IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
PARTE TERZA “ANDATE PIUTTOSTO ALLE PECORE PERDUTE” (Mt. 10, 6) (1732-1762) 25 - “QUESTE PIETRE DI SCALA” (giugno-dicembre 1733) |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Aprile, maggio 1733. Sulla terrazza di Scala, nell’ospizio deserto, Vito Curzio, era solo ma, come il chicco di grano che è già spiga e messe, si sentiva comunità, congregazione: prima di recarsi solo all’orazione, all’esame di coscienza o a tavola, suonava la campana, come se avesse dovuto convocare il mondo intero 1. Nello stesso tempo Alfonso, per il momento unico sacerdote della congregazione (Pietro Romano restava sempre ai margini), si incamminava verso Caiazzo per un sopraluogo alla chiesa e alla casa di Villa Liberi, in vista di una seconda fondazione. Pura follia, da parte dell’uno e dell’altro! Ma follia della primavera che germoglia, follia della Pasqua che aspetta la vita dopo la tomba.. .
E la vita aveva da poco lanciato, proprio a Villa, il suo primo grido di vittoria: un giovanissimo sacerdote dei dintorni, Francesco Saverio Rossi, venticinque anni, ancora nel puro fervore della sua ordinazione. era stato conquistato dall’irradiarsi di Alfonso.
- Padre, ripeteva al missionario, per questa fondazione metto a vostra disposizione tutti i miei servizi, tutta la mia fortuna.
Alfonso fissò il giovane ricco e l’amò:
- Don Saverio, gli rispose con un sorriso, Iddio vuole voi e non la fondazione...
Era chiedere troppo! La santità, la povertà, l’estenuante lavoro apostolico di Alfonso l’avevano colpito, suscitando in lui ammirazione ma al tempo stesso sgomento... Ma una mattina commise l’“ imprudenza ” di servire la messa al P. de Liguori: Alfonso, con il Cristo tra le mani, si fece tutto preghiera per Saverio, che, sconvolto, non riuscì a staccare gli occhi dal celebrante trasfigurato e quasi in estasi. Finita la messa, vinto da Dio, si arrese:
- Padre, sono dei vostri : accettatemi !
- Calma il tuo entusiasmo, Don Saverio, non ci si dona oggi e ci si riprende domani.
- Giammai, Padre, giammai tornerò indietro.
- 361 -
Riconfortato da questo segno di Dio, Alfonso continuò la campagna missionaria con i “confratelli” di Propaganda, poi risalì a Scala. Vi spuntò a fine maggio, tra vigneti e oliveti scoppianti di promesse, respirandovi subito un vivo senso di liberazione: bisognava rifare ogni cosa, ma almeno il posto era pulito. Farà finalmente comunità, un cuore solo e un’anima sola, con Vito Curzio in un ospizio ormai troppo vasto e sarà ripreso dall’intenso ministero locale in cattedrale e dall’amata solitudine nella celletta in una grotta vicinissima e soprattutto, dinanzi al SS. Sacramento.
“Celebrando in pubblico non oltrepassava giammai la mezz’ora per non recar tedio, come egli dicea, agli astanti. Ma allorché celebrava in privato, lasciava libero il corso allo sfogo dei suoi affetti. Quindi vedevasi col volto lieto e giulivo in segno dell’interna fede, che lo animava; e da chi lo serviva vedevasi dopo la consacrazione col volto divenuto rubicondo per l’ardenza dei suoi affetti”. Curzio aveva allora l’ordine di lasciarlo all’altare e di andarsene alle sue occupazioni. “Or avvenne spesse fiate, che il fratello ritornava dopo lungo tempo, e così il santo aveva l’opportunità di sfogare i suoi affetti con Gesù Cristo”2.
Il canonico Pietro Romano, sempre il terzo della compagnia, pur abitando in famiglia, veniva a condividere la preghiera, alternando con Alfonso i versetti del breviario, i pasti e le notizie : la recentissima espulsione di Maria Celeste e delle due sue sorelle - Dio mio! - poi, e poi...
E poi, durante l’assenza del P. de Liguori, l’ex-superiore locale Donato era venuto a Scala per incontrarsi con Don Emmanuele D’Afflitto, arcidiacono della città, dicendo a Pietro Romano di voler nuovamente riunire il suo gruppo con quello di Alfonso, che il 3 giugno scriveva a Falcoia 3:
“Padre mio, se si parla di riunione, pensate, che quella riunione dispiacerebbe molto a Don Giulio (Torni) e anche al Cardinale per la strettezza che quelli anno avuto con Don Silvestro; più pensate che Don Giovanni Battista è duro, e sta con il proposito delle sue regole, e sta forse alla povertà, e all’Officio.
Questi Signori (D’Afflitto e Romano) dal principio, che sono arrivato mi anno cominciato a parlare della scola, quando si mette, avendo già destinato il luogo per farla, che sarebbe una stanza dopo l’Ospizio, e mi anno detto, che V. S. Ill.ma è già contenta, indi io l’ò risposto, che con V. S. Ill.ma se l’intendano. Padre mio, questi da ciò che ò potuto vedere, stanno spaventati dal vedere, che un giorno se ne va uno, e un giorno un altro; se non vedono un poco di stabilimento colla scola, e con il profitto, non occorre di parlare di assegnamento né di niente, come mi hanno parlato, e io l’ho replicato, che se l’intendano con V. S. Ill.ma ”.
- 362 -
Alfonso si vedeva scavalcato dagli avvenimenti, dai dissidenti e, forse, anche da Falcoia. Era contrario alle scuole, perché sua idea fissa erano le missioni ai poveri delle campagne dei quali nessuno si preoccupava; Falcoia invece era favorevole alle scuole primarie, idea cara ai Pii Operai del 1730, e ne aveva fondato per le ragazze e i ragazzi 4. Alfonso abbandonerà per questo l’impresa, lascerà perdere tutto non potendo salvare tutto?
Il voto dello scorso 28 novembre di non lasciar l’istituto se non lo comandasse il suo direttore lo garantiva anche dal solo pensiero di disertare, però vi aveva aggiunto un’ulteriore restrizione riservandosi i suoi diritti di fondatore riguardo alle Regole, che sarebbero state non quelle imposte da Falcoia, ma quelle da lui stabilite 5. Questa restrizione - lo sentiva bene oggi - avrebbe potuto rimettere in discussione la stessa opzione di fondo, ma non doveva succedere, costasse quel che costasse. Dopo tutto era troppo sicuro dello zelo di Falcoia per temere qualcosa di grave contro il suo intento fondamentale per gli abbandonati e poi (arrivava a pensarlo?) a settant’anni i calcoli renali non rendevano certo il Direttore più immortale degli altri uomini. Alfonso decise di ampliare il suo voto:
“Padre mio, io mi trovo fatto voto, come mi penso di avergli detto una volta di non lasciar l’Istituto se V. S. Ill.ma non l’avesse ordinato, ora vorrei aggiungere un’altra cosa per maggior mia quiete, che mi date licenza di far voto di non lasciar l’Istituto per quella regola, che V. S. Ill.ma perentoriamente volesse, che si osservasse”.
Era stato personalmente tanto squassato dalla tempesta da voler legarsi all’imbarcazione con un voto di perseveranza.
Parlava poi di missioni, avendo solo questo in testa. Le parrocchie di Agerola dovevano dargli un segno da un momento all’altro, ma era solo e aveva bisogno di aiuto. Ne aveva parlato con il vecchio amico di Amalfi, Giuseppe Panza e contava su un giovane ed eccellente sacerdote di Castellammare, Giuseppe Chierchia, deciso a entrare in congregazione:
“Dite a Cerchia (Chierchia) che stia pronto, che subito l’avviserò, sene venga per la Missione, e se non si fa la Missione, Padre mio mandatelo senz’altro il mese entrante: fateci cominciare a veder praticarsi con ordine e osservanza le vostre regole (Falcoia, ex-superiore dei Pii Operai, era ai suoi occhi l’esperto di vita religiosa comunitaria).
E io sperando di veder quello giorno mi sento morire di consolazione e sappiate che queste pietre di Scala mi danno più consolazione che tutte le delizie del mondo, dal che vedo, che certamente il Signore mi à chiamato in servizio di questa opera grande...”.
Tra altri punti aggiungeva poi:
“In quanto alle cose del Monastero ve le scrive Don Pietro, in
- 363 -
quanto a me vi dico che Monsignore da faccia a faccia mi à dato ordine che io non parli più né meno colla Superiora...
Mandateci Don Cesare subito subito...”.
Con il ritorno dello stesso latore, sempre il 3 giugno, Falcoia gli rispose:
“Mi contento dell’ampliazione del Voto, per sua maggior quiete ”6.
Alfonso infatti annotava a p. 67 del suo diario, dopo il voto del 28 novembre 1732: “ Di più non lasciar l’Istituto per qualsivoglia regola ponesse Falcoia. Voto a Falcoia”.
Alfonso non rinunziava al diritto, riservatosi con forza il 28 novembre: non rimetteva le Regole a Falcoia, né faceva voto di accettare tutte le sue decisioni riguardo ad esse, ma si impegnava a non partirsene, sbattendo la porta, come avevano fatto gli ex-compagni e come egli stesso aveva sentito forte la tentazione, nel caso che Falcoia pretendesse imporre un punto di regola non condiviso. Perché anche tra persone di buona volontà tutto rischia di naufragare a causa di conflitti di questo genere, perché questa doveva essere l’ultima volta, quella buona e perché non voleva più rischiare la tempesta interiore, non risparmiata certo a lui come agli altri. Questa “concessione” non significava però dimettersi e neppure era solo una garbata messa in guardia contro un autoritarismo, da poco svelatosi distruttore al monastero e all’ospizio, o un toccante tratto di fiducia e di amicizia. In ogni caso è certo che per il vescovo di Castellammare fu un esempio lampante di morte a se stesso, perché l’opera potesse vivere, nel solco del Salvatore crocifisso.
L’Opera cominciava a ricostruirsi pietra su pietra, dal momento che nella stessa lettera del 3 giugno Falcoia annunziava:
“D. Gennaro Sarnelli... è qui; e vuole venir a trovarvi fra pochi giorni; e desidera venir alla Missione con voi: e poi vedere, e risolvere”.
E infine la grande notizia: “Viene D. Cesare”. Finalmente!... Era chierico solo per l’abito, sempre a causa dell’introvabile patrimonio, però era il meraviglioso Sportelli, il fratello di cuore di Alfonso dal tempo dei Tribunali, franco e dolce, ottimista e gioviale, dalla santità discreta e radiosa.
Si riprese l’ufficio in coro, dove si alternavano Liguori, Sportelli e certo anche Romano, che venne nominato superiore locale: un modo per invitarlo a lasciare la famiglia e a unirsi, corpo e beni, alla comunità. Il candidato di Villa Liberi, Don Saverio Rossi, andò a far visita al “ Direttore ” e a metterlo al corrente sulle trattative e sui lavori in corso per la tanto desiderata fondazione.
“ Ho parlato con D. Saverio, scrisse Falcoia, e l’ho corroborato:
- 364 -
credo si farà quel che vogl’io; perché voglio quello, che vuole Dio benedetto. Le disposizioni presentanee sono, che D. Saverio vada là, disponga con tutta efficacia le cose della Fondazione: e lui frattanto facci un Noviziat’antecipato. E spero, che per la rinfrescata (L’autunno)... possi essere una delle Pietre di quell’edificio... ch’ha da sollevarsi sinu al cielo ”.
A Scala si aspettava Peppe Chierchia, si speravano Sarnelli, Mazzini e forse Don Tommaso Sasso... In previsione del loro arrivo e anche della scuola da aprire, occorrevano locali meno ristretti, per cui verso la metà di giugno la piccola comunità passò nella “ casa contigua ” all’ospizio, appartenente al Signor Isidoro Battimelli, con il fitto assicurato dalla generosità di Don Vincenzo Criscuolo e di due suoi amici 7.
E ora le missioni! Dal 14 al 28 giugno (quindici giorni) Alfonso, con Sportelli e Curzio, evangelizzò la vicinissima Ravello insieme a tre sacerdoti: Sarnelli, come lui consumato missionario di Propaganda, Chierchia e probabilmente Sasso. Nei primi anni ricorrerà a sacerdoti diocesani dallo zelo illuminato e provato non solo per mancanza di soggetti, ma anche per ampliare la redenzione, per valorizzarne il sacerdozio (il primo convertito della missione non è forse lo stesso missionario?) e per conquistarli, se possibile, alla congregazione. E’ quest’ultimo il motivo per il quale, su ordine di Falcoia, non si rivolgerà mai ai religiosi? o più probabilmente perché temerà di trovarli più restii a metodi nuovi e più disposti a volare troppo al di sopra del popolo minuto?
Nel mezzo della missione di Ravello, Alfonso apprese il decesso del cognato, Domenico del Balzo, barone di Presenzano; la sorella Teresa, il cardellino che aveva allietato la casa della sua giovinezza, restava a ventotto anni vedova e senza figli 8.
Questo dolore turbò l’intensa gioia che provava nel vivere e nel lavorare nuovamente con Gennaro Sarnelli, l’emulo nell’orazione, nella penitenza, nello zelo, al quale nel 1752 consacrerà una nota biografica, dove si può leggere: “ Non volea parlare, né sentir parlare che di Dio e del bene delle anime, e di ciò io, che scrivo, ne son testimonio... era tutta forza di spirito, e zelo per dilatare la gloria di Dio e compiacere la sua divina volontà; nomi ch’egli tenea sempre nel cuore, nella bocca e nella penna” (pubblicò infatti 23 opere)9.
Terminata la missione, Sarnelli ritornò al suo molteplice ministero napoletano: Cappelle serotine, galeotti malati, scugnizzi, prostitute, col cuore diviso in due, perché una parte era rimasta a Scala. Ben presto, il 9 luglio, annunziò all’amico che il P. Manulio, provinciale dei Gesuiti, suo direttore, che avrebbe dovuto rivedere tra sei giorni, gli aveva quasi confermato la vocazione all’istituto, avvertendo pero:
- 365 -
“...non lo dico per umiltà, ma in verità: riceverete un soggetto miserabile, pieno di vizi e di mancanze e molto infermo... E spero che questa mia risoluzione fatta coll’approvazione di un tanto uomo, qual è il P. Manulio chiuderà la bocca a molti e animerà altri a venirvi”10.
Napoli infatti risuonava dei più strani pettegolezzi contro Scala. Sarnelli coraggiosamente si era fatto paladino dell’istituto, come appare dalle lettere del luglio 1733:
“Qui si dice che l’Istituto è dismesso affatto, come appoggiato in rivelazione d’un anima illusa... che V. Signoria deve ora finirla, giacché bene vede il tutto svanito, e che resterete solo eternamente costì...
Ora in Napoli anche li santi di qui dicono che la fondazione è svanita come appoggiata sulle visioni d’una femmina che ha prevaricato - (le insinuazioni seminate da Maria Colomba erano dunque diventate certezze!) - , l’assicuro che questa Celeste, Iddio la faccia Santa, ha dato un gran colpo all’Istituto...
Avvisatemi... se è vero che le Monache ne cacciarono Celeste... E dicono che l’abbiano mandata senza veste, che le Monache di S. Cataldo li diedero qualche cosa per carità. Avvisatemi con parole chiare acciò la possa far leggere singolarmente a Porpora e a Carace che stano malamente imbevuti e con essi quasi tutta la città...
Tre cose hanno fatto impressione a Napoli per le quali è decaduto dal buon concetto l’Istituto: 1) Le Rivelazioni, e spesso si ode: rivelazioni e Monache, Monache e rivelazioni; 2) il vestire rosso - (Falcoia infatti aveva previsto sottana rossa, mantello, cappello e calzette azzurre, sandali bianchi: l’abito “rivelato” a Celeste 11, 3) che volete fare la religione. Io però sempre prescindo da tutte queste cose e li chiudo la bocca con dire che noi siamo una congregazione di sacerdoti Operaj che andiamo ajutando le anime di quei poveri paesi più abbandonati, e procuriamo di far conoscere Iddio da chi non lo conosce, e nulla più. E a ciò non hanno che rispondere”.
Il governo e l’opinione pubblica infatti non sopportavano neppure l’idea di nuovi conventi, perché il Regno e soprattutto la capitale erano soprassaturi di bocche non sempre utili e senza braccia e di manomorta. Alfonso del resto lo sapeva e lo comprendeva bene, dal momento che il suo Borgo dei Vergini contava diciassette monasteri maschili, sette femminili e sette conservatori 12 Voler creare un nuovo Ordine religioso diventava per lui un’accusa mortale e perciò non poteva per il momento pensare ai tre voti religiosi.
Sarnelli si vedeva “già con un piede dentro cotesto santo istituto”. ma due difficoltà particolarmente gli intralciavano la strada:
“ Prima era il timor che avea se mi ponessero a far la scuola, parea che non avrei potuto secondare i miei ardenti desiderj di portare anime assai a Dio mentre nelle missioni avrei potuto istruire innumerabili
- 366 -
fanciulli, udirne le confessioni e porli per la via di Dio oltre alli tanti altri beni che si cavano dalle sante missioni; e per contrario facendo scuola starei perduto tutto me stesso appresso a trenta o quaranta scolari, al che pensando mi sentiva morire.
L’altra difficoltà era che ritrovandomi impiegato qui a porre in salvo le fanciulle pericolanti e a scrivere in loro difesa per mostrare mille pregiudizj che loro sono fatti per cui si vendono l’onestà ancor bambine, e così parea che venendone in questo istituto se impedirà quel gran bene che poteva ritirarsi almeno dalla scrittura; però venendovi avrei a caro aver tempo e luogo - (certo, un tavolo e una sedia in una piccola cella, ma mancavano a Scala) - da poterla terminare per poter dare ajuto a tante anime poverelle; il che non potrei affatto fare se fosse posto a scuola e tanto più che sto facendo un altra opera per le dottrine cristiane... Del resto, eccomi tutto posto e gettato nel seno della divina Providenza e nelle mani di chi regge in luogo di Dio... ”.
Finalmente il P. Manulio gli mollò le ancore il 14 luglio: “La vostra vocazione è da Dio, è sublime. Coraggio, contate su lui”; Sarnelli si annunziò per la fine di agosto dopo aver sistemato alla meglio le sue cose a Napoli. Era una stella nella notte e una stella di primaria grandezza. “Non è meravigliosa, scrisse Falcoia, la risoluzione di D. Gennaro, con tale approvazione del suo degnissimo Padre spirituale? Dio benedetto, ch’ha mandato questo manderà gl’altri”.
Gli altri? Prima di tutti Peppe Chierchia: “buono Soggetto, e per quello concerne l’obbedienza, aveva scritto il suo vescovo di Castellammare, non ne dubitate, che sarà obbedientissimo”; missionario ricco di dottrina e di zelo, era però debole di salute e troppo legato alla famiglia (Alfonso sapeva fin troppo bene quanto fosse duro averla contro la vocazione ).
Nell’entusiasmo della missione di Ravello, Chierchia aveva promesso di lasciare tutto per unirsi a lui... ma si sottrasse con una piroetta evangelica:
“Questa dunque, gli replicò Alfonso il 3 luglio, è la bella conclusione fatta: Spiritus promptus est, caro infirma? Questa è la ricompensa delle grazie ricevute da Mamma Maria? Questa è la bella risoluzione di darti tutto a Dio: Spiritus promptus est, caro autem infirma?
Per carità, vieni presto, presto, presto. Che casa, che madre, che fratelli, che parenti? Audi, filia, obliviscere populum tuum et domum patris tui, et concupiscet te Rex. Chi non lascia tutto per Dio non troverà tutto Dio. Presto, ché si apparecchiano molte missioni, ma noi ti vogliamo sempre con noi. Già tua madre sta bene: su presto, vieni a Scala...”.
- 367 -
Dieci giorni dopo nuova carica:
“Noi già anderemo nell’entrante mese alla missione di Agerola, ma ti aspettiamo in Scala, prima di andare alla missione. Tu ti hai da mettere in capo non solo di venire alle missioni per prete aggiunto. ma dl essere tutto di Gesù Cristo, rinunciando a Gesù Cristo casa, parenti e patria; e se no, non ti farai santo mai, no, no, no. Qui non odit patrem vel matrem etc. non potest meus esse discipulus. Prima facevi il bravo: tutto per Dio, e mo’ che cosa è? Presto, vieni subito: già il Signore ti ha consolato nell’infermità di tua madre; presto cerca licenza a Monsignore e vieni. Noi non vogliamo che porti né robe né denari; qui non ti mancherà mangiare e vesti. Qui non si pensa né a casa, né a parenti, né a lontani; si pensa solo ad amare Dio e fare perfettamente la sua volontà. Vieni presto, non voglio scuse: Dio non ti vuole per sostituto alla parrocchia, ti vuole dell’Istituto del SS. Salvatore... acciocché, spogliato di tutto, ti possa impiegare tutto a servire Dio e le anime. Non solo sono anime di Dio quelle di Castellammare, ma le anime degli altri luoghi sono anco redente col sangue di Gesù Cristo, e forse sono più bisognose. Viva Gesù, Giuseppe, Maria e Teresa! Presto, presto, presto, non voglio risposte; la risposta portala tu ”.
Peppe non venne e il 21 luglio nuove istanze:
“ Don Giuseppe mio, e quando vieni, quando? In somma, ci vuoi proprio fare stentare questa venuta: sbrigati mo, che aspetti? Noi ti desideriamo, Gesù Cristo ti chiama, Mamma Maria ti aspetta; e tu te ne stai a dire: Spiritus promptus est, caro autem infirma. Ma io ti replico: Qui non odit matrem, fratrem etc., non potest meus esse discipulus... Vieni, trova la solitudine, vieni trova Dio... E se no, non ti fai santo, no, no, no, no, no, no, no, no, no, no, no. Viva Gesù... ”.
Per Alfonso la vocazione era la strada maestra della vita e della santità... Ma Chierchia era stato poco bene, per cui 1’11 agosto da Scala Alfonso gli scrisse:
“ Don Giuseppe mio caro, avvisami come stai; certo che a quest’ora starai bene, poiché io ti ho fatto cercare di cuore a Mamma Maria da questo popolo, sentendo che stavi poco bene. Se non stai a letto, vieni subito, ché a Scala ti sani. D. Gennaro nostro già viene... ”.
Ma Peppe non si decideva mai e il 18 agosto Alfonso tentò un’ultima mossa per stanarlo dalle sottili obiezioni, per dovere solo di coscienza, però, dato che il cuore già non c’era più: nella lettera il “ mio ” e il “caro” sono scomparsi:
“Don Giuseppe, vedo già la svogliatezza che maggiormente vai acquistando di essere nostro. Quando mai si è inteso che un figlio abbia da lasciare la vita più perfetta, per accudire alla madre la quale ha più figli secolari nell’istesso paese, perché? Perché la madre non
- 368 -
vuole stare con quelli. Se ella non ci vuole stare, non sei obbligato tu a lasciare dove ti chiama Dio ad una vita più perfetta, dove servirai Iddio, spogliato di tutto ecc. Orsù, io non ci voglio perdere più parole, le quali già vedo che saranno forse tutte perdute a causa tua; forse non si farà la fondazione di Caiazzo, che già si era appuntata: noi non vogliamo gente a forza. Almeno parla con D. Gennaro Sarnelli, a cui hai dato parola, ma queste parole non obbligano. Almeno facci favore per la missione, che forse si farà tra breve.. del resto, fa quel che ti piace”.
Svegliare vivamente la coscienza, guardandosi dal colpevolizzarla inutilmente: il pastore e il moralista Liguori era già tutto qui.
- Quando non si può, non si può, gli rispose il “giovane ricco” e il 30 agosto Alfonso scrisse la parola fine e prese le distanze, passando dal “tu” al “voi”:
“Quando non si può, non si può. Ed io ti dico: quando non si vuole, non si vuole. Or basta, io non intendo più tediarvi, né vi vogliamo tra noi, se voi non venite a starvi con tutto il gusto; perché non pigliamo gente a forza... Or basta; non perdiamo più parole. V. S. non credo voglia prendere a discaro il desiderio, che abbiamo avuto, di averlo per fratello...”.
Queste lettere accorate erano dettate dall’urgenza della redenzione, dall’ardore dello zelo, dall’amore per Chierchia, ma anche dall’angoscia di un fondatore alle strette. Scala aveva preso il via con un pugno di uomini e di speranze e già nel gennaio 1733, prima dello scisma, Falcoia e Liguori si erano impegnati con Mons. Vigilante per una seconda fondazione. Ma poi l’iniziale pugno di uomini si era volatilizzato e le speranze (Sarnelli in piena lotta con se stesso, Mazzini trattenuto dal suo direttore, Sportelli ancora in cerca di un patrimonio per l’ordinazione) restavano speranze. Non era possibile costruire solo con promesse, neppure solo con sicurezze, ma erano necessari uomini e uomini solidi.
Ecco gli uomini, Don Alfonso ! Vincenzo Mannarini, che aveva istituito la sua nuova congregazione del SS. Sacramento con gli elementi più validi dell’antica società missionaria di Donato, Mannarini in persona chiedeva, all’inizio dell’agosto 1733, di riunirsi all’opera di Scala. Incredibile, ma vero!
Come spiegare questo repentino cambiamento dopo solo quattro mesi ?
In verità non si trattava di cambiamento, perché Don Vincenzo, che amava Alfonso tanto da seguirlo quando aveva lasciato i Cinesi, partendo a marzo da Scala con i suoi compagni, aveva voluto rompere con Falcoia non con Liguori, che, pensava, certo si sarebbe unito con
- 369 -
loro, una volta fatto il passo. La dolcezza e la discrezione, mantenute da lui durante le laceranti discussioni di novembre, avevano impedito loro di percepire l’abisso che separava le vedute apostoliche di Alfonso dalle proprie. Ma Liguori non li aveva seguiti e ora Mannarini, che non poteva separarsi da lui, ritornava con un gruppo ingrandito
Non sappiamo ciò che al riguardo Alfonso scrisse al Falcoia, abbiamo invece la risposta di quest’ultimo in data 4 agosto
“ M’è piaciuto il sentire, che D. Vincenzo desideri di unirsi con voi: ma non mi piace affatto, che venghi: Absit: Dio ne guardi: ringrazio Dio benedetto, cui attribuisco a grazia speciale quella separazione, ch’abbi disposte così le cose. Onde tutti quelli che abbino pres’altra strada, il Signore li benedichi, li feliciti, e li conceda grazia da far cose grandi per la strada loro; voi terrete la strada vostra in santa Pace... Le vie nostre non sono a taglio de’ loro Geni ”.
I padri del SS. Sacramento fonderanno collegi di belle lettere, retorica e filosofia a Tramonti, Teano, Lucito, Lucera facendovi gran bene 13; la scuola elementare che, malgrado la loro partenza, stava per aprirsi a Scala per rispettare impegni già presi, resterà a livello di alfabetizzazione in vista del catechismo e starà a cuore soprattutto a Mons. Falcoia, che in agosto scriveva ad Alfonso:
“Dilettissimo mio, ho parlato con Sig. D. Vincenzo Criscuolo; e la scuola la principierete appresso. M’ha detto che l’abitazione vostra è accomodata, col prendersi le stanze del sig. Isidoro ”14 .
Questa scuola divenne un affare di tutta la città e il 15 agosto 1733 il consiglio comunale (L’Università), composto allora di cinquantotto cittadini decise di assegnare ai padri un sussidio a questo fine:
“...è quasi un anno che hanno aperta casa in questa città con licenza di Mons. Illustrissimo nostro Vescovo alcuni Padri Missionarii Sacerdoti di somma bontà di vita e dottrina, tra i quali è ancora il Sig. D. Alfonso de Liguoro, cavalier napolitano, ed impiegandosi continuamente in predicare, confessare e assistere ai moribondi, ed è noto quanto giovino al pubblico, e che gran profitto han fatto nelL’anima, ma non havendo li medesimi altro modo di vivere che di pura elemosina, e della carità dei devoti, lo propone ad essa Università acciò veda, se le pare, soccorrerli con qualche elemosina... è stato da tutti... conchiuso che li docati quaranta che si pagano ai Mastri di scola dal primo dell’entrante mese di settembre di questo corrente anno in poi si passino per carità ai padri suddetti, tanto più che li medesimi faranno la scuola per loro carità e bontà, e ciò per elemosina, fin a tanto che la città vorrà e potrà, senza indurre obbligo...”15.
Una buona mossa portò con sé altre e, presi dal gioco, quei signori aggiustarono la casa ai padri.
- 370 -
Quale? Non quella di Isidoro Battimelli, dove finalmente arrivò Sarnelli pieno di ardore, che non aveva bisogno di lavori e non era proporzionata alla comunità e alla scuola che stava per iniziarsi, ma certamente Casa Anastasio, dove all’inizio di settembre 1733 sarebbe emigrata la giovane compagnia.
Una costruzione isolata, alla sommità di una vigna, dominante la cattedrale e vicina al giardino del monastero, dietro la quale si arrampicava un castagneto, appartenente alla famiglia Amendola. Trent’anni dopo nel 1776 passerà alla famiglia Anastasio, prendendo il nome con il quale sarà conosciuta dal Tannoia e viene indicata ancora oggi: Casa Anastasio 16, Nel settembre 1733 divenne l’Ospizio del SS. Salvatore.
Non era un palazzo, soprattutto in Italia, ma vi si vivrà meno stretti, in gioiosa povertà e santità. Un pianterreno con cinque vani si addossava contro il pendio, ingrandito verso sud da un loggiato coperto, sostenuto da un peristilio che dava verso il mare e il pieno sole. Delle cinque camere superiori, che si aprivano su una terrazza all’aria aperta, la più grande, all’estremità, venne subito trasformata in oratorio, mentre nelle altre i letti quasi si sfioravano; due vani servivano da cucina e refettorio, un altro da parlatorio e forse da biblioteca-sala di lavoro e di riunioni, infine uno, il meno piccolo, da chiesa: questo “sottano di palmi sedici in quadro, notava con ragione Tannoia, aveva piuttosto figura di catacomba, che di Chiesetta”, ma diventerà una commovente reliquia: “Quivi Alfonso, e tanti de’ suoi consumavano parte della notte orando, o strappando a terra un poco di sonno avanti Gesù Sacramentato”17.
Scala quindi era, per Alfonso e i suoi fratelli, prima di tutto il tabernacolo del basso - chiesetta e il “gran Crocifisso, ma così straziato, che attirava le lagrime a chiunque” dell’oratorio; poi la balconata verso il mare, nido d’aquile tra cielo e terra - e che terra, aspra e bella! - che alimentava la fiamma interiore della contemplazione e dell’amore. Dove, se non a Scala fece Alfonso quell’esperienza che comunicherà venti anni dopo nel suo Modo di conversare continuamente ed alla familiare con Dio?
“Quando mirate il mare tranquillo o in tempesta, considerate la differenza che vi è tra un’anima in grazia o in disgrazia di Dio...
Quando voi guardate campagne, marine, fiori, frutta, che vi rallegrano colla lor vista o col loro odore, dite: Ecco quante belle creature Iddio ha create per me in questa terra acciocché io l’ami, e quali altre delizie mi tiene apparecchiate in paradiso! . . .
Quando mirate fiumi o ruscelli, pensate che come quell’acque corrono al mare e non si fermano, così voi dovete correre sempre a Dio ch’è il vostro unico bene... Quando udite uccelli che cantano, dite:
- 371 -
Anima mia, senti come questi animalucci lodano il lor Creatore; e tu che fai? E voi lodatelo con atti di amore...
Quando guardate il mare, considerate l’immensità e grandezza di Dio... Quando mirate il cielo stellato, dite con S. Andrea d’Avellino: O piedi miei, voi avrete un giorno a calpestar quelle stelle”18.
Scala era anche la “grotticella”, a cinquanta passi dall’ospizio del monastero, nella roccia scoscesa, il “deserto” dove evadevano dal tanto ristretto alloggio i confratelli a turno, per dedicarsi alla preghiera e alla penitenza. Da Casa Anastasio, trecento metri più lontana, ognuno ne conservò il fervoroso cammino, nessuno però come Alfonso. Sarnelli che, iniziato dall’amico, ne aveva potuto godere per un po’ durante il suo breve soggiorno prima della missione di Ravello, scriveva da Napoli il 17 luglio: “ Anche io sospiro la grotticella per dar gusto al Signore ”.
La “grotticella” fu la montagna spirituale del giovane fondatore, il Getsemani delle ardenti preghiere e delle quotidiane flagellazioni l’Oreb dei suoi incontri con Dio e con la Madonna. Il P. Adeodato Criscuolo (1738-1804i, redentorista, nipote del vicario generale di Scala sarà testimone della viva tradizione scalese secondo la quale Alfonso vi avrebbe visto la Vergine. Ad essa è da ricollegare la confidenza dello stesso Liguori, raccolta il 19 ottobre 1786 e subito annotata dal P. G.B. Di Costanzo suo ultimo confessore:
“ Un anno quasi avanti della sua morte, dopo aver terminata la sua confessione con me, domandatolo io, se avesse desiderio in morte di vedere Maria Santissima e da essa essere assistito, mi rispose:
- Come vuol venire a me Maria Santissima, che sono gran peccatore!
Ma io replicandogli che:
- La Madonna era calata a visitare molti suoi divoti, come S. Giovanni di Dio, maggiormente spero, che verrà a visitare voi, che avete tanto detto, tanto fatigato per le sue Glorie, tanto l’avete amata, e tanto le volete bene, Maria Santissima è tutta amore con i Servi suoi.
Allora il Servo di Dio acceso di volto mi disse:
- Senti, io quando era Giovane ci parlava spesso colla Madonna, mi ci consigliava per tutte le cose della Congregazione.
- ...che ti diceva?
- Mi diceva tante belle cose...
- Che cosa ti diceva?
Ma non volle dirmi altro”.
Fin nella sua vecchiaia lo si sentirà alle volte ricordare a voce alta: “Oh grotta mia: oh grotta mia: oh potessi godere di questa grotta”19.
La “grotticella” però non tratteneva i nostri missionari, ma ricaricatoli
- 372 -
li inviava. Sarnelli, appena arrivato, predicò la solenne novena del Crocifisso, poi a metà settembre tutti partirono per le missioni.
Si era tanto parlato di una missione sull’altopiano di Agerola, a 640 metri sul mare, ma alla fine non se ne fece niente, perché costretti a soprassedere da un’epidemia e da una momentanea freddezza dell’arcivescovo di Amalfi, Mons. Scorza, agli occhi del quale il duplice Istituto del SS. Salvatore per un po’ di tempo perse la faccia per le sue spettacolari scissioni.
“Quando siete cacciati da un luogo, andate in un altro”, aveva detto Gesù agli apostoli e il teatino Domenico de Liguori, ex-vescovo di Lucera, recentemente trasferito a Cava dei Tirreni (1730), non era certo privo di cantieri da proporre al cugino e al suo gruppo. Così da metà settembre a metà ottobre evangelizzarono Raito (1400 ab.) e Benincasa (500 ab.), balconi a piombo su Vietri sul Mare. Due settimane di sosta a Scala e poi, esauritasi l’epidemia di Agerola e l’ira dell’arcivescovo, affrontarono, una dopo l’altra, le tre parrocchie di quella arcipretura: S. Lazzaro (400 ab.), Campora (500 ab.) e Bomerano (1000 ab.), i cui poveri agricoltori erano i vicini dei caprai di S. Maria dei Monti, dato che Agerola dall’altro lato della montagna amalfitana fa da pendant a Tramonti, da cui è separata da Scala-Ravello; a Bomerano Alfonso diede gli esercizi ai preti delle sei chiese di Agerola 20. Dopo un mese si ritornò a Scala per festeggiare e animare il Natale.
Qualcuno forse si porrà la domanda: quando l’ospizio si svuotava che fine faceva la missione permanente in cattedrale? Pietro Romano restava sempre sul luogo e dispensava il suo zelo e la sua eloquente parola, aiutato validamente dal clero capitolare.
Terminava così l’anno 1733, un anno terribile per l’Istituto maschile del SS. Salvatore, che contava un anno e due mesi. Il suo bilancio? Sulla sua roccia l’umile fondazione aveva retto contro i venti e le tempeste, ma era la stessa?
Il 9 novembre 1732 si erano impegnati cinque, di cui quattro sacerdoti: Liguori, Donato, Mannarini, Romano, Tosquez; nel Natale 1733 erano sempre cinque, ma solo tre sacerdoti: Liguori, Romano, Sarnelli, Sportelli, Curzio. Non erano gli stessi: quattro appartenevano al mondo dei signori (il solo Romano, superiore, era figlio del popolo), di cui tre ex-avvocati conosciutisi ai Tribunali e agli Incurabili erano uomini d’altra tempra, santi dalle virtù eroiche, pietre angolari, ad eccezione di Romano, eccellente sacerdote del resto, al quale il ministero presso le suore impediva di essere pienamente missionario e il piede, tuttora conservato in famiglia, di essere un “dato”, un radicale per Dio e per gli abbandonati. Ora agli inizi solo questi radicali tengono .
- 373 -
Il bilancio si rivelava perciò largamente positivo: all’inizio del 1733 solo Alfonso era di acciaio veramente temprato, mentre al termine dell’anno erano quattro e già la fama delle missioni stava volgendo a loro favore l’opinione pubblica a Napoli.
-