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PARTE TERZA “ANDATE PIUTTOSTO ALLE PECORE PERDUTE” (Mt. 10, 6) (1732-1762) 26 - “QUESTI LUOGHI SONO DIVENTATI UN PARADISO” (1734-1735) |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
26 - “QUESTI LUOGHI SONO DIVENTATI UN PARADISO”
Un po’ intirizziti dalla bruma invernale, Alfonso de Liguori e Gennaro Sarnelli, lasciata la strada maestra, presero il grande viale che portava al villaggio di Ciorani; sotto i loro occhi al limitare delle ripide pendici boscose del Monte Salto (958 m.), una lunga fila di case bianche; sboccati, al di là del piccolo ruscello che costeggiava il borgo, nella piazza d’armi, misero piede a terra, accolti gioiosamente nella spianata del castello dal vecchio barone Angelo Sarnelli.
Partiti il giorno precedente da Scala e diretti a Caiazzo, i due padri del SS. Salvatore venivano per un assaggio di evangelizzazione e quasi la promessa di una fondazione nel piccolo centro contadino (600 ab.), sito nella parte più settentrionale della diocesi di Salerno.
Ci troviamo di fronte a uno dei drammi dei primi anni dei “ Padri ” di Scala: era appena possibile parlarne al plurale all’inizio del 1734, eppure il vescovo di Caiazzo ne reclamava una fondazione da un anno e mezzo e Ciorani da sei mesi. Come dire no a Mons. Vigilante, il cui commovente zelo avrebbe convinto anche le pietre? Come rispondere negativamente a Gennaro Sarnelli e al fratello Andrea, giovane sacerdote, desideroso di impiegare la sua fortuna nel dar vita a un centro missionario in casa sua? Tre fondazioni per due soli sacerdoti! Non restava ad Alfonso che supplicare le sue fervorose amiche, le Carmelitane di Pocara (Tramonti), perché pregassero, pregassero, pregassero il Signore affinché mandasse soggetti 1, e moltiplicarsi, nelL’attesa, per essere contemporaneamente dappertutto.
Dal 3 al 17 gennaio per la baronia di Ciorani fu missione e i contadini accorsero da tutti i villaggi vicini. Era la loro prima evangelizzazione, perché, benché i predicatori napoletani avessero fatto missioni a Mercato S. Severino, il centro maggiore, per i poveri campagnoli questo era troppo distante per portarvisi e il linguaggio dei missionari era troppo alto per essere compreso. Invece il 17 gennaio, domenica di chiusura della missione redentorista a Ciorani, ritornò ai suoi campi e alle sue catapecchie un popolo illuminato e riconciliato 2.
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I nostri due missionari subito girarono le briglie - briglie d’asino, s’intende - in direzione di Napoli e Chiazzo. Nella capitale si fermarono per vari contatti e servizi. Alfonso alloggiò presso i suoi genitori in Borgo dei Vergini, da dove scrisse il 22 gennaio alle Carmelitane di Pocara:
“ Figlie mie care care in G. C... voglio che voi non vi scordate mai mai di me nella communione e nell’orazione, perché io vi voglio bene assai assai in G. C., e l’affetto è antico: onde non mi posso più scordare delle figlie mie; fanno a gara a chi vuole più bene a G. e a Mamma Maria. Voglio specialmente che tutta la Comunità mi fate una novena di 9 Ave Maria il giorno dell’Immacolata Concezione di Maria per due soggetti che desidero alla mia Congregazione - (si noti questo "mia Congregazione" e si pensi a Don Giovanni Mazzini, che aveva da poco rivisto, e a Don Saverio Rossi, che stava per raggiungere) - e per un’altro soggetto, che il Sig.re li dia la salute del corpo - (senz’altro Peppe Chierchia) - ; il quale è un buon operario, ma da tanto tempo sta infermo e inutile.
Io mi sono partito da Scala, dove sono restati i miei compagni. Fra giorni parto da Napoli per una nuova fondazione a Cajazzo. Orsù, ricordatevi sempre di me, e mi basta un sospiro di core con dirli: Sposo mio, Mamma mia, fallo santo”3 .
Lo stesso giorno il P. de Liguori mandava al “Direttore” brevi notizie, di cui abbiamo l’eco nella risposta di quest’ultimo datata 24.
A Napoli il vento dell’opinione pubblica spirava ora in favore di Alfonso e della sua impresa, tuttavia il direttore di Mazzini non scioglieva ancore le sue remore: “La cosa del P. Spirituale del Sig. D. Giovanni Mazzini, reagiva Falcoia, è misteriosa. A me piacerebbe assai ‘l poter parlare con detto D. Giovanni. Si danno casi, nei quali si può mutare il P. Spirituale. S. Teresa ne mutò più d’uno. Io non mi sarei trovato Pio Operario, se non mutavo P. Spirituale...”. E si impegnava in una lunga dissertazione sull’argomento, di fronte alla quale ci chiediamo perché otto mesi prima non era stato possibile applicarla alla Crostarosa... Quindi passava al caso di un postulante laico, Don Gennaro Rendina, dal quale aveva ricevuto istanze per lettera: “ Mi scrive con premura il Sig. D. Gennaro Rendina, che vorrebbe unirsi con voi: sò, che lei me n’ha parlato, ma non mi ricordo in che tenore ”. Lo pregava perciò di rinfrescargli la memoria, essendo riservata a lui l’ammissione dei candidati; infine rimproverava il suo “ diletto ” di lasciare lui, che scriveva lettera abbondanti, a digiuno di dettagli di cui era ghiotto: “ Bramerei anche sapere quel che si dice di D. Silvestro, e di Suor Maria Celeste... Non m’avete scritto cos’alcuna del Sig. D. Giulio Torno, né del Sig. D. Matteo Ripa, né di D. Gennaro Sarnelli; sete stato assai scarso questa volta”.
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Troppo golosa era la curiosità del prelato, mentre nella sua corrispondenza come nel suo comportamento Alfonso era sempre lo stesso: rispondeva, discuteva, trattava affari, aggiungeva una parola franca dettata dal cuore, ma non cedeva alle chiacchiere e ai pettegolezzi. Aveva fatto voto di non perdere neppure un minuto.
Dopo aver partecipato il 25 gennaio alla riunione dei suoi “fratelli” di Propaganda, sabato 30, insieme a Sarnelli e a due ausiliari (uno dei quali forse il postulante Saverio Rossi), aprì la missione nella città vescovile di Caiazzo, a cinquanta chilometri a nord di Napoli.
Aveva lasciato la metropoli con nel cuore un’esaltante speranza, nata dall’incontro con giovani che chiedevano di dedicarsi totalmente con lui al Cristo e ai poveri. Alfonso insieme a Sarnelli aveva appena inforcato il somaro per Aversa, Capua e Caiazzo, quando uno di essi, Don Filippo de Vito, rotto ogni indugio, si affrettò a Castellammare, latore di una sua lettera. La risposta del Direttore, dello stesso 30 gennaio in cui si apriva la missione di Caiazzo, fu un colpo di freni:
“ Caro mio, ho ricevuto per mano del Sig. D. Filippo Vito la sua desideratissima mentre stavo in qualche apprensione, che lei non avesse ricevuto la mia... Circa questo Sig. D. Filippo di Vito, e gl’altri, che vogliono venire; mentre desiderano la strada ecclesiastica, e non han Patrimonio per esser preti, e son Figliuoli che non possono, se non dopo lungo tempo aiutarvi a qualche cosa. Anzi vi bisognano lettori a parte, e Maestri, per educarli, ed addottrinarli, ed ora non vi sono tanti soggetti, che possano incombere a tanto; mentre quei pochi, che sono tengono molte applicazioni, non ho per sicura la loro vocazione onde non mi azzarderei a riceverli per ora. Ma li andarei mantenendo speranzati, e frattanto cercherei di stima stabilire bene le cose, fra di pochi; ed aspettare, che Dio benedetto v’unischi qualch’altro soggetto maturo, che vi possi aiutare dentro, e fuori. Ed anche accomodar bene le cose temporali, specialmente perché si devono mantenere soggetti inutili: e poi slargarsi a ricevere gioventù. Dunque potete speranzare questi Figliuoli, animarli agli studi fuora, ed alla vita di Novizio anche in casa loro; ove s’applichino da vero all’imitazione della Vita Sacrosanta di N. Signore, che poi si riceveranno. E voi frattanto, attendete all’operare per Gesù Cristo ed all’orare fervolosamente Ut ipse mittat operarios in messem suam, e non temete, per ché il Signore è fedele davvero.
Questo D. Filippo vi scriverà i nostri congressi; ed aspetto gl’altri con desiderio, e ve ne scriverò”.
Non abbiamo queste lettere, segno che l’aggiornamento sine die imposto a Filippo gettò acqua su tutto quel fuoco, tanto da far evitare agli altri l’inutile viaggio a Castellammare. Quanto a Gennaro
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Rendina, il vescovo fu conquistato dal rapporto fattogliene da Alfonso, ma...
“...sarebbe necessario il vedere, che ha studiato. E quanto è ben capace della lingua latina: ma, caro mio, come si farebbe per ordinarlo Sacerdote, mentre non ha Patrimonio. E se non si stabilisce la Religione, non si può ordinare a titolo di Povertà? Questa parimente è la difficoltà insuperabile per gl’altri giovini, che non anno Patrimonio.
Quello, che mi dite, di poter aggiustar a Caiazzo, molti Patrimoni, bisogna vederlo in fatto; ed io lo stimo difficilissimo maggiormente perché, se sono Cappellanie per i Figliuoli di 19 anni, sono difficilissime, atteso vi vuole gran tempo prima che siano abbili a poter soddisfar agl’obblighi; e poi bisogna aspettare le vacanze, e 3° quando ve ne foss’alcuna vacante, converrebbe pensar a D. Cesare, ch’è soggetto provato, e d’ogni buona carata...”.
Il povero Sportelli infatti non era chierico se non per la sottana e la cotta, perché era impossibile accedere agli ordini senza “titolo di ordinazione”: un patrimonio familiare o un beneficio ecclesiastico per i sacerdoti secolari, per i religiosi la “mensa comune” (a chi entrava in un Ordine religioso, il voto di povertà dava diritto a sedere alla mensa comune, come sappiamo ben provvista di rendite).
La “mensa comune” era l’unica soluzione offerta ai poveri per il sacerdozio, ma Alfonso non poteva fondare un nuovo Ordine religioso. D’altra parte aspettare, con il cuore in gola, sacerdoti-apostoli già formati e provvisti di rendita o di beneficio ecclesiastico, era utopia, perché, tranne eroiche eccezioni, questi signori erano figli di famiglia, abituati a vivere in casa propria nel dolce far niente, gente di “ tutto riposo ”, non certo seme per il giardino del SS. Salvatore, né desiderosi di stringere la cinta, portare cilizi, frequentare la plebaglia e caricarsi di predicazioni e di confessioni, insieme al Liguori e al Sarnelli. La famiglia poi, che teneva al suo prete come oggi ogni parrocchia al suo parroco, era nemica giurata di ogni partenza missionaria: Alfonso ne sapeva qualcosa.
Avrebbe voluto aprire un seminario per giovani, captando la scintilla generosa che scocca in loro, ma il Direttore disse no, sempre per le stesse ragioni: non avevano titolo di ordinazione e non c’erano professori. L’11 marzo scrisse categoricamente ad Alfonso: di sacerdoti “avete bisogno; che per Novizi, che non han Patrimonio, non ci pensate” e il 12 aprile: “I giovani, che vogliono venire m’applettano con lettere, ed imbasciate: ma l’impedimento della mancanza del Titolo per ordinarsi è insuperabile, se Dio benedetto non provvede per qualche strada”. Quale strada, Monsignore?... Alfonso, benché dottore in diritto canonico, era propenso ad accoglierli nel loro slancio iniziale,
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fidando poi sulla provvidenza per nutrire queste bocche provvisoriamente inutili!
_ E’ imprudenza! - replicherà il 10 gennaio 1735 l’ex-superiore dei Pii Operai - fidatevi della mia esperienza: diffidate degli approfittatori!
“ Per ricevere ora questi Figliuoli, tanto lontani dal sacerdozio vi vuole molta riflessione... ed io so quanto sono stati burlat’i Pii Operai su questo punto, che dopo d’esser stati coltivati, istruiti, ed alimentati, se ne sono usciti con poc’onore della stessa Congregazione ”.
L’umanità è sempre la stessa!
Ricevere giovani era il desiderio di Liguori, sacerdoti già formati quello di Falcoia. Ma questi non restavano più di quelli, come testimonierà a Tannoia, con una punta di esagerazione, il sacerdote Don Crescenzo Camardelli, che aveva conosciuto questi tempi eroici e non aveva resistito a lungo:
“Faceva rumore da per tutto la novità dell’Istituto, e molto più la santità di Alfonso: l’uno e l’altro animava ognuno a concorrerci: ma... se i soggetti venivano a torrenti, anche a torrenti se ne ritornavano, non potendosi da tutti soffrire una vita così stentata, ed una povertà così estrema, in cui si viveva”4 .
Il risultato fu tanto impressionante quanto poco sottolineato: finché fu in vita il “ Direttore ”, la congregazione rimase sempre al lumicino e, alla sua morte il 20 aprile 1743, benché fossero già passati undici anni e mezzo dalla fondazione, conterà solo nove padri e sei fratelli coadiutori 5 .
“Aprire la porta ai giovani? In seguito. E solo a quelli con patrimonio. Intanto lavorate per Gesù Cristo ”. Alfonso era in piena attività a Caiazzo (2.500 ab.), quando fu raggiunto da queste sconcertanti consegne, poi, sempre con Sarnelli, Rossi e alcuni ausiliari, passò a Dragoni ( 1.600 ab. ), parrocchia costellata di casolari abbandonati . Mons. Vigilante - il nome era proprio azzeccato! - avrebbe voluto che la missione non si fermasse che ai confini della sua diocesi, però Sarnelli doveva ritornare a Scala e Alfonso aprire la seconda casa dell’istituto; si chiuse perciò domenica 28 febbraio e Liguori con Saverio Rossi percorse i dodici chilometri che lo separavano da Villa 6 .
L’attuale Villa dei Liberi, allora Villa degli Schiavi, faceva parte della signoria di Formicola, il cui barone era Francesco Carafa, principe di Columbrano, dai seguenti segni distintivi: colonnello bizzarro e poeta di corte, puntiglioso fino alla mania, in cronico conflitto con il suo vescovo e con Roma, divorato dal prurito di regolare ogni cosa nei conventi e nelle chiese. A dire il vero, quest’ultimo tratto non era una caratteristica solo sua, ma comune a baroni e baronesse, come abbiamo già visto nella duchessa di Marigliano e vedremo ancora in altri.
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I quasi cinquecento abitanti erano divisi in due agglomerati, distanti circa un chilometro, Villa e Schiavi (oggi Liberi), dei quali il secondo si gloriava della chiesa parrocchiale e il primo, capoluogo civile, del santuario dell’Annunziata, detto anche dell’A.G.P. (Ave Gratia Plena) messo a disposizione dei padri, insieme al piccolo alloggio dei cappellani (tre vani a pianoterra e quattro al primo) addossato al fianco sinistro della chiesa. Falcoia e Rossi avevano negoziato con le autorità municipali e la confraternita del Rosario un contratto comportante pochi redditi e molti impegni, tra i quali quello della scuola; Alfonso invece pensava piuttosto ad un noviziato e a una casa di esercizi spirituali per sacerdoti, ordinandi e laici.
Dal picco roccioso, sormontato dal “castellino”, cento metri dietro la chiesa, tetto dell’intera regione, lo sguardo abbracciava una corona di colline ricoperte di boschi di castagni e di querce, punto di incrocio di quattro diocesi: Capua, Caiazzo, Caserta e Piedimonte. Nella grande ansa del Volturno, che in lontananza gli tracciava intorno un ampio cerchio il cuore di Alfonso esultava cercando di indovinare tra le pieghe delle colline gli innumerevoli piccoli villaggi, ai quali si sentiva mandato: là stentavano la vita, ignoranti del Dio che li amava, boscaioli, carbonai, carrettieri, braccianti, mandriani, casalinghe cariche di bambini. In due anni ne avrebbe conosciuto i nomi e i volti, la miseria e L’umile grandezza: Fondola, Strangolagalli, Treglia, Merangeli, Profeti, Formicola, Sasso, Alvignano, ecc.
Punto focale di questo irradiamento evangelico fu la stessa Villa e i suoi immediati dintorni. Sul muro esterno della chiesa, sotto le arcate che sostengono il piano dei cappellani, il Calvario innalzato da Alfonso nel marzo 1734 testimonia ancora oggi la missione che segnò l’inizio del suo ministero: cinque croci di legno in ricordo dei cinque misteri dolorosi del rosario.
Fu subito, come a Scala, come in tutte le case alfonsiane, missione permanente: ogni giorno, insieme al popolo, meditazione al mattino, visita al Signore sacramentato e alla Madonna a sera; il giovedì, esposizione del SS. Sacramento con predica; il sabato, predica sulle glorie di Maria.
Le Glorie di Maria, prima grande opera spirituale del futuro dottore della Chiesa, verranno pubblicate solo nel 1750, ma il loro primo sgorgare fu a Villa nel 1734. La SS. Annunziata era la prima chiesa della congregazione, Ave Gratia Plena il suo titolo, il suo fascino. il suo mistero: Maria ricca di Grazia in pienezza, traboccante di Grazia da donare... Alfonso se ne esaltava e, frequentandola, celebrandola, predicandola, ne sviscerava gli splendori con amore traboccante. Iniziò un libro per la sua gloria, come nel giugno 1734 scrisse al gesuita Francesco Pepe e a Mons. Falcoia 7 mentre annotava - coincidenza
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eloquente - a p. 56d del suo diario: “A 29 giugno 1734. Fatto voto di digiunare il Sabato in pane et acqua”.
Ogni sabato quindi, giorno dedicato alla Madonna, Alfonso e Villa si nutrivano incantati delle glorie di Maria. Ogni domenica, al mattino, catechesi agli adulti nelle messe, partendo dal Catechismo del Bellarmino; nel primo pomeriggio, catechismo ai ragazzi, poi riunione con istruzione per gli uomini della confraternita del Rosario; al cader della notte, funzione solenne: predica e benedizione con il Santissimo o Via Crucis predicata.
A queste domeniche dell’Annunziata si accorse ben presto dai luoghi vicini e la chiesetta fu sempre piena di gente. Gli uomini - che non bestemmiavano più, non bevevano più, non giocavano più non andavano più a zonzo - si davano nei villaggi la voce l’un l’altro: “ Andiamoci a fare l’orazione mentale nella Chiesa de Padri! ”. Il testimone che ci ha tramandato queste sorprendenti espressioni, il sacerdote Don Giovanni Izzo, aggiunge: “...e Villa di Schiavi con Paesi adjacenti sembrava un Paradiso Terrestre”8
Ma Alfonso aveva mire più grandi e, avviando la fondazione di Villa all’inizio del marzo 1734 con il solo P. Rossi e un certo fratello Andrea, del quale non sappiamo chi fosse né di dove venisse, si proponeva di crearvi un noviziato e una casa di esercizi spirituali. Per questo aveva messo gli occhi sul “ castellino ”, a cento metri dalL’alloggio dei cappellani, che sarebbe stato sufficiente ingrandire.
Falcoia frenò: “Per la necessità di renderla capace per noi, per Novizi, e per esercizianti molta casa ci vuole, ed in membri divisi; acciò non risulti confusione. Ma caro mio... non tenete luogo, e penuriate dl quattrini” (11 marzo). Un noviziato poi, ma per chi? “ Mi scrivono premurosamente da Napoli D. Filippo Vito, e D. Gennaro Rendina, ch’ardono per venire con noi. Io gli risponderò, che s’abbino pazienza; ed aspettino dal Signore la grazia di potersi ordinare, o a Titolo di Patrimonio o di Beneficio, o di povertà... Gli esercizi agl’Ordinandi, per ora, stimo assai meglio per voi, e per essi, si facciano nella Città (Caiazzo) sotto gl’occhi dello stesso Vescovo che poi, quando sarete più Padri e vi sarà luogo più adatto, potrebbesi altrimenti disponere” ( 3 aprile ).
Questo futuro era più vicino di quanto non pensasse Falcoia e Alfonso gli forzerà un po’ la mano aspettandosi forse anche cambiamenti favorevoli dai gravi avvenimenti politico-militari allora in corso?
La scintilla questa volta scoccò in Polonia, la cui guerra di successione riattivò nell’intera Europa, dall’Atlantico agli Urali, tutti i
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virus di rapacità e di ambizione assopiti nelle grandi famiglie sovrane. La guerra di successione polacca oppose, grosso modo, i Franco-Spagnoli agli Austro-Russi e si svolse in Italia, dove la seconda moglie di Filippo V di Borbone, l’ambiziosa Elisabetta Farnese, era in cerca di corone per i figli, Don Carlos e Don Felipe.
A Napoli, dove nel 1707 Filippo V di Spagna era stato soppiantato dagli Austriaci sotto gli occhi burloni dei napoletani, si tornò all’antico. Nel febbraio 1734 L’infante Don Carlos, promosso a diciotto anni comandante supremo di un’armata di trentaseimila spagnoli si mise in marcia verso Firenze, Roma e Napoli, mentre la fanteria dell’imperatore Carlo VI si rinserrava dietro i bastioni di Capua e la cavalleria si ritirava in Puglia. A terra l’invasione ebbe luogo senza altri colpi di fucile se non quelli dell’infante, cacciatore inveterato, a colombi e piccioni; sul mare le quattro galere regie dai nomi profeticamente borbonici (Capitana, Padrona, S. Elisabetta e S. Carlo) furono sorprese e inchiodate nel porto da undici bastimenti da guerra che, con soli dieci colpi di cannone, ne avrebbero potuto fare legna da fuoco. Il 25 marzo, dopo la messa dell’Annunciazione, le galere, vanitosette e guizzanti, approfittarono della bonaccia, che immobilizzava i grandi velieri, per molestarne uno che si era troppo avvicinato, tuonando, con gentilezza spagnola, con un cannone volontariamente reso inoffensivo, mentre tutta Napoli accorreva sul lido come a uno spettacolo. Dopo due ore lo stesso viceré ordinò di metter fine a questa “ briga ” e poi le galere sfruttando la notte per eludere la vigilanza degli assalitori, guadagnarono Trieste9 . Questa resistenza fu tutta secondo lo stile dell’altero comandante della Capitana, Don Giuseppe de Liguori.
Il 9 aprile la Città andò a Maddaloni per offrire le chiavi della capitale all’infante, che però non aveva fretta, preferendo lasciar maturare il frutto. Arresisi il 6 maggio i cinquecento tedeschi di stanza nei forti e nei castelli, nei giorni seguenti nobili e prelati sfilarono in palazzo reale, presentando il loro omaggio al pronipote di Luigi XIV, Don Carlos di Borbone, che il 10 fece il suo ingresso solenne per Porta Capuana e Via dei Tribunali, come il padre trent’anni prima. Il 15 maggio infine con un solenne decreto Filippo V gli donava le corone di Napoli e di Palermo: le Due Sicilie, dopo 203 anni di subordinazione a Madrid e 27 a Vienna, ritornavano nazione indipendente con un re in casa, Carlo VII. Quando più tardi nel 1759 diverrà re di Spagna prenderà il nome di Carlo III, ma a Napoli sarà semplicemente Carlo di Borbone.
Ogni colpo di Stato porta sempre con sé un’epurazione brutale quanto ingiusta. Una giunta repressiva, la Giunta dei Secreti, perseguì e colpì i seguaci degli Asburgo; Don Giuseppe de Liguori fu allontanato dal comando e privato di ogni Pensione.
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Non pensiamolo per questo sul lastrico! Gli restavano tre palazzi (Via Toledo, Supportico Lopez e Marianella), un’altra grande casa a Marianella, più di venti bassi dati in affitto, diversi terreni (giardini, frutteti, boschi) per un totale di circa venticinque ettari e altre opulenti rendite 10 . Aveva lavorato bene per il suo primogenito, credendo così di legarlo saldamente al mondo ma aveva fatto i conti senza la forza del Vangelo. Il 17 gennaio 1761, in una conferenza alla comunità sulla virtù del mese, la fede, Alfonso darà questa testimonianza:
“Una delle principali massime di nostra santa fede è quella del Vangelo: Quid prodest homini, si mundum universum lucretur, animae vero suae detrimentum patiatur? Questa massima... ne ha tirati moltissimi a Dio, come un sant’Ignazio, un san Francesco Saverio ecc. e per dir la verità... questa massima mi ha ancora me tirato dal mondo. Mio padre mi proponea gli vantaggi che io potea sortire; ma io non andava considerando che tutto è vanità e presto finisce, onde furono queste riflessioni bastanti a farmi lasciare il mondo”11 .
Il padre oggi gli dava mille volte ragione. Portate con sé dalla cabina della Capitana le quattro statuette della passione di Cristo, saprà profittare dei rimanenti dieci anni di vita, per praticare il suo hobby preferito, la pittura, e per preparare aiutato dal figlio la crociera dalla quale non è possibile far ritorno 12
Come prese Alfonso l’avvento del nuovo re e la disgrazia del padre? Non un rigo da parte sua; abbiamo invece un accenno del vescovo di Castellammare nella lettera dell’8 maggio, con la quale, miracolosamente, dietro le insistenze del confratello di Caiazzo scongelava la situazione di Villa:
“ Mi trovo in Napoli per la necessaria convenienza con S.A.R....
Vi benedico la Fabbrica, gl’esercizi a quelli possono capir in Casa e quelli si daranno a gl’ordinandi questo venturo settembre. E voglio tanto bene a Monsig. Vigilante, perché mi dà tanti belli esempi di zelo, e di prudenza... Direi, che la Cappella capiente 20 persone può contentarvi per ora; e frattanto attendete a moltiplicare le celle... Per le finestre la carta, o la tela incerata, da vero, è più confacente alla santa Povertà, alla quale Nostro Signore e la nostra Gran Madre poverissimi, vi vogliono cordialmente sposati ”.
Quanto a Gennaro Rendina, che premeva per donarsi ed era stanco di aspettare un ipotetico patrimonio, “vuole farsi Laico; ed io gl’ho esaminato, e non mi dispiace. Giacché voi avete necessità d’un altro Fratello, potessivo prender questo”.
In maggio e in giugno la costruzione andò avanti: Alfonso era architetto, Rossi contabile e questuante, entrambi operai; tutto il paese,
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gentiluomini e belle dame comprese, dava volentieri una mano: “Tutto era allegrezza, e fervore” dice Tannoia.
Arrivò l’eccellente Rendina e Alfonso tornò alla carica per orientarlo verso il sacerdozio, ricevendo una replica molto secca dal Falcoia il 2 giugno:
“Le ragioni addotte, per avviare Gennaro al sacerdozio, non mi convincono punto; e vi risponderei adeguatamente ad ogn’una, se avessi tempo. Ma poiché lei c’inclina tanto, e si fida portarla in modo, che non pregiudichi, lascio al suo arbitrio il regolare questa faccenda”.
Rendina però non ritornò più sulla sua decisione di farsi fratello, di farsi santo; con dispiacere di Falcoia, Alfonso gli affidò la scuola, liberandone il P. Rossi per il ministero della chiesa, delle missioni, del ritiranti, che ormai potevano essere accolti nei due piani del “castellino”.
Alfonso aspettava anche giovani desiderosi di unirsi a lui, tra i quali un seminarista di Caserta, Francesco Mezzacapo invitato il 3 luglio con una lettera nella quale il nascente Istituto e il suo fondatore appaiono in tutta la loro trasparente freschezza 13
“Figlio mio... mi dimandi quante persone siamo in questa casa; in questa casa per ora siamo solamente quattro co ‘l Fratello laico, che ci serve; e specialmente vi è il Sig. D. Saverio Rossi che ti conosce, Sacerdote, e che si porta, come un Angelo, facendo ogni giorno progressi grandi nella perfezione, come fanno ancora gli altri, che mi confondono, poiché io miserabile mi vergogno di comparire in mezzo di loro.
Ho detto quattro in questa casa, siamo per ora, ma tra poco saremo più, poiché specialmente vi sono due, li quali facilmente tra breve saranno con noi; anzi vi è un buon giovane di Caiazzo, suddiacono, ch’è un’anima tutta di Dio, stimato ivi dal Vescovo e da tutti, e questo è già certamente nostro, poiché già da molto tempo è risoluto di unirsi con noi, già ne à avuta l’obbedienza dal suo Direttore Spirituale, e già da noi e da Monsignor Falcoia si è accettato ”.
Si trattava di Giulio Cesare Marocco, ventitré anni di distinta famiglia, laureato all’università di Napoli, uno degli allievi più intelligenti e più amati da G.B. Vico.
Entrerà a Villa verso il Natale 1734 14 .
“L’altro poi, proseguiva Alfonso, è un Sacerdote, che già à detto di voler venire, già si trattiene con noi a far la regola in nostra casa, ma noi lo stiamo provando bene, se è vera, e ferma la sua vocazione...”.
Questo Don Giovanni Maria de Masellis, canonico della collegiata di Faicchio nella diocesi di Telese, era un mistico del SS. Sacramento. cosa che certo non dispiaceva a Don Alfonso, però non ci si poteva consumare nelle missioni e assicurare al tempo stesso, giorno e notte, L’adorazione perpetua. Il problema di questo canonico ritornerà spesso nella corrispondenza Liguori-Falcoia; alla fine, non accettato, entrerà in casa
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Mannarini 15 . Alfonso non transigeva sulla sua idea dell’Istituto:
“ Mi richiedi poi quali siano le nostre pretenzioni in questo luogo; ti rispondo figlio mio, che le pretenzioni non sono grandi, perché pretendiamo qui dl farci veramente santi coll’aiuto di Gesù, e di Maria di cui già coll’esperienza vediamo di godere una loro speciale assistenza. Qui ce ne stiamo nella nostra divota, e solitaria casetta ritirati in santa solitudine, ognuno meditando, che più può fare per dare gusto a Gesù Cristo; per lo più ce ne stiamo ritirati in casa, o facendo orazione, o studiando, o trattenendoci fra di noi con discorsi utili, e divoti, e lontani affatto dal mondo, da parenti, dalle case nostre, e da tutti i rumori del mondo procuriamo di trovare la nostra pace solamente in Gesù Cristo che è la vera pace di tutti. Appena usciamo dalla nostra casa qualche volta per prenderci qualche breve, ed utile sollievo, o pure per giovare all’anime di questi contorni, che con tanta divozione, e frequenza assistono alla nostra Chiesa, e Gesù Cristo vediamo che benedice a meraviglia le nostre povere fatiche, mentre questi luoghi, si può dire a gloria di Dio qui tacit mirabilia solus, sono diventati un Paradiso, poiché tante anime si son date all’orazione mentale, e fanno prodigi e forse quello, che più mi consola, è una Congregazione di uomini che si è stabilita sotto Maria Santissima del Rosario, nella quale come vengono queste povere genti con amore, con che frequenza, e con che profitto è una consolazione grande per noi.
Qui poi ci anno data la casa, dove già vi sono da undici stanze, seu cellette, colla cappelletta ancora, che abbiamo in casa, dove si dice Messa, e si fanno l’altre devozioni della Comunità, ci anno dato ancora la Chiesa, dove vi sono l’utensili necessari, ci hanno dato ancora alcune rendite, oltre le molte Messe, che vi sono. Elemosine poi ce ne fanno molte per l’affetto, che ci portano. Il Vescovo poi, Mons. Vigilante questo soggetto così santo e così dotto stimato da per tutto in Napoli, e in Roma, L’amore che ci porta è incredibile, mentre si può dire che non potrebbe far per noi più di quello, che fa, poiché oltre le limosine, che ci fa, ci ha posta quasi tutta la Diocesi in mano.
Quando poi dare le Missioni, ch’è il nostro principale Istituto conforme già sinora, se ne sono fatte molte e sono riuscite di mirabile frutto, poiché noi le facciamo differenti dalie altre Congregazioni.
Sappi poi, che in Scala vi è un’altra nostra casa con tre altri soggetti e un’altro fratello laico. Il nostro Istituto è del SS Salvatore, e il Direttore, che regge quest’Opera, e ci ha dato le regole, è Mons. Falcoia Vesc. di Castello a mare, Uomo che il mondo sa quanto sia grande per capacità e per spirito.
Altre cose mi riserbo poi a dirtele a voce, se piace a Gesù Cristo. Raccomandami a Maria Vergine...”.
Con questo sguardo ammirato sugli uomini, era completo il qua-
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dro del progetto che Alfonso viveva e condivideva con altri: in casa, vita silenziosa, contemplativa, laboriosa, di studio, ma accanto a una chiesa in missione permanente; fuori, missioni secondo un metodo nuovo e più efficace (lo analizzeremo); in casa e fuori, preoccupazione prioritaria per la povera gente: per “ lavarla ” in fretta con una confessione generale? molto più, per condurla alla vita di preghiera e di santità.
In questo Alfonso de Liguori andava più lontano del suo modello e patrono Francesco di Sales. Nella prefazione alla Introduzione alla vita devota questi constatava che prima di lui i trattati di vita spirituale “ si sono quasi tutti rivolti a persone molto ritirate dal commercio del mondo ”, mentre sua intenzione era far uscire la santità da “questo completo ritiro” e “ istruire su di essa coloro che vivono in città, in casa, in corte... fuori... sotto la pressione degli affari temporali ”. Il suo appello però, fatto con la penna, si indirizzava a un mondo alfabetizzato, cioè selezionato e ricercato; Alfonso invece aveva di mira e raggiungeva la povera gente analfabeta, non catechizzata, abbandonata, ingiustamente, perché anch’essa di figli di Dio. Come ai lazzaroni delle Cappelle di Napoli, insegnava non solo la conversione, neppure la sola perseveranza, ma la santità di tutta la vita, una santità che “faceva prodigi” (L’espressione è sua), per mezzo della pratica quotidiana dell’orazione mentale non già di qualche devozioncella.
Però il P. de Liguori era troppo umile per atteggiarsi a fondatore e nella lettera al giovane Mezzacapo si nascondeva dietro il Direttore, il quale “ ci ha dato, diceva, le regole ” (con “ r ” minuscola). In realtà si trattava di regolamenti comunitari redatti da Alfonso sulle indicazioni di cui erano piene le risposte di Falcoia, che, per quanto imperioso, non poteva ignorare la vera natura dei loro ruoli complementari. Poco più tardi, il 28 luglio, il vescovo scriveva al fondatore in occasione di un intervento di Torni:
“Voi stiatev’in pace, e tirate avanti l’Opera del Signore, che non sarebbe sua, se andasse liscia, e senza contraddizioni, e battaglie, e da fuori e da dentro. Fate punto finale a queste massime, e non badate più ad altro, né per l’Opera, né per voi, che siete stato scelto da S. D. M. per l’Istrumento principale di questo Edificio: ed avete da portare il suo SS. Nome fra i Popoli, Genti e Nazioni ”.
Le nazioni pagane erano state la primitiva mira del pensionante dei Cinesi e restavano sempre l’ossessione segreta del missionario di Villa, il cui orizzonte andava ben oltre il primo piano del quale da poco aveva fatto il giro con F. Mezzacapo. Al di là di Eboli e a S. Maria dei Monti aveva scoperto gente più abbandonata dei popolani della capitale ed era partito per le campagne. A Villa leggeva l’Histoire de l’Eglise du Japon del P. Jean Crasset s.j., edita in italiano a Venezia nel 1722,
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e durante i suoi veloci passaggi per Napoli incontrava i suoi amici Ripa e Fatigati: vedendo le popolazioni pagane più abbandonate dei pastori del Mezzogiorno italiano, ne era commosso fino a chiedersi: chi ne conosceva l’indigenza poteva non correre loro incontro? Sempre nel luglio 1734 espresse l’ansia che lo tormentava fin nell’intimo della coscienza a Mons. Falcoia e al P. Pagano:
“ Disse in Napoli il sig. D. Matteo Ripa che, prima dell’Indie vi è il Capo di Buona Speranza, dove sono molte genti idolatre e dove non ci va niuno ad insegnar la Fede. Si domanda, se è obbligato di andarci chi ha questa notizia…” 16 .
Falcoia gli rispose il 20 luglio con quella visione profetica, che affiorava alle volte nelle sue lettere, dell’universalità dell’Istituto:
“ Certo è, che la vostra ispirazione d’aiutare l’anime abbandonate del Capo di buona speranza è da Dio, ed è buona, per conseguenza. Ma io la bramo, con S. D. M. miglior’e più vasta. Caro mio, perché desiderate d’aiutare quelle anime abbandonate, e non tant’altre pure che si trovano in simili necessità, ed abbandoni nel resto tutto delL’Africa, dell’Asia, dell’America, de Paes’incogniti, e dell’Europa istessa?... Perché caro mio, non sente pietà per quelle ancora, e non ha stimoli cocenti d’aiutarle? Questo è l’intento dell’Istituto... Voi solo potreste far tanto?... promovemo quanto si può con la Divina grazia il nostro Istituto; e quindi risulterà il soccorso a tant’anime bisognose... E potrete contribuire assai meglio a quelli soccorsi per quelle grandi, e somme necessità, senz’andar voi, per ora ”.
Il P. Pagano il 4 agosto stese un’analoga risposta.
Ma allora che il Padrone mandasse operai: era l’ossessione di Alfonso. . .
Finalmente, nella prima quindicina di ottobre, arrivò Giovanni Mazzini, L’amico di più antica data, colui che gli aveva detto: “ Eccomi qua io sono il primo compagno ”; poco dopo un altro fratello delle veglie eucaristiche a Napoli e delle Cappelle serotine, il sacerdote Michele de Alteriis; quasi contemporaneamente anche il diacono di Caiazzo Giulio Cesare Marocco, e tre fratelli coadiutori di Amalfi: Angelillo Pietro e Gennaro; poi ancora Crescenzo Camardelli, un certo Don Innocenzo da Amalfi e forse altri...
I movimenti delle truppe, che si prolungarono fino a tutto novembre, resero difficili i viaggi e quindi le missioni, per cui, tranne un ritiro al clero di Caiazzo alla fine di settembre e due missioni in autunno, il P. de Liguori consacrò gli ultimi mesi del 1734 a modellare la sua decina di novizi: con il suo esempio, più che con la sua parola.
La sua bontà sorridente e trascinatrice non ne faceva un indoratore di pillole, tanto da accogliere Rendina con queste espressioni:
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- Se vieni a farti santo, passa la porta e entra; se no, tornatene a Napoli...
Gennaro aveva oltrepassato la soglia con passo deciso, mentre altri, la maggior parte, entravano, ammiravano, restavano più o meno a lungo e prendevano la fuga. Uno di questi, D. Camardelli, lascerà a Tannoia la sua testimonianza meravigliata e impaurita:
Alfonso “ ogni giorno mangiava ginocchione, con un gran sasso pendente dal collo: il suo vitto era di ordinario una sola minestra senza carne, ma condita con lardo, o olio; e se ne’ giorni solenni vi si aggiungeva un poco di carne, questa si aveva per limosina dalla casa de’ Rossi. Quasi ogni sera si aveva pan cotto, ma il P. D. Alfonso, condivalo, e così condiva anche la minestra, con centaurea, o altre erbe amare. Non vi era vino per esso. Oltre la disciplina comune più volte la settimana, di continuo si flagellava nella propria stanza, e vedevansi le mura asperse di sangue. Andava così carico di cilizj, che a stento poteva camminare. Dormiva pochissimo: il suo guanciale non era, che un pezzo di tufo, ed il suo pagliaccio era così scarso, che veniva a stare con le ossa sopra le tavole.
Somma era la sua umiltà. Prima, o dopo aver mangiato, baciava i i piedi a tutti. Non si radeva mai la barba, ma se la tosava esso medesimo con una forbice. La sua sottana era così lacera, e rattoppata, che non si conosceva la prima forma. Non fece mai uso di cavallo, ma o a piedi, o cavalcava un somaro. Essendosegli detto una volta, che un somaro non era atto a portarlo, risposte: questo è buono per me...
Per tutto vi era in Casa un continuo silenzio: solo un quarto prima delle ventiquattro si univa il P. Liguori coi Compagni, e non si parlava, che delle cose eterne, dell’Amore di Dio, delle gesta de’ Santi e dello zelo delle Anime. Anche l’ora della ricreazione dopo tavola, era tra tutti una continuata conferenza di cose divote. Ognuno doveva raccontare ciocché nel decorso della giornata letto aveva nelle vite de’ Santi. Questo tenore di vita esigeva il P. Liguori da’ suoi Congregati, ed egli, oltre l’Orazione in comune tre volte il giorno, si vedeva in una continuata Orazione; e non trattava con altri, che per necessità ”.
Camardelli era stato colpito, più che da ogni altra cosa, dal silenzio, al quale il fondatore teneva come indispensabile clima di tutta la vita spirituale. Scriveva infatti il 26 agosto 1734 a una monaca di Camigliano, Maria Giovanna della Croce:
“In quanto poi all’orazione, vorrei che facesse, oltre l’ora della comunità, un’altr’ora, trovandosi il tempo più comodo, specialmente la notte e le ore di maggior solitudine, in cui Gesù parla ai suoi diletti. Il silenzio vorrei che fosse assai, fuor che in tempo di ricreazione cioè dopo pranzo e dopo cena; del resto, non parlate se non per necessità e sempre colla voce bassa, e due ore il giorno poi di silenzio
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più rigoroso. Non si trova anima di orazione che parli assai. Chi va innamorato veramente di Gesù non vorrebbe mai parlare, mai vedere mai sentire altro che Gesù”17 .
Da un tale regime le “brave persone” disertavano e restavano solo i santi. Ma Alfonso lo dava per scontato, perché nelle fondamenta l’Istituto aveva bisogno di pietre ben diverse di quelle per i pavimenti dei singoli piani. Al contrario del Falcoia contava perciò poco sull’arrivo di sacerdoti già formati, generalmente ben piazzati nelle loro famiglie, nei loro benefici, nel loro ozio; anche se tentava di smuoverli portandoli con sé in missione e con un noviziato nel vivo dell’azione pastorale, a Fondola (570 ab.), Strangolagalli (350 ab.), tuttavia l’usura della vita era irreversibile quasi in tutti. Sarnelli, Rossi, Mazzini erano certo venuti già da sacerdoti, ma di un sacerdozio fresco e nato, come il suo, da una rottura e da un dono; gli occorrevano anime nuove di una generosità non incrinata.
Così, malgrado il suo struggente bisogno di uomini, non fu tentato dai nuovi passi di Mannarini.
Tosquez, diventato un personaggio alla corte pontificia, durante un’udienza con Mannarini nel novembre 1734, parlò al papa dello zelo del P. de Liguori per gli abbandonati.
- Ditemi che posso fare per lui, che tutto farò, rispose Clemente XII.
Mannarini ne informò Alfonso, aggiungendo:
“ Essendoci una tal disposizione nel Capo della Chiesa, stimo, e così vi pregano gli altri, doversi degnare riunire nell’ovile le distratte pecorelle, acciò uniti possiamo cooperarci per la gloria di Gesù Cristo. e per lo bene delle Anime ”.
Liguori, benché sorpreso dalle disposizioni dei padri del SS. Sacramento e felice di quelle del papa, non era per nulla desideroso di salire la scala offertagli dal Tosquez, come emerge dalla sua lettera di quattro mesi prima al sacerdote napoletano Don Francesco di Viva che gli aveva chiesto: “ Ma quale appoggio avete? ”;
“ Abbiamo Dio. E quale opera di Dio grande è stata mai appoggiata sugli appoggi umani? Dimmi quali appoggi umani ebbero le fondazioni di san Francesco, di san Giovanni della Croce di santa Teresa?
Mi dice che quel sacerdote (Mannarini) ha migliori mezzi umani di noi: dunque perciò dobbiamo più sperare noi ch’esso, mentre Gesù Cristo, quanto più l’opere sono grandi, tanto più le fa nascere dal niente e da mezzo le contraddizioni, per farle da tutti ammirare e venerare per opera di Dio, e non per opera di uomini. E quale opera più destituita di mezzi umani che la predicazione dell’Evangelio?... Senti: se a noi non mancherà la confidenza mo’, non finirà certo l’Istituto.
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Solo può rovinare quest’Opera la poca confidenza in Dio, e il porre speranza negli aiuti umani, come lo sappiamo noi coll’esperienza, ché per aver posta la speranza a certi mezzi umani è stata già per distruggersi l’Opera”18 .
Alfonso perciò lasciò andare le cose per le lunghe senza una precisa risposta.
Nel marzo 1735 nuove istanze di Mannarini, che, maneggiando carota e bastone, faceva intravedere l’approvazione romana e si appellava al giudizio di Dio. Vivace la reazione di Falcoia in data 3 aprile 1 735 :
“Don Vincenzo Mannarini nec nominetur: se viene da me, non lascerò di sentirlo, e servirlo. Ma non mi passerà, nemmeno per sogno di riceverlo. Vadi per le sue strade; e prego il Signore gliele feliciti, ma non avrà mai, che far con noi...”
Fine clavicembalista, Alfonso aveva un tocco più delicato, anche se l’accordo era lo stesso:
“ Bilanciando il più che temeva, scrive Tannoia, col meno che sperava, si disbrigò finalmente con una lettera esclusiva E’ vero, diceva Alfonso, che promettono molto, ma non so se l’attendono. Le prime impressioni non si cancellano: quello che oggi si ritratta, dimani si ripiglia; e quello che si promette, raffreddato l’impulso, non si attende. Maggiormente ne fu alieno, memore dell’avviso dell’Eminentissimo Pignatelli, di più non aver che fare, specialmente col Tosquez, che quantunque uomo di Dio, era nondimeno stravagante, e singolare nelle sue idee ” 19.
Con la morte del cardinale Francesco Antonio Pignatelli il 5 dicembre 1734, dopo 34 anni di episcopato napoletano, Alfonso perdeva un amico sicuro e buono, il padre del suo sacerdozio, un uomo di Dio e dei poveri. La voce di Don Giulio Torni, che aveva avuto l’onore e l’onere di pronunziarne l’orazione funebre, non si era ancora spenta quando, il 15 dicembre, si apprese il nome del nuovo arcivescovo, Mons. Giuseppe Spinelli, di appena 41 anni, dalla rapida carriera dovuta certo ai suoi meriti, ma anche allo zio il cardinale Imperiali: promosso a 27 anni arcivescovo e internunzio a Bruxelles, era dal 1731 segretario della Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, della quale era prefetto lo zio. Ora riceveva, come nessun’altro dei suoi predecessori “ una diocesi così ricca di movimento pastorale, di forze disinteressate così solidamente strutturata”20 . Uomo di zelo, di cultura, di rigore non sarà indegno né di questa eredità, né della sua alta missione, anche se accentuerà l’insegnamento del probabiliorismo in campo morale di due anni e mezzo più anziano di Alfonso de Liguori, non aveva però la sua esperienza del popolo minuto.
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Sperduta nelle campagne, la povera gente con i suoi missionari non era per nulla abbagliata dalle mode religiose e politiche della metropoli. Alfonso a metà dicembre lasciò Villa nelle mani di Mazzini, di Rossi e degli altri per iniziare la novena di Natale a Castellammare, il cui vescovo non vedeva da un anno, da quando era partito da Scala e dalla sua “grotticella”. Portava con sé, per allontanarlo da Caiazzo e da una madre che non si rassegnava a farlo crescere, il diacono Marocco: il brillante discepolo di Vico a Scala avrebbe potuto prepararsi al sacerdozio e poi, alla fine di marzo, prendere il posto di Sportelli nell’insegnare ai bambini l’abbiccì e il segno della croce.
Sabato 1° gennaio 1735, insieme a Sarnelli e ad alcuni ausiliari, Liguori iniziò una campagna di quattro missioni sulla costiera amalfitana, a Praiano (1.000 ab.), a Vettica Maggiore (800 ab.), a Positano (3.750 ab.) e a Cetara (2.500 ab.), della durata di due mesi, durante i quali a Scala si discusse il problema di una nuova sede per l’Istituto. Dovendo anche costruire una chiesa, si sarebbe passati sull’altopiano di S. Caterina, sul poggio di Minuto o, a mezz’altezza, sul ripiano di Pontone? Andirivieni di lettere tra Liguori, Santoro e il Direttore Falcoia, che, adorando condurre gli affari da solo, il 20 gennaio scriveva ad Alfonso:
“Bramerei poi, che voi uniformemente rispondessivo a Sua Signoria IlI.ma (se pur sin’ora non gl’avete risposto) mostrando, che concordemente vi riferite tutti a me, e siete ben contenti di tutto quello farò io. Questa uniformità e concordia farà molta impressione; e toglierà voi da molt’imbarazzi, e pericoli, oltreché sarà per voi capo di molti meriti presso Dio benedetto”.
Infatti!... Questa bella teoria, allora fin troppo diffusa, che dava ai despoti uno scettro divino per “assoggettare” i loro “soggetti” a ogni specie di “ soggezione ”, non era secondo lo spirito né di Francesco di Sales, né di Vincenzo de’ Paoli, né di Alfonso de Liguori. Quest’ultimo però, uomo del suo tempo, ubbidì volentieri per amore della volontà di Dio, ma non ciecamente, perché, uomo anche del secolo dei Lumi, dava priorità alla ragione e alla coscienza personale nelle scelte. Nel presente caso si appassionò al dibattito su Scala molto meno che alle sue missioni intorno a Positano, ma reagì con prontezza tre giorni dopo, quando il prelato scoprì le sue intenzioni più segrete:
“Il mio disegno sarebbe, di portarvi qui (a Castellammare). V’è un romitorio, assai più vicino, e più comodo, che non è Pontone da Scala. L’aria è preziosissima. V’è una Chiesina sommamente divota: vi sono tre stanze; ed è dolcemente solitaria: si chiama S. Cataldo... e poi la Diocesi di Vico (Equense) anche vicina. E vi sarebbero tant’altri Paesi comodi a coltivarsi. Non vi sarebbe impegno di scuola”.
Con la sua abituale laconicità, Alfonso annotò sulla lettera:
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“1. Non vi è entrata, e Castellammare è povero.
2. Non vi è diocesi vasta. Vico e coltivato.
3. Vi sono tante Religioni - (Castellammare, diocesi di settemila anime, dava ospitalità a Domenicani Cappuccini, Minori, Minimi, Carmelitani, Gesuiti, Fatebenefratelli, Clarisse e Carmelitane!) - .
4. Altri luoghi migliori. Pochi soggetti” 21 .
Sicuramente Alfonso espose questi quattro motivi al vescovo, ma gliene tenne nascosto un quinto: Falcoia Direttore sì; Falcoia Direttore e vescovo, no! Il prelato capì tutto? Non insistette e il 30 gennaio: “ Di questo se ne parlerà meglio appresso ” concluse, ma non se ne parlerà mai più.
Si continuò a parlare invece di una fondazione a Positano, trattata da Alfonso con i responsabili laici della Casa del Rosario, intorno alla quale Falcoia il 12 febbraio scriveva:
“Temo... che possi far mal Gioco il tanto dividersi... Scala non può lasciars’in conto alcuno - (era il parere di Falcoia, non quello di Alfonso perché Scala era poco accessibile) - ; caricarvi di tanto peso ch’abbi a portarsi da pochi, non è buona regola. Ma la vostra fiducia in Dio benedetto può far miracoli: invitate altri perché aiutino con le orazioni. E su questa confidenza, si lascino pur questa volta le reti. Ma poi non si parli più d’altra Fondazione (che delle chiamate non ve ne mancheranno) se non vengono tanti operari, che siino sufficienti a più altre messi ”.
Ma il progetto si infranse contro lo scoglio della scuola, come il fondatore scrisse alla fine di febbraio a Mons. Scorza, arcivescovo di Amalfi: “ V. S. Ill.ma avrà già saputo la pretensione de’ Signori di Positano, che noi ci obblighiamo a far la scuola, pretensione che mi ha recata maraviglia, mentre sin dal principio L’aveva replicato tante volte che non posso”22 . Lo stesso Alfonso mise poi la parola fine alle trattative.
Terminate le missioni, salì a Scala per assicurare la quaresima in cattedrale, mentre Sarnelli andò a predicarla a Villa confessando dalla mattina alla sera, tranne il tempo delle prediche e di una tazza di cioccolata: una “ missione ”, scriverà Liguori nella biografia consacrata all’amico, che vide passare tutta la regione per il suo confessionale 23.
Non dirà però ciò che egli stesso fece a Scala: quaresima in cattedrale e contemporaneamente ritiri prima nella parrocchia di S. Caterina, poi alle Benedettine di S. Cataldo (le stesse che avevano prestato I ‘abito alle sorelle Crostarosa al momento dell’espulsione ), infine alle monache del SS. Salvatore. Il suo segreto? Dormire poco, mangiare pochissimo, pregare lungamente e non perdere un solo minuto.
Alla fine delle solennità pasquali (17 aprile) raggiunse nuovamente
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Villa, dove rimase fino all’Avvento 1735, completamente dedito ai circa quindici novizi. I locali erano stati ingranditi, ma si stava tuttora stretti, perché ritiri a ordinandi, a sacerdoti e a laici, rendevano sempre affollati i locali, nell’irradiamento di una vita religiosa intensa: silenzio, orazione, ufficio, conferenze, penitenze e gioia in Dio. Però non era un noviziato sotto campana di vetro: a gruppi di tre, di cui uno sacerdote, si partiva per tre o quattro giorni per evangelizzare i casolari con catechismi, brevi prediche all’aperto, riunioni di preghiera.
Giulio Marocco, ormai sacerdote e più consolidato, aveva reintegrato il gruppo in luglio, ma a fine settembre le quattro giovani reclute della quaresima riguadagnarono la loro dolce costiera, dando ragione alle reticenze di Falcoia, che però non lanciò un grido di trionfo, ma scrisse a Alfonso il 5 ottobre 1735:
“Figlio mio caro, ho più consolazione nella vostra rassegnazione, che non avrei avuta, se fossero venuti dieci buoni soggetti”.
Malgrado questa defezione, Liguori non si rassegnerà mai a perdere la fiducia nei giovani, che dopo la morte di Falcoia, gli daranno ragione.
Intanto, all’arrivo della “rinfresca” (L’autunno), Alfonso, calzate le sue grosse scarpe, riprese, bisaccia sulla spalla e rosario in mano, le marce missionarie attraverso le diocesi di Capua, Caserta, e soprattutto, Caiazzo. I suoi compagni erano tutti padri del SS. Salvatore: Mazzini, Rossi, de Alteriis, Marocco, Camardelli e quel Don Innocenzo, del quale ignoriamo il cognome; con loro in missione c’erano anche i fratelli “coadiutori” (chiamati così proprio per questo).
Però all’inizio del 1736 il giovane albero, sotto la furia del vento, perderà dei rami: Marocco, affaticato, ritornerà alla sua scuola a Scala; de Alteriis, una delle più belle speranze dell’Istituto, verrà prelevato a forza dal padre nel corso di una violenta spedizione armata; altri mostreranno ben presto che le “vocazioni” dei preti non erano più sicure di quelle dei giovani; dei fratelli, resterà solo Gennaro Rendina. V’erano però dei santi - Liguori, Mazzini, Rossi e Rendina - , che per il momento inquadravano e trascinavano gli altri.
Mons. Vigilante invece toccava il cielo con un dito: Villa non restava mai vuota di esercizianti, animati soprattutto da Alfonso; i missionari dissodavano da un capo all’altro la diocesi, della quale aveva scritto precedentemente: “Chiese povere, clero povero, popolazione povera”, facendovi fiorire la vita cristiana incentrata nei sacramenti e nell’orazione; artigiani e braccianti agricoli ( più di duecento nella sola confraternita del Rosario) diventavano a loro volta missionari con l’apertura nei vari villaggi di focolari di evangelizzazione e di preghiera simili alle Cappelle serotine dei quartieri poveri di Napoli.
Il 19 novembre 1735, nella sua relazione quinquennale alla Con-
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gregazione del Concilio, il vescovo dichiarava: “Non trovo parole per lodare le opere di questi missionari per la gloria di Dio e per il profitto delle anime, non solamente nei dintorni di Villa, ma anche in tutta la diocesi”24 .
Si univa alla testimonianza di Don Giovanni Izzo e a quella dello stesso Alfonso: in due anni “questi luoghi sono diventati un Paradiso”.
pp. 7-9.