoci noi rimettere ad uno, almeno perché vediamo che questa è la via più breve e più sicura di stabilire le Regole e di conservar tra di noi l’armonia: perché, per quest’uno, non abbiamo da eleggere Falcoia?... uomo vecchio, esperimentato, illuminato, dotto, pratico di comunità, di missioni, di scienza, e pratico ancora di cose di mondo, sicché è difficile trovarne molti, che abbiano unite tutte queste qualità necessarie per ben regolare quest’Opera, come le ha in sé unite questo santo vecchio...
Ah ! Dio mio, Celeste, e che allucinazione è stata questa troppo dannosa per te! Questo succede, quando per qualche suo difetto si allucina un’anima illuminata: così io dico di te, ci vuole quasi un miracolo di Dio per rimetterla in luce.
Eccoci ora così disuniti, come vedi, e tu sei la causa di questa disunione. Celeste, io ti parlo da parte di Dio, pensa che tu presentemente, colla tua ostinazione, tiri a ruinar l’Opera che non è tua, ma è di Dio. E’ vero che tu e tutti non bastate a guastare l’Opera, se Dio la vuole; anzi se tu resti ostinata, io penso che il Signore per questa via forse meglio ci aiuterà: poiché non nominandosi più lumi e rivelazioni, troveremo più facilità per l’approvazione di Roma. Ma frattanto per te, se tu porti questo peso, avanti di Cristo Giudice, di aver tirato
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a ruinare l’Opera sua, che ne sarà dell’anima tua? Io, se sarò escluso dall’Istituto, come andate dicendo - (Alfonso parlava di coloro che si servivano di Maria Celeste contro Falcoia, cioè Tosquez, Mannarini, Donato; nessun passo dell’Autobiografia della fondatrice delle Redentoriste lascia supporre che lei avesse mai avuto un simile pensiero)- confesso che me lo merito e me ne contento, purché non sia escluso dalla santa obbedienza; ma sappi però che non sta a te, né a D. Silvestro, escludermi dall’Istituto; sta a Dio... ed io mi tengo veramente per chiamato all’Istituto, perché me l’ha detto l’obbedienza...
In quanto a te, io ti vedo all’orlo d’un gran precipizio e ti piango di cuore, se non ti ravvedi. Ti vedo senza obbedienza a Falcoia, a cui sei obbligata ad obbedire, almeno come a direttore comune della Casa. Già dunque può dirsi che hai perduta l’obbedienza ai Superiori tuoi veri, hai perduta la quiete; avverti che non perda ancora l’anima, ché già ne hai cominciato a pigliar la via. Io ho fatto fare in diverse parti più novene, intendo io d’applicarle per te; ma ti vedo troppo dura: tremo che già ti vada abbandonando Dio...
Celeste mia cara, intendi a me, umiliati; che se t’umili, il Signore certamente t’illuminerà... Falcoia è santo, è dolce; non t’immaginare che ti voglia male. Se a lui t’umili, sappi che gli sarai più cara di prima . . .
E’: finita la carta; ma io mi sento forzato a dirti queste altre due parole. Celeste mia, perdonami, se finisco con parlarti più chiaro. No conosci l’attacco che tu hai con D. Silvestro, e che D. Silvestro ha con te?... in D. Silvestro non vuoi solo Dio, ma vuoi qualche cosa che non è Dio. Vedi, che ancora stai in un vaso di loto; vedi che, seguitando D. Silvestro, ti metti volontariamente in gran pericolo di perdere Dio... ”15.
A queste pagine torrenziali, imbottite inoltre di Giovanni Crisostomo, Filippo Neri, Teresa d’Avila e... Tommaso Falcoia, Celeste rispose con due semplici righe di ringraziamento per la carità avuta da Alfonso nei suoi riguardi e fu tutto. Intelligenza superiore e per di più illuminata dall’Alto, aveva maturato a lungo la sua decisione, perciò non ne discusse più, come invece avrebbe fatto Alfonso al suo posto; inoltre aveva certo intuito che quest’ultimo, pur sincero nel suo procedere, aveva scritto “ in libertà vigilata ” e sotto il categorico imperativo di non veder l’Opera dissolta. Malgrado tutto ciò, la lettera fu per lei un colpo terribile, tanto da farle poi annotare nell’Autobiografia:
“La consaputa religiosa, vedendosi priva di ogni aiuto umano nej suoi timori, dubbi, e tentazioni tutta si abbandonò nelle braccia della Divina provvidenza, aspettando in pura e oscura fede ciò che Dio ne
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volesse cavare da una sì tenebrosa battaglia che il suo interno era così derelitto da ogni lume di consolazione, così divina che umana ”.
L’indomabile Falcoia questa volta perse un po’ la testa e probabilmente già lunedì 23 marzo 16 si recò a Napoli per dare a Torni la sua versione dei fatti e per giustificarsi tra i Pii Operai. Parlò qua, là, dovunque, troppo, troppo... ma chi se non lui aveva approvato la “visionaria”? Così a Napoli perse la stima definitivamente, e quelli che avevano condannato Alfonso, indignatisi ancora di più, ne ricamarono di nuove e più belle.
Falcoia avrebbe voluto recarsi anche a Scala, vedere le suore, il vescovo, Alfonso, ma non osava e scrisse a quest’ultimo:
“...non mi convien in conto alcuno, se Monsignore non me ne fa molta premura. Voi però sparmiate quanto potete con Sua Signoria Ill.ma le parole... Delle Regole, che cosa potevo io dire a Monsignore?
E’ vero, ch’io dissi a Monsignore che stimavo D. Silvestro Uomo da bene, e virtuoso, ma lo dissi altresì, che all’ora l’avevo conosciuto, e non prima, e che lo sentivo parlare virtuosamente. Lui l’ha certamente praticato più di me. Diremo, che ci semo ingannati ambedue... Chi mai poteva immaginare, ch’un secolare potesse presumere tanto? Chi poteva mai pensare, che nascondesse tante maniere, e tali, che lasceranno incantati per secoli tutti quelli, a’ quali n’arriverà la notizia? Mi sono ingannato nel credere ch’un Uomo, giovine, secolare, Forestiero di Scala ecc. potesse pretendere altro dal venir costà, ad un Monastero di Monache, e tanto accreditato, se non che, riceverne le notizie oculari, ed auricolari, prenderne l’edificazione e partirsi. Qui è stato tutt’il mio errore innocente. Ma che dovevo fare dopo l’essermi avvertito dell’inganno, nel vedere sì stravaganti, ed inaudite procedure, altro, che l’emendarmene, e correggere quanto mi fosse stato possibile l’errore? Sia lodato G. Cristo: m’ha servito questo, per farmi sapere prima di morire, ch’anche sin qui potevano arrivare le procedure degli Uomini...
Ho scritto, e rescritto a Monsignore. Ma non delle nostre cose, sulle quali non ho stimato bene d’entrare; maggiormente perché lui niente mi motiva; ed ha sfuggito d’abboccarsi con me. Doveva lui procurare quest’abboccamento, per sentire da me nelle gravissime corrent’emergenz’il mio parere e consultarci assieme due Vescovi del modo potesse tenersi per uscire dall’ambiguità di molte difficoltà notabilissime, ch’in questo Negozio s’incontrano. Tanto più, che lui ben sa, ch’altri, ch’io non sia informato di tutt’il comun’e particolare; e lui si fa da me alieno, e non solo non mi comunica, ma mi sfugge; e non solo mi sfugge, ma s’oppone, e disfà tutto quello è ordito da me. Anzi mostra d’aver di me gelosia, quasi voless’usurparli giurisdizione e far da Vescovo anch’in Scala (questo verme l’è stato posto all’orecchio) quando
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mi sono umiliato a fare da suo Deputato e Ministro. Che vi pare ch’or’abbi da fare? Che l’ho da scrivere; massimamente se lui non me ne dà motivo?... ” 17.
Ognuno ha una verità e a duecentocinquant’anni di distanza possiamo anche sorridere. Però la conclusione del dramma fu atroce.
Maria Celeste, per ordine di Falcoia, ricevette dalla comunità l’ultimatum, pena l’espulsione, di: 1 ) impegnarsi a non scrivere più a Tosquez; 2) firmare di proprio pugno le Regole rimaneggiate dal Falcoia; 3) fare il voto di riprenderlo come proprio direttore spirituale. Non possiamo addurre a scusante la mentalità del tempo, perché i punti 2 e 3 erano inammissibili allora come oggi e soprattutto il 3 era “ contro ogni giustizia ”, come si espresse il gesuita Giorgio Crostarosa, fratello di Celeste... Che Alfonso e altri santi abbiano emesso liberamente il voto di ubbidienza al direttore è una cosa, pretendere di imporlo contro la volontà degli interessati è, allora come oggi, intollerabile oppressione delle coscienze.
Dove erano finite le donne “ in piedi ”, che sette anni prima avevano detto no a Filangieri, per conservare Falcoia? Maria Celeste con nobiltà, di fronte a un capitolo servile e impaurito, diede le sue risposte: si impegnava a non scrivere più al gentiluomo; avrebbe osservato volentieri tutte le Regole adottate dalla comunità, ma, ultima delle ultime, non era conveniente le firmasse di proprio pugno; infine la coscienza le vietava assolutamente di impegnarsi con voto a riprendere come sua guida il padre spirituale del monastero. La superiora allora a nome di tutto il capitolo la dichiarò espulsa.
Celeste scrisse a Don Giuseppe Crostarosa:
“ Signor Padre carissimo, vi dò avviso come queste buone religiose del monistero, per le imperfezioni, mi anno licenziato e vogliono che jo eschi da questo loro monistero, così disposto da Dio. Per tanto la prego a fare ritrovare un monistero per essere ivi conservate sino a tanto che Dio disponerà, perché non è bene di stare a casa secolare. La prego a non affliggersi, che Dio provvederà e mi benedica. E gli bacio j piedi ”.
Con le due sorelle, Maria Illuminata e Maria Evangelista, spogliata come Francesco d’Assisi della dote e dello stesso abito del SS. Salvatore, con un saio da restituire alle Benedettine di S. Cataldo, alle prime ore del 25 maggio 1733, lunedì di Pentecoste, abb-raccerà la comunità in lagrime e, silenziosamente, lascerà il monastero.
Sarà accolta in un conservatorio di Domenicane a Pareti, vicino a Nocera, dove Tosquez verrà per riconsegnarle l’originale delle Regole del 1731 e per offrirle un po’ dei suoi zecchini, di cui le tre sorelle private di ogni cosa avranno estremo bisogno.
L’elevata statura spirituale delle nuove venute si imporrà subito
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al vescovo Mons. Nicola de Dominicis, che, facendosi forte, del voto di ubbidienza, designerà Celeste come superiora, Illuminata come vicaria e Evangelista come direttrice dell’educandato.
Falcoia, liberatosi a Scala da questa personalità che lo sovrastava, avrebbe dovuto sentirsi in pace, invece, come un’aquila che da lontano spia le mosse della sua preda, scriverà nel corso del 1734 al vescovo di Nocera per avvisarlo che “le consapute erano persone vagabonde e oziose, che facevano le caminanti per li monisteri. E però l’avvisava acciò le cacciasse dalla sua diocesi”. Mons. de Dominicis avrà una battuta non priva di sale: “Veramente conosco che il Signore esercita queste buone religiose e che il demonio le perseguita per mezzo degli uomini” e ringrazierà il collega di Castellammare, rassicurandolo che di quelle sorelle aveva un’esperienza “ tutta contraria a quello che egli scrivea... che si vedea molto chiaramente le calunnie (contro) di queste religiose, perché... le opere... erano tutte diverse da quello egli li notificava ”.
Un’azione dell’Inquisizione napoletana, fatta scattare senz’altro dal Falcoia, perseguiterà anche Tosquez, ma sfocerà nel 1737 in un non luogo a procedere.
Il vescovo di Castellammare non avrà però le braccia tanto potenti da imbrigliare per tutta la vita Mons. Tosquez (il “gentiluomo divoto” infatti diverrà sacerdote e prelato) e Maria Celeste, che fonderà a Foggia secondo le sue Regole un monastero del SS. Salvatore. L’essersi sbarazzato di Celeste per lasciare le briglie sciolte alla sua libertà di legislatore e per salvaguardare il principio, allora ammesso qua e là, dell’unità di direzione spirituale, assestò un colpo suicida alla sua autorità nel monastero e allo stesso buon nome dell’Istituto. Se niente vieta di perorare la buona fede di questo prete assolutista e passionale, L’aver perseguito Silvestro e Celeste con una sorta di furore sterminatorio, dopo averli già tolti dal suo cammino, è una macchia sulla memoria di quest’uomo di Dio.
Se Alfonso si fosse trovato a Scala nell’aprile-maggio 1733, sarebbe certamente intervenuto (e forse efficacemente) in favore di colei alla quale avrebbero continuato a legarlo un’amicizia e una venerazione reciproca. Però anche per il Liguori, con il ritorno dei missionari da Tramonti, la fine della quaresima si era trasformata in agonia, in quanto L’uno dopo l’altro, Donato e Mannarini erano partiti per Napoli, non sappiamo con quali pretesti, ma in realtà per unirsi al Tosquez al fine di recuperare qualche superstite della disciolta congregazione di Teano, cercare una sede - perché non proprio Tramonti, che ne faceva pressante richiesta? - e stabilirvi l’Istituto secondo le loro visioni e, beninteso, senza il Direttore. E Liguori? Si sarebbe accodato o sarebbe finito fuori gioco...
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Falcoia si rese allora conto dell’imprudenza commessa con la nomina di Donato a superiore? Alfonso nella lettera a Celeste mostrava di non ignorare la piega che prendevano gli avvenimenti e alcune frasi velate, ricevute il 20 marzo da Tosquez, non erano prive di trasparenza:
“Mi consola la vostra carissima de’ 10, perché mi manifestate di esser sicuro del mio amore... Del resto io non ho giammai osato pensare che voi, e chiunque altro fosse, non dipendesse dal suo Padre spirituale... Io so che tutti volemo fare col’ajuto di Dio la volontà sua...
Sembrami che V. S. mi tacciasse di disturbatore della vostra quiete, qual’ora mi dice che prima di venir io, tutti v’erano uniti intorno a Mons. Falcoja: potrei molto dire circa li tutti e circa le niune operazioni fatte; ma a me importa sofferir tutto nella croce del mio dolcissimo Gesù, e taccio: e perciò sono fuori e restano li tutti nella disposizione libera, e io seguirò loro presso qualunque Capo che Dio loro darà, se sarà Mons.r Falcoja, qual miglior Capo potrò imitare?...”18 .
Il leader, Tosquez lo sapeva bene, era Mannarini che il primo aprile, mercoledì santo, svelava tutte le sue batterie scrivendo ad Alfonso:
“Molto m’ha consolato la stima sua, perché non havevo havuto risposta: sento quanto mi cenna per la venuta mia in Scala, la quale non vuole essere di permanenza, ma di passaggio, venendo per fare qualche servizio ordinatomi dal Padre Superiore ed altre mie cose, stante adesso che siamo stati in Tiano (Teano) tutti quei fratelli concordemente uniti, i quali hanno stabilito d’andare ad abitare in quel luogo, che si fonderà: havendone pregato D. Silvestro, che sta unito con noi a fare tutto quello noi l’abbiamo detto per affermazione di d.a fondazione: onde io debbo fare l’ubbidienza dove mi metterà il Superiore e che per hora non ha pensiere con tutti gl’altri di venire in Scala, ma sentirà le notizie che ci darà D. Silvestro per poter risolvere dove si deve andare. (Andranno infatti a Tramonti).
Se V. S. vorrà seguire tutti noi altri, tutti ve ne preghiamo, e ne bramano perché questo è il nostro desiderio di non dissunirci mai e viveremo con la quiete e pace di Giesù Cristo: se poi vorrà fare altrimente separandosi da noi, che non credo, sarà nostra somma disgrazia. Ma io spero al Sig.re ed a Mamma, che non lo voglia permettere. E per le Missioni tutto dipende dal Superiore, al quale si scriverà da chi le brama...”19.
Alfonso poté dividere il suo crepacuore solo con il Cristo abbandonato dai suoi nel venerdì santo. Aveva con sé, è vero, Vito Curzio e, in linea di principio, Pietro Romano, che continuava a starsene a casa sua; inoltre sapeva bene che Mazzini, Sportelli e Sarnelli condividevano la radicalità della sua scelta, ma quando lo avrebbero raggiun-
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to? Con la morte nel cuore, fece una rapida puntata a Castellammare, dove il vescovo, atterrito e con i nervi a fior di pelle, lo accolse esclamando:
- Vultis et vos abire? Volete andarvene anche voi? (Gv. 6, 67). Signor D. Alfonso, Iddio non ha bisogno né di Voi, né di verun altro: se vuole, può senza di voi, stabilir quest’Opera, e promuovere delle altre.
Sotto la doccia, Alfonso restò un attimo gelato, poi riprendendosi disse:
- Io son persuaso, Monsignore, che Iddio non ha bisogno di me, e dell’opera mia; ma io ho bisogno di Dio, e dell’Opera sua: spero, ancorché solo, adempire al suo volere. Non sono uscito da Napoli e non ho rinunziato al Mondo per fare il Fondatore, ma per far solo la volontà di Dio, e per promuovere la sua gloria.
Il vecchio vescovo mutò radicalmente e lo abbracciò:
- Fidatevi di Dio, perché Iddio non mancherà benedire le vostre buone intenzioni20.
Alfonso risalì subito a Scala, per predicare durante le feste di Pasqua, che cadeva il 5 aprile.
Fu facile a Tosquez e compagni far sapere a Napoli che si erano sbarazzati di Falcoia e che Liguori restava solo sul suo scoglio di Scala: alcuni ne risero, altri si rattristarono, voci stravaganti ingrandirono le cose e predicatori ne fecero un aneddoto di attualità edificante dall’alto del loro pulpito di verità: “ Ecco, fratelli miei, dove portano l’orgoglio e la presunzione! ”.
- Si sono scatenate le forze dell’inferno, diceva Fiorillo.
- I passi non furono falsi, ma noi non sappiamo i giudizj di Dio, sentenziò il cardinale, che pregò Torni di invitare pressantemente Alfonso a Napoli per incontrarlo.
Nella settimana di Pasqua il Liguori fu perciò di nuovo a Napoli e con Torni si recò dall’arcivescovo, che si informò, si afflisse, si indignò delle ciance stupide e maligne. Torni tentò ancora una manovra di recupero dicendo a Alfonso:
- Se Dio avesse voluto quest’Opera, non vi avrebbe tolto i mezzi e in nessuna parte potreste fare tanto bene come a Napoli. Volete consacrarvi ai poveri? Non sono certo questi a mancare nella capitale!
- Quanto è accaduto, Signor Canonico, dobbiamo persuaderci, che tutta è stata opera del Demonio: ma non per questo, che il Demonio, si ci è fraposto, debbo darcela per vinta. Se mi sono mancati i Compagni, non mancheranno altri Sacerdoti, che s’invoglieranno del medesimo zelo; e se tutto manca, non mancherò io, benché solo, sacrifìcarmi
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in ajuto di tante Anime, che abbandonate vivono per le campagne, e nei luoghetti del Regno.
Per un attimo regnò il silenzio, poi il cardinale, rivolto al canonico, disse:
- Non istà bene, che per ora si lasci Scala: vediamo Iddio che ne vuole.
E a Alfonso:
- Fidatevi di Dio, e non degli uomini, che Iddio vi assisterà.
Anche queste parole di Pignatelli fecero in fretta il giro di Napoli, mettendo la sordina agli schiamazzi dei riparatori di presunti torti.
Alfonso non risalì immediatamente a Scala, ma coraggiosamente si presentò ai lunedì delle Apostoliche Missioni il 13, il 20 aprile e il 4 maggio, mentre studiava con Torni alcuni problemi di Regola, specialmente riguardo alla povertà, e con Sportelli si recava a Caiazzo per incontrare Mons. Vigilante e visitare la residenza da questi proposta loro a Villa Liberi 21 . Infine, nel corso di maggio, partecipò a una campagna missionaria coi confratelli di Propaganda. L’insuccesso di Cafarnao - “molti lo abbandonarono” - non aveva fermato Cristo nella sua missione (cf. Gv. 6, 60-71 ) e Alfonso “continuava l’esempio di Gesù Cristo”, anche se per il momento si vedeva “restato solo...”.
nelle pagine seguenti, ci riferiamo alla sua Autobiografia pp. 205-257; MAJORANO op. cit., pp. 76-95; GREGORIO, op. cit., pp. 216-236; “Analecta”, 6 ( 1927 ), pp. 45-60; 31 (1959), pp. 266-274.