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Pio XII
Sempiternus Rex Christus

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Capitolo II

 

19. Ma veniamo ormai al cardine di tutta la questione, e cioè alla solenne definizione della fede cattolica, con cui fu rigettato e condannato il pernicioso errore di Eutiche. Nella quarta sessione dello stesso sacro sinodo, fu richiesto dai rappresentanti imperiali che si componesse una nuova formula di fede; ma il legato pontificio Pascasino, interpretando il voto di tutti, rispose che ciò non era affatto necessario, essendo sufficienti i Simboli di fede e i canoni già in uso nella chiesa, prima tra essi, nel caso presente, la lettera di Leone a Flaviano: «In terzo luogo poi (cioè dopo i Simboli Niceno e Costantinopolitano e la loro esposizione fatta da san Cirillo nel Concilio Efesino) gli scritti inviati dal beatissimo e apostolico Leone, papa della chiesa universale, contro l'eresia di Nestorio e di Eutiche, hanno già indicato quale sia la vera fede. Similmente anche il santo sinodo questa stessa fede tiene e segue».11

20. Giova qui ricordare che questa importantissima lettera di san Leone a Flaviano intorno all'incarnazione del Verbo fu letta nella terza sessione del concilio; e appena tacque la voce del lettore, tutti i presenti gridarono insieme unanimi: «Questa è la fede dei padri, questa è la fede degli apostoli. Tutti crediamo così, gli ortodossi credono così. Sia scomunicato chi non crede così. Pietro così ha parlato per bocca di Leone».12

21. Dopo questo, in pieno consenso tutti dissero che il documento del romano pontefice concordava perfettamente con i Simboli Niceno e Costantinopolitano. Nondimeno nella quinta sessione sinodale, su rinnovata richiesta dei rappresentanti di Marciano e del senato, fu preparata una nuova formula di fede da un consiglio scelto di vescovi di varie regioni, che si erano riuniti nell'oratorio della Basilica di Santa Eufemia; essa è composta di un prologo, del Simbolo Niceno e del Simbolo Costantinopolitano, allora promulgato per la prima volta, e della solenne condanna dell'errore eutichiano. Tale formula fu approvata dai padri del concilio con unanime consenso.

22. Crediamo ora di fare cosa degna, venerabili fratelli, se Ci fermiamo un poco a spiegare il documento del romano pontefice, che rivendica splendidamente la fede cattolica. Anzitutto contro Eutiche che andava dicendo: «Confesso che il Signore nostro era di due nature prima dell'unione; dopo l'unione invece confesso una sola natura»,13 non senza sdegno così il santissimo pontefice contrappone la luce della folgorante verità: «Mi meraviglio che una sua formula così assurda e così perversa non sia stata riprovata da alcuna protesta dei giudici...; mentre è egualmente empio asserire nel Figlio unigenito di Dio due nature prima dell'incarnazione come ammettere in lui una sola natura dopo che il Verbo si è fatto carne».14 Né con minore energia il papa colpisce Nestorio, che nell'errore va all'eccesso contrario: «In forza di quest'unità di persona da ammettersi nelle due nature, si legge che il Figlio dell'uomo è disceso dal cielo, quando il Figlio di Dio assume la carne dalla Vergine, dalla quale è nato. E ancora si dice che il Figlio di Dio è stato crocifisso e sepolto, mentre egli ha sofferto queste cose non nella divinità stessa, per la quale l'Unigenito è coeterno e consostanziale al Padre, ma nella sua debole natura umana. Sicché tutti professiamo anche nel Simbolo che l'unigenito Figlio di Dio è stato crocifisso e sepolto».15

23. Oltre la distinzione delle due nature in Cristo, vien qui rivendicata con molta chiarezza anche la distinzione delle proprietà e delle operazioni dell'una e dell'altra natura: «Salva dunque - egli dice - la proprietà dell'una e dell'altra natura, confluenti nell'unica persona, è stata assunta l'umiltà dalla maestà, la debolezza dalla forza, la mortalità dall'eternità».16 E ancora: «L'una e l'altra natura conservano senza minorazione la loro proprietà».17

24. Ma la duplice serie di quelle proprietà e operazioni si attribuisce all'unica persona del Verbo, perché «Uno ... e il medesimo è veramente Figlio di Dio e veramente Figlio dell'uomo».18 per cui: «Operano dunque l'una e l'altra natura con mutua comunione ciò che loro è proprio, cioè il Verbo opera ciò che è proprio del Verbo e la carne esegue ciò che è proprio della carne».19 Qui appare la ben nota comunicazione degli idiomi, come si suol dire, che Cirillo giustamente difese contro Nestorio, appoggiandosi al solito principio che le due nature di Cristo sussistono nell'unica persona del Verbo, del Verbo cioè generato dal Padre prima di tutti i secoli, secondo la divinità, è nato da Maria nel tempo, secondo l'umanità.

25. Questa profonda dottrina, attinta dal Vangelo, senza sconfessare ciò che era stato definito nel concilio Efesino, condanna Eutiche, mentre non risparmia Nestorio; e con essa concorda perfettamente la definizione dogmatica del concilio Calcedonese, la quale parimenti afferma con chiarezza ed energia due distinte nature e una persona in Cristo con queste parole: «Il santo, grande e universale sinodo condanna (quelli) che fantasticano di due nature del Signore prima dell'unione, e ne immaginano una dopo l'unione. Noi dunque, sulle orme dei santi padri, insegniamo in pieno accordo a confessare un solo e medesimo Figlio e Signore nostro Gesù Cristo; il medesimo perfetto nella divinità e perfetto nell'umanità, Dio vero e uomo vero, fatto di anima razionale e di corpo, consostanziale al Padre secondo la divinità, consostanziale a noi secondo l'umanità, simile a noi in tutto fuorché nel peccato; generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità, da Maria Vergine genitrice di Dio, secondo l'umanità, negli ultimi tempi, per noi e per la nostra salvezza; un solo e medesimo Cristo, Figlio, Signore, Unigenito da riconoscersi in due nature senza confusione, senza separazione, in nessun modo tolta la differenza delle nature per ragione dell'unione, e anzi salva la proprietà dell'una e dell'altra natura concorrenti in una sola persona e sussistenza: non in due persone scisso o diviso, ma un solo e medesimo Figlio e Unigenito Dio Verbo, Signore Gesù Cristo».20

26. Se si domanda per qual motivo il linguaggio del concilio di Calcedonia si distingua per chiarezza ed efficacia nell'impugnare l'errore, crediamo dipenda dal fatto che, messa da parte ogni ambiguità, si adoperano termini molto appropriati. Difatti, nella definizione calcedonese, alle voci persona e ipostasi (prósôpon e ypóstasis) si attribuisce uguale significato; invece al termine natura (fýsis) si un senso diverso, né mai il significato di esso è attribuito ai due primi.

27. Pertanto a torto pensavano una volta nestoriani ed eutichiani e oggi vanno dicendo alcuni storici, che il concilio di Calcedonia ha corretto ciò che si era definito nel concilio di Efeso. L'uno completa l'altro; la sintesi poi armonica della dottrina cristologica fondamentale appare definitiva nel secondo e nel terzo concilio di Costantinopoli.

28. È veramente doloroso che alcuni antichi avversari del concilio Calcedonese, detti anch'essi monofisiti, abbiano respinto una fede così pura, così sincera e integra, a causa di alcune espressioni di antichi mal comprese. Difatti, sebbene essi fossero avversi ad Eutiche, che parlava assurdamente di mescolanza delle nature di Cristo, pure si attaccarono tenacemente alla nota formula: «Una è la natura del Verbo incarnata», di cui si era servito san Cirillo Alessandrino, come se fosse di sant'Atanasio, ma in senso ortodosso, perché egli intendeva la natura nel significato di persona. I padri di Calcedonia però avevano eliminato ogni equivoco e ogni incertezza da quei termini: giacché essi, equiparando la terminologia trinitaria a quella cristologica, identificarono la natura e l'essenza (ousía) da una parte e la persona e l'ipostasi dall'altra, distinguendo bene tra loro le due coppie di termini, mentre i suddetti dissidenti identificarono con la persona la natura, ma non l'essenza. Si deve perciò dire, secondo il linguaggio comune e chiaro, che in Dio c'è una natura e tre persone, ma in Cristo c'è una persona e due nature.

29. Per il motivo qui addotto accade che ancora oggi alcuni gruppi di dissidenti sparsi in Egitto, in Etiopia, in Siria, in Armenia e altrove, nel formulare la dottrina dell'incarnazione del Signore sembrano deviare dal retto sentiero piuttosto con le parole; il che si può arguire dai loro documenti liturgici e teologici.

30. Del resto già nel secolo XII, un uomo, che presso gli armeni godeva di grande autorità, confessava candidamente il suo pensiero intorno a questa materia: «Noi diciamo che Cristo è una natura non per via di confusione, alla maniera di Eutiche, né di mutilazione, come voleva Apollinare, ma secondo la mente di Cirillo Alessandrino, il quale nel libro Scholia adversus Nestorium dice: Una è la natura del Verbo incarnato, come hanno insegnato i padri. ... E noi pure l'abbiamo appreso dalla tradizione dei santi, non introducendo nell'unione di Cristo confusione o mutazione o alterazione secondo il pensiero degli eterodossi, asserendo una natura, ma nel senso d'ipostasi, che voi stessi ponete in Cristo; il che è giusto e noi lo riconosciamo, ed equivale perfettamente alla nostra formula "Una natura...". Né ricusiamo di dire "due nature" purché non s'intenda per via di divisione come vuole Nestorio, ma si mantenga chiara l'inconfusione contro Eutiche e Apollinare».21

31. Se il gaudio e la santa letizia toccano l'apice quando si realizza la parola del salmo: «Ecco come è bello e giocondo che i fratelli si trovino insieme uniti» (Sal 132,1); se la gloria di Dio allora specialmente risplende congiunta all'utilità di tutti quando la piena verità e la piena carità legano insieme le pecorelle di Cristo, vedano coloro che con amore e dolore abbiamo qui sopra ricordato, se sia lecito e utile tenersi ancora lontano, specialmente per un iniziale equivoco di parole, dalla chiesa una e santa, fondata sugli zaffiri (cf. Is 54,11) cioè sui profeti e gli apostoli, sulla stessa pietra angolare somma, Gesù Cristo (cf. Ef 2,20).

32. È del tutto contraria anche alla definizione di fede del concilio di Calcedonia l'opinione, assai diffusa fuori del cattolicesimo, poggiata su un passo dell'epistola di Paolo apostolo ai Filippesi (Fil 2,7), malamente e arbitrariamente interpretato: la dottrina chiamata kenotica, secondo la quale in Cristo si ammette una limitazione della divinità del Verbo; un'invenzione veramente strana che, degna di riprovazione come l'opposto errore del docetismo, riduce tutto il mistero dell'incarnazione e redenzione a ombre evanescenti. «Nell'integra e perfetta natura di vero uomo così insegna eloquentemente Leone Magno, è nato il vero Dio, intero nelle sue proprietà, intero nelle nostre».22

33. Sebbene nulla vieti di scrutare più a fondo l'umanità di Cristo, anche sotto l'aspetto psicologico, tuttavia nell'arduo campo di tali studi non mancano coloro che abbandonano più del giusto le posizioni antiche per costruirne delle nuove, e si servono a torto dell'autorità e della definizione del concilio Calcedonese per sorreggere le proprie elucubrazioni.

34. Costoro spingono tanto innanzi lo stato e la condizione della natura umana di Cristo da sembrare che essa sia ritenuta un soggetto autonomo, come se non sussistesse nella persona dello stesso Verbo. Ma il concilio Calcedonese, in tutto concorde con quello Efesino, afferma chiaramente che le due nature del nostro Redentore convergono «in una sola persona e sussistenza» e proibisce di ammettere in Cristo due individui, di maniera che accanto al Verbo sia posto un certo «uomo assunto», dotato di piena autonomia.

35. San Leone, poi, non solo tiene la stessa dottrina, ma indica e dimostra anche la fonte da cui attinge questi puri principi: «Tutto ciò - egli dice - che da noi è stato scritto si prova che è stato preso dalla dottrina apostolica ed evangelica».23

36. Difatti la chiesa fin dai primi tempi, sia nei documenti scritti, sia nella predicazione, sia nelle preci liturgiche, professa in modo chiaro e preciso che l'unigenito Figlio di Dio, consostanziale al Padre, nostro Signore Gesù Cristo, Verbo incarnato è nato sulla terra, ha patito, è stato confitto in croce e, dopo essere risorto dal sepolcro, è asceso al cielo. Inoltre la sacra Scrittura attribuisce all'unico Cristo, Figlio di Dio, proprietà umane, e al medesimo, Figlio dell'Uomo, proprietà divine.

37. Difatti l'evangelista Giovanni dichiara: «Il Verbo si fece carne» (Gv 1,14); Paolo poi scrive di lui: «Il quale, già sussistente nella natura di Dio ... si è umiliato, fatto obbediente fino alla morte» (Fil 2,6-8); oppure: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il Figlio suo fatto da donna» (Gal 4,4); e lo stesso divino Redentore afferma in modo perentorio: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30); e ancora: «Sono uscito dal Padre e son venuto nel mondo» (Gv 16,28). L'origine celeste del nostro Redentore risplende anche in questo testo del Vangelo: «Son disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 6,38). E da quest'altro: «Colui che discende, è quello stesso che ascende sopra tutti i cieli» (Ef 4,10). Affermazione che san Tommaso d'Aquino così commenta e illustra: «Chi discende è quegli stesso che ascende. Nel che è designata l'unità della persona del Dio uomo. Discende infatti ... il Figlio di Dio assumendo la natura umana, ma ascende il Figlio dell'uomo secondo l'umana natura alla sublimità della vita immortale. E così lo stesso è il Figlio di Dio, che discende, e il Figlio dell'uomo che ascende».24

38. Questo stesso concetto già l'aveva felicemente espresso il Nostro predecessore Leone Magno con queste parole: «Poiché alla giustificazione degli uomini questo principalmente contribuisce, che l'Unigenito di Dio si è degnato di essere anche il Figlio dell'uomo in maniera che quello stesso che è Dio, homooúsios al Padre, ossia della stessa sostanza del Padre, fosse anche vero uomo e consostanziale alla Madre secondo la carne; noi godiamo dell'uno e dell'altro giacché non ci salviamo che in virtù di ambedue, non dividendo affatto il visibile dall'invisibile, il corporeo dall'incorporeo, il passibile dall'impassibile, il palpabile dall'impalpabile, la forma del servo dalla forma di Dio; perché, sebbene uno sussista fin dall'eternità e l'altro sia cominciato nel tempo, tuttavia, essendo convenuti nell'unione, non possono più avere né separazionefine».25

39. Solo dunque se con santa e pura fede si crede che in Cristo non c'è altra persona che quella del Verbo, in cui confluiscono le due nature, l'umana e la divina, del tutto distinte fra di loro, diverse per proprietà e operazioni, appaiono la magnificenza e la pietà della nostra redenzione, mai abbastanza esaltata.

40. O sublimità della misericordia e della giustizia divina, che portò soccorso ai colpevoli e si procurò dei figli! O cieli curvati in basso affinché, allontanate le brume invernali, apparissero i fiori sulla nostra terra (cf. Ct 2,11s) e noi diventassimo uomini nuovi, nuova creatura, nuova fattura, gente santa e prole celeste! Il Verbo ha veramente patito nella sua carne, ha sparso il suo sangue sulla croce e all'eterno Padre ha pagato un sovrabbondante prezzo di soddisfazione per le nostre colpe; onde avviene che risplende sicura la speranza di salvezza a coloro che con fede sincera e con carità operosa aderiscono a Cristo e, con l'aiuto della grazia da lui procurata, producono frutti di giustizia.




11 MANSI, VII, 10.



12 SCHWARTZ, II, vol. I, pars altera, p. 81 [277] (Act; III); MANSI, VI, 971 (Act. II).



13 S. LEO M., Ep. 28, 6: PL 54, 777



14 Ibid.



15 S. LEO M., Ep. 28, 5: PL 54, 771; cf. S. AUGUSTINUS, Contra sermonem Arianorum, c. 8: PL 42, 688.



16 S. LEO M., Ep. 28, 3: PL 54, 763; cf. S. LEO M., Serm. 21, 2: PL 54,192



17 S. LEO M., Ep. 28, 3: PL 54, 765; cf. Serm. 23, 2: PL 54, 201:



18 S. LEO M., Ep. 28, 4: PL 54, 767.



19 Ibid.



20 MANSI, VII, 114 et 115.



21 Ita NERSES IV ( 1173) in Libello confessionis fidei, ad Manuelem Com nenum imperatorem byzantinum: I. CAPPELLETTI, S. Narsetis Claiensis, Armeno rum Catholici, opera, I, Venetiis 1833, pp. 182-183.



22 S. LEO M., Ep. 28, 3: PL 54, 763; cf. Serm. 23, 2: PL 54, 201.



23 S. LEO M., Ep. 152: PL 54, 1123.



24 S. THOMAS AQ., Comm. in Ep. ad Ephesios, c. IV, lect. III, circa finem



25 S. LEO M., Serm. 30, 6: PL 54, 233s.






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