Secondo Racconto
Signore… Gesù… Cristo…
A lungo
ho viaggiato per ogni sorta di paesi, accompagnato dalla preghiera di
Gesù, che mi dava forza e consolazione in tutti i miei viaggi, in ogni
occasione e in ogni incontro. Alla fine mi parve che avrei fatto bene a
fermarmi in qualche luogo per trovare una solitudine più piena e
studiare la Filocalia, che fino allora avevo potuto leggere solo di
sera, quando mi fermavo, o durante la siesta di mezzogiorno. Avevo un desiderio
ardente di immergermi a lungo in quella lettura per attingervi con fede la
dottrina vera della salvezza dell’anima con la preghiera del cuore. Purtroppo, per soddisfare il mio
desiderio, non potevo impegnarmi in alcun lavoro manuale, perché fin
dalla prima infanzia avevo perduto l’uso del braccio sinistro; così,
nell’impossibilità di fissarmi in qualche luogo, mi diressi verso i
paesi della Siberia, verso sant’Innocente d’Irkutsk pensando che, attraverso le
pianure e le foreste della Siberia, avrei trovato un grande silenzio e mi sarei
potuto dedicare con più agio alla lettura e alla preghiera. Mi misi in
viaggio recitando senza posa la preghiera.
Dopo un po’ di tempo sentii che la preghiera scorreva da sola nel mio
cuore, o meglio, il mio cuore, battendo regolarmente, si metteva in certo qual
modo a recitare da sé le parole sante a ogni battito; per esempio, 1:
Signore, 2: Gesù, 3: Cristo, e via dicendo. Cessai di muovere le labbra
e ascoltai attentamente quel che diceva il mio cuore, ricordandomi quanto fosse
piacevole, secondo le parole dello starets defunto. Poi avvertii un
lieve dolore al cuore e nello spirito un amore così grande per Gesù
Cristo che, se l’avessi veduto, mi sarei gettato ai suoi piedi, li avrei
stretti, baciati e bagnati di lacrime, ringraziandolo per la consolazione che
egli ci dà con il suo nome, nella sua bontà e nel suo amore per
la sua creatura colpevole e indegna. Si accese presto nel mio cuore un confortevole calore che si diffuse in
tutto il petto. Questo mi portò in particolare a un’attenta lettura
della Filocalia per verificare in essa queste mie sensazioni e studiare
così lo sviluppo della preghiera interiore del cuore; senza questo
controllo avrei avuto paura di cadere nell’illusione, di scambiare le azioni
della natura per quelle della grazia e di inorgoglirmi così per quella
rapida conquista della preghiera, come mi aveva ben spiegato il mio starets
defunto. Per questo camminavo soprattutto durante la notte e passavo la
giornata a leggere la Filocalia seduto nei boschi sotto gli alberi.
Quante cose nuove, profonde e ignorate scoprii con quella lettura! In quella
occupazione gustai una beatitudine più perfetta di quanto mai avessi
potuto immaginare fino a quel momento. Senza dubbio, alcuni passi rimanevano
incomprensibili al mio spirito limitato, ma gli effetti della preghiera del
cuore illuminavano quello che non riuscivo a comprendere; per di più,
vedevo talvolta in sogno il mio starets defunto che mi spiegava molte
difficoltà e piegava sempre di più la mia anima verso
l’umiltà. Trascorsi i due mesi della piena estate in questa perfetta
felicità. Passavo specialmente per i boschi e per i viottoli di campagna;
quando arrivavo a un villaggio, domandavo un sacco di pane, un pugno di sale e
riempivo d’acqua la mia borraccia, quindi ripartivo per altre cento verste.
Certamente
per causa dei peccati commessi dalla mia anima incallita, o per il progresso
della mia vita spirituale, verso la fine dell’estate si fecero sentire le
tentazioni. Ecco come avvenne. Una sera che ero sbucato sulla via principale,
incontrai due uomini che avevano un berretto militare sul capo; mi chiesero del
denaro. Quando io risposi loro che non avevo un centesimo, non mi vollero
credere e gridarono con violenza: – Non raccontarci storie; i pellegrini
mettono sempre via un mucchio di soldi! Uno dei due aggiunse: – È
inutile perder tempo a parlare! E mi colpì sul capo con il suo bastone:
io ruzzolai per terra svenuto. Non so se rimasi così molto tempo, ma
quando tornai in me, vidi che ero nel bosco vicino alla strada; ero tutto
strappato e il mio sacco era scomparso; non c’erano più che i capi delle
due cordicelle con le quali lo tenevo. Grazie a Dio, non mi avevano rubato il
passaporto, che io serbavo nel mio vecchio berretto per poterlo esibire in
fretta quando ce n’era bisogno. Rimesso in piedi, piansi amaramente non tanto
per il dolore al capo, quanto piuttosto per i miei libri, la Bibbia e la mia Filocalia,
che erano nel sacco rubato. Tutto il giorno, tutta la notte mi rammaricai e
piansi. Dov’è finita la mia Bibbia, che leggevo da quando ero bambino e
che avevo sempre portata con me? Dov’è la mia Filocalia, dalla
quale traevo insegnamento e conforto? Infelice, ho perduto l’unico tesoro della
mia vita, prima di essermene saziato fino in fondo. Sarebbe stato meglio morire
che vivere così, senza nutrimento spirituale. Non li potrò mai
comperare di nuovo. Per due giorni potei a malapena camminare tanto ero
afflitto; il terzo giorno mi lasciai cadere stremato di forze presso un
cespuglio e mi addormentai. Ecco che in sogno mi vedo nella cella del mio starets
e gli racconto in lacrime la mia pena. Lo starets mi consola e mi dice:
– Sia questa per te una lezione di distacco dalle cose terrene per andare
più liberamente verso il cielo. Questa prova ti è stata mandata
affinché tu non cada nella voluttà spirituale. Dio vuole che il
cristiano rinunci alla sua volontà e a ogni attaccamento ad essa, al
fine di affidarsi completamente alla volontà divina. Tutto quello che
egli fa è per il bene e la salvezza dell’uomo. Egli vuole che tutti
siano salvi (1Tm 2,4). Fatti animo, e credi che con la tentazione il Signore procurerà
anche la via d’uscita (1Cor 10,13). Quanto prima tu riceverai una
consolazione più grande di tutto il tuo dolore. A queste parole mi
svegliai, sentii nel mio corpo delle forze nuove e nell’anima quasi un’aurora e
una calma nuova. – Sia fatta la volontà del Signore! – dissi. Mi alzai, mi
feci il segno della croce e partii. La preghiera agiva di nuovo nel mio cuore come un tempo e per tre
giorni camminai serenamente. A un tratto incontro per la via una colonna di
forzati, che venivano condotti con la scorta. Quando mi furono vicini,
riconobbi tra loro i due che mi avevano derubato e, dato che camminavano a un
lato della colonna, mi gettai ai loro piedi e li supplicai di dirmi dove erano
i miei libri. In un primo momento essi finsero di non riconoscermi, poi uno di
loro disse: – Se ci dai qualche cosa, ti diremo dove sono i tuoi libri.
Vogliamo un rublo d’argento. Giurai che glielo avrei dato senz’altro, a costo
di mendicare per metterlo insieme. – Prendete il mio passaporto, tenetelo come
pegno. Mi dissero che i miei libri erano nei carri, insieme con gli altri
oggetti rubati che avevano dovuto consegnare.
– Come posso
fare per riaverli?
– Chiedili
al capitano della scorta. Corsi dal capitano e gli spiegai la cosa in tutti i
particolari. Così, parlando, egli mi chiese se sapevo leggere la Bibbia.
– So leggere, non solo, ma anche scrivere; sulla Bibbia troverete una scritta
di mio pugno, che prova che quel libro è mio; ed ecco qua sul passaporto
il mio nome e il mio cognome. Il capitano mi disse: – Questi briganti sono dei disertori,
vivevano in una capanna e depredavano i passanti. Un vetturino in gamba ieri li
ha arrestati, mentre quelli cercavano di portargli via la troika. Non chiedo di
meglio che di restituirti i tuoi liberi, se sono là dove ti hanno detto;
ma bisogna che tu venga con noi fino alla prossima tappa; è solo a
quattro verste di qui, non posso fermare tutto il convoglio per causa tua.
Camminavo tutto lieto a fianco de cavallo del capitano e parlavo con lui. Vidi
che era un brav’uomo e non più tanto giovane. Mi domando chi ero, da
dove venivo e dove andavo. Gli risposi in tutta verità; e così
arrivammo al luogo di tappa. Il capitano andò a cercare i miei libri e
me li rese dicendo: – Dove vuoi andare, ora? È notte ormai. Ti conviene restare con noi. Rimasi.
Ero così felice di aver ritrovato i miei libri che non sapevo come
ringrazia Dio; li strinsi al mio cuore fino ad averne i crampi alle braccia.
Lacrime di gioia inondavano i miei occhi e il cuore mi batteva di un palpito di
gioia. Il capitano disse guardandomi: – Si vede che ti piace leggere la Bibbia!
Nella mia gioia non riuscii a rispondere una sillaba. Non facevo che piangere.
Il capitano continuò: – Anch’io, fratello, leggo ogni giorno con
attenzione il Vangelo di Kiev che è rilegato in argento. Siediti qui, ti
racconterò come mai ho preso quest’abitudine. Olà! Portateci la
cena!
Ci sedemmo a tavola. Il capitano cominciò il suo racconto:
– Dalla mia giovinezza in poi ho sempre servito nell’esercito e mai nella
guarnigione. Conoscevo bene il servizio e i miei capi mi consideravano un
soldato modello. Ma ero molto giovane e altrettanto giovani erano i miei amici;
per mia disgrazia, imparai a bere e mi abbandonai a tal punto a questo piacere
che finii per ammalarmi. Quando non bevevo, ero un ottimo ufficiale, ma anche
una sola goccia di alcool voleva dire sei settimane di letto. Mi sopportarono
un bel po’, ma alla fine, avendo io insultato un capo dopo aver bevuto, fui
degradato e condannato a prestar servizio tre anni in guarnigione; se non
avessi rinunciato a quel vizio, mi minacciavano pene anche più severe.
In quella misera situazione ebbi un bel cercare di frenarmi, di farmi curare,
non potei liberarmi dalla passione del bere, e fu deciso allora di inviarmi al
battaglione di disciplina. Quando ne fui informato, mi abbandonai alla
disperazione. Un giorno che ero seduto nella camera e ruminavo queste cose,
ecco che viene un monaco a questuare per una chiesa. Ognuno dava quel che
poteva. Arrivato vicino a me, mi chiese: "Perché sei così
triste?" Parlai un po’ con lui e gli raccontai le mie disavventure. Il
monaco mostrò molta comprensione per i miei guai e mi disse: "A mio
fratello è successo lo stesso, e se l’è cavata in questo modo. Il
suo padre spirituale gli diede un Vangelo e gli ordinò di leggere un
capitolo ogni volta che avesse s desiderio di bere; e se il desiderio tornava,
doveva leggere il capitolo successivo. Mio fratello mise in pratica il
consiglio e di lì a qualche tempo la passione di bere cessò. Da
quindici anni non assaggia una bevanda alcolica. Fa’ lo steso e ne proverai il
beneficio anche tu. Ho un Vangelo, se vuoi te lo porterò". A queste
parole gli dissi: "Cosa vuoi che faccia il tuo Vangelo, se i miei sforzi e
i mezzi medici non sono serviti a nulla?" (parlavo così
perché non avevo mai letto il Vangelo). "Non parlare così –
replicò il monaco – ti assicuro che ne ricaverai un bene".
L’indomani infatti il monaco mi portò questo Vangelo che ora vedi. Lo
aprii, lo guardai, lessi qualche frase e dissi: "Non lo voglio, non ci
capisco nulla; non ho l’abitudine di leggere i caratteri dei libri di
chiesa". Il monaco continuò a persuadermi dicendo che nelle parole
del Vangelo c’è una forza benefica, perché sono parole che Dio
stesso ha pronunciato. "Non importa se non capisci nulla, basta che tu
legga con attenzione. Un santo ha detto: "Se tu non capisci la parola
di Dio, i diavoli però capiscono quel che tu leggi e tremano (cfr. Gc
2,19), e certamente il desiderio di bere è pure l’opera dei
demòni. E ti dico anche questo: Giovanni Crisostomo scrive che anche il
posto in cui viene tenuto il Vangelo sgomenta gli spiriti delle tenebre e serve
di ostacolo ai loro complotti". Ora non ricordo bene; mi pare di aver dato
qualcosa a quel monaco; presi il suo Vangelo e lo ficcai in un baule con le cose
mie, ma ben presto lo dimenticai completamente. Qualche tempo dopo giunse il
momento di bere; morivo dalla voglia e aprii il mio baule per prendere il
denaro e correre alla mescita. Mi cadde sotto l’occhio il Vangelo, e mi
tornò in mente immediatamente tutto quello che il monaco mi aveva detto.
Lo aprii e cominciai a leggere il primo capitolo di Matteo. Lessi fino in
fondo, senza capirci nulla. Ma mi ricordai quello che aveva detto il monaco:
non importa se non capisci, basta che tu lo legga con attenzione. Bene – dissi
tra me – leggiamone un altro capitolo. La lettura mi sembrò più chiara. Ecco già il terzo: non l’avevo
cominciato che squillò il segnale della ritirata. Non c’era più
modo di uscire dalla caserma, e rimasi senza bere. Il mattino dopo, mentre stavo
per uscire a cercare un po’ d’acquavite, mi dissi: e se leggessi un altro
capitolo del Vangelo? Stiamo un po’ a vedere. Lessi e non mi mossi di
là. Un’altra volta ancora mi venne voglia di bere dell’alcool, ma mi
misi a leggere e mi sentii rinfrancato. Ne fui tutto riconfortato, e a ogni
richiamo del mio vizio, mi precipitavo su un capitolo del Vangelo. Più
il tempo passava e meglio andavano le cose. Quando ebbi finito i quattro
Vangeli, la mia passione per il vino era completamente scomparsa; ero diventato
di sasso a tal riguardo. Ed ecco, da più di vent’anni non assaggio
più una bevanda alcolica. Tutti furono stupiti del mio mutamento. In capo a tre anni fui riammesso nel
corpo ufficiali, percorsi i gradi successivi e divenni capitano. Presi moglie,
capitai in una bravissima donna; abbiamo messo da parte qualcosa e ora, grazie
a Dio, le cose vanno benino; aiutiamo i poveri come possiamo e ospitiamo i
pellegrini. Ho un figlio che è già ufficiale, un gran bravo
ragazzo. Ebbene vedi, dopo la mia guarigione, mi sono ripromesso di leggere
ogni giorno, per tutta la mia vita, uno dei quattro Vangeli per intero, e non
c’è ostacolo che valga. Quando sono carico di lavoro e mi sen spossato,
mi corico e prego mia moglie o mio figlio di leggere il Vangelo accanto a me,
così non vengo meno al mio impegno. In testimonianza di riconoscenza e
per la gloria di Dio, ho fatto rilegare il Vangelo in argento massiccio e lo
porto sempre sul mio petto. Ascoltai con vivo piacere i propositi del capitano
e gli dissi: – Ho conosciuto un caso analogo al vostro; nel mio villaggio, alla
fabbrica, c’era un bravissimo operaio che sapeva molto bene il suo mestiere; ma
per sua disgrazia gli piaceva bere, e spesso. Un uomo devoto gli
consigliò, ogni qualvolta avesse voglia di acquavite, di recitare
trentatré preghiere di Gesù in onore della santissima
Trinità e degli anni di vita terrena di Gesù. Egli
eseguì il consiglio e smise di bere. E non è tutto; dopo tre
anni, entrò in un monastero. – E che cosa vale di più, la
preghiera di Gesù o il Vangelo? Chiese il capitano. – È una cosa sola, risposi. Il Vangelo
è come la preghiera di Gesù, perché il nome divino di
Gesù Cristo racchiude in sé tutte le verità evangeliche. I
Padri dicono che la preghiera di Gesù è la sintesi di tutto il
Vangelo. Poi recitammo le preghiere; il capitano cominciò a leggere
dall’inizio il Vangelo secondo Marco e io lo ascoltai pregando entro il mio
cuore. Il capitano terminò la lettura alle due del mattino e ci andammo
a coricare. Secondo la mia abitudine, mi alzai presto il mattino; dormivano
tutti; l’alba spuntava allora e io mi immersi nella lettura della mia diletta Filocalia.
Con quale gioia l’apersi! Mi pareva di aver ritrovato un padre dopo una lunga
assenza o un amico risuscitato da morte. Baciai il libro e ringrazia Dio di
avermelo restituito; quindi cominciai a leggere Teolepto di Filadelfia nella
seconda parte della Filocalia. Fui meravigliato di vedere che egli
propone di dedicarsi contemporaneamente a tre ordini di attività: seduto
a tavola – egli dice – da’ nutrimento al tuo corpo, al tuo spirito la lettura e
al tuo cuore la preghiera. Ma il ricordo della benefica seta trascorsa mi
spiegò praticamente questo pensiero. Fu allora che compresi il mistero
della differenza tra il cuore e lo spirito. Quando il capitano si
svegliò, andai a ringraziarlo della sua bontà e a dirgli addio. Mi versò
il tè, mi diede un rublo d’argento e ci separammo. Io ripresi la mia via
di buonumore. Dopo la prima versta, mi ricordai che avevo promesso ai soldati
un rublo e ora possedevo proprio un rublo. Dovevo darglielo o no?
Da un lato – mi dicevo – essi ti hanno bastonato e derubato, e non possono
farti niente perché sono in arresto. Ma d’altro canto ricordati quel che
scrive la Bibbia: Se il tuo nemico ha fame dagli da mangiare (Rm 12,20),
e Cristo stesso ha detto: Amate i vostri nemici (Mt 5,44) e anche: Se
qualcuno vuole portarti via la tua veste, dagli anche il mantello (Mt
5,40). Così persuaso, tornai sui miei passi e giunsi alla stazione di
tappa proprio mentre il convoglio si stava rimettendo in marcia; corsi verso i
due malfattori e feci scivolare in mano a uno di loro il mio rublo, dicendo: –
Pregate e fate penitenza; Gesù Cristo è l’amico degli uomini. Non vi abbandonerà! Con queste
parole mi allontanai e ripresi la mia strada nell’opposta direzione.
Dopo
aver percorso una cinquantina di verste sulla strada principale, mi addentrai
per i viottoli di campagna più solitari e più adatti alla
lettura. Girovagai a lungo per i boschi; ogni tanto incontravo un piccolo
villaggio. Spesso mi fermavo tutta la giornata nella foresta a leggere la Filocalia;
vi attingevo insegnamenti stupendi e profondi. Il mio cuore era infiammato dal
desiderio di unirsi a Dio con la preghiera interiore, che mi sforzavo di
studiare e verificare nella Filocalia; nello stesso tempo ero afflitto
di non aver trovato un ricovero dove potermi dedicare alla lettura in pace e
senza interruzioni. In quel tempo leggevo anche la mia Bibbia e sentivo che
cominciavo a comprenderla meglio; non vi trovavo più tanti passi oscuri.
I Padri hanno ragione di dire che la Filocalia è la chiave che
scopre i misteri sepolti nella Scrittura. Sotto la sua guida cominciai a
comprendere il senso segreto della parola di Dio: scoprii che cosa significa l’uomo
interiore nel profondo del suo cuore (1Pt 3,4), la preghiera
vera, l’adorazione in spirito (Gv 4,23), il regno all’interno di
noi (Lc 17,21), l’intercessione dello Spirito Santo (Rm 8,26);
comprendevo il significato di queste parole: Voi siete in me (Gv 15,4),
dammi il tuo cuore (Pr 23,26) essere rivestito di
Cristo (Rm 13,14 e Gal 3,27), le nozze dello Spirito nei
nostri cuori (Ap 22,17), l’invocazione Abba Pater (Rm 8,15-16)
e molte altre. Quando nello stesso tempo io pregavo nel profondo del cuore,
tutto quello che mi circondava mi appariva sotto un aspetto meraviglioso:
alberi, erbe, uccelli, terra, aria, luce, tutto mi sembrava dirmi che essi
esistono per l’uomo, che attestano l’amore di Dio per l’uomo; tutto pregava,
tutto cantava gloria al Signore. Capivo così quel che la Filocalia
chiama "la conoscenza del linguaggio della creazione" e vedevo
com’è possibile conversare con le creature di Dio.
Feci così una lunghissima macia. Alla fine giunsi in una zona
così desolata che per tre giorni non riuscii a incontrare un villaggio.
Avevo finito il pane e mi chiedevo con inquietudine come non morire di fame. Ma
appena cominciai a pregare nel mio cuore, ogni preoccupazione sparì e mi
affidai alla volontà di Dio; divenni così lieto e tranquillo.
Avevo percorso un breve tratto della via che attraversava un’immensa foresta,
quando scorsi davanti a me un cane da guardia che sbucava da una macchia; lo
chiamai e quello venne, tutto festoso, a farsi carezzare. Mi rallegrai e dissi
tra me: è proprio un segno della bontà di Dio! Vi è certo
un gregge in questa foresta, ed è il cane del pastore, o forse un
cacciatore sta inseguendo per questa via la sua preda; in ogni modo, poteri
chiedere un po’ di pane, perché sono già due giorni che non
mangio, o informarmi se non sia un villaggio poco lontano. Il cane, dopo aver
gironzolato intorno a me, vedendo che non c’era nulla da mangiare,
scappò nel folto per lo stesso viottolo dal quale era sbucato sulla via.
Lo seguii; dopo un duecento metri, scorsi tra gli alberi il cane che da una
tana sporgeva solo il muso e abbaiava. Vidi avvicinarsi tra gli alberi un
contadino magro e pallido, di mezza età. Mi chiese come fossi arrivato
fin là. Io a mia volta gli domandai che cosa facesse lui in un luogo
così desolato; e scambiammo così qualche frase amichevole. Il
contadino mi pregò di entrare nella sua capanna e mi spiegò che
era guardiaboschi e sorvegliava la foresta che doveva essere tutta tagliata. Mi
offrì pane e sale, e la conversazione si fece serrata. – Io invidio la
vita solitaria che conduci – gli dissi –, non è come la mia, sempre
errante e a contatto con tutti. – Se vuoi – mi disse – puoi vivere benissimo
qui; c’è poco lontano una vecchia capanna che era servita alla guardia
forestale di prima. È un po’ malconcia, ma per l’estate uno può
arrangiarsi alla meglio. Hai un passaporto. C’è pane abbastanza per due;
me ne portano ogni settimana dal nostro villaggio, e il ruscello qui accanto
non manca mai d’acqua. Quanto a me, fratello, sono dieci anni che non mangio
altro che pane e non bevo altro che acqua. Solo in autunno, quando i lavori dei
campi saranno finiti, verranno qui duecento uomini per il taglio della foresta;
io non avrò più nulla da fare qui, e non sarà nemmeno a te
di rimanere. A queste parole mi invase una gioia così grande che per
poco non mi gettai ai suoi piedi. Non sapevo come ringraziare Dio della sua
bontà verso di me. Tutto quello che desideravo e per cui mi affannavo
l’avevo improvvisamente raggiunto. Prima della metà dell’autunno c’erano
ancora due mesi, e durante quel periodo potevo approfittare del silenzio e
della pace per studiare con l’aiuto della Filocalia la preghiera
perpetua nell’intimo del cuore. Così decisi di accomodarmi alla meglio
nella capanna. Continuammo a parlare, e quell’uomo semplice mi raccontò
la sua vita e le sue idee. – Nel mio villaggio – disse – non ero mica l’ultimo
arrivato; avevo un mestiere, tingevo i tessuti in rosso e blù; vivevo
benino, ma da peccatore: ingannavo volentieri i miei clienti e bestemmiavo a
ogni occasione; ero volgare, ubriacone e attaccabrighe. In quel villaggio c’era
un cantastorie che possedeva un libro vecchio sul Giudizio finale e spesso egli
andava per le case dei fedeli ortodossi a leggerne dei passi, e gli si dava un
po’ di denaro. Veniva anche da me. Di solito gli si dava cinque soldi e quello
rimaneva a leggere fino al canto del gallo. Una volta che, pur prestando
orecchio alla lettura, io stavo lavorando, egli lesse un passo sui tormenti
dell’inferno e sulla risurrezione dei morti, come Dio verrà a giudicare,
come gli Angeli faranno squillare le trombe, e il fuoco e la pece che vi
saranno, e i vermi che divoreranno i peccatori. A un tratto provai uno spavento
terribile, e mi dissi: "Io non me la cavo, no certo! Questi tormenti sono
anche per me. Qua è meglio che mi metta a salvare l’anima mia e forse
riuscirò a farmi perdonare i miei peccati". Ci pensai su a lungo e
alla fine decisi di abbandonare il mio mestiere; vendetti casa e bottega, e dal
momento che non avevo famiglia, divenni guardaboschi, non chiedendo per salario
che il pane, qualcosa per coprirmi e qualche cero da accendere durante la
preghiera. Sono qui ormai da più di dieci anni. Non mangio che una volta
al giorno e mi accontento di pane e acqua. Ogni notte mi alzo al canto del
gallo e fino alle prime luci del giorno faccio le mie genuflessioni e i miei
inchini fino a terra; quando prego; accendo sette ceri davanti all’icona. Di
giorno, quando percorro la foresta, porto sulla pelle delle catene di settanta
libbre. Non bestemmio, non bevo birra né alcool, non litigo con alcuno;
delle donne ho sempre fatto a meno. All’inizio ero piuttosto contento di vivere
così, ma a lungo andare per forza sono assalito da considerazioni che
non posso mandar via. Dio solo sa se io riscatterò i miei peccati, ma intanto
questa vita è proprio dura. E poi, è vero quello che il libro
racconta? Come fa l’uomo a risuscitare? Quelli che sono morti da cent’anni e
più sono polvere ed è sparita anche quella. E poi, ci sarà
o non ci sarà un inferno? In ogni caso, nessuno è mai tornato
dall’altro mondo; quando l’uomo muore, si putrefà e non ne rimangono
più tracce. Questo libro forse l’hanno scritto i preti per far paura a
noi ignoranti, e per tenerci più sottomessi. Così si vive male,
senza un po’ di consolazione su questa terra, e poi nell’altro mondo non
troveremo nulla! Allora ne vale proprio la pena? Non è meglio avere un
bel po’ di tempo subito? Queste idee non mi danno pace – aggiunse – e ho paura
di dover riprendere il mio vecchio mestiere. Ero pieno di pietà per lui
e mi dicevo: "Si dice che solo i sapienti e gli intellettuali diventano
liberi pensatori e non credono più a nulla, ma i nostri fratelli, i
semplici contadini, sanno fabbricarsi da sé una bella
incredulità! Certamente il mondo delle tenebre fa presa su tutti e forse
più facilmente ancora sui semplici. Bisogna ragionare fin dove è
possibile e fortificarsi contro il nemico con la parola di Dio".
Così per sostenere un poco il fratello e rinsaldare la sua fede, trassi
dal sacco la Filocalia e l’aprii al capitolo 109 del beato Esichio.
Glielo lessi, e spiegai che non ci si astiene dal peccare solo per timore del
castigo, perché l’anima non può liberarsi dai pensieri colpevoli
che con la vigilanza dello spirito e la purità del cuore. Tutto si acquista
con la preghiera interiore. Se qualcuno si mette sulla via dell’ascetica, non
solo per timore dei tormenti dell’inferno ma anche per desiderio del Regno
celeste – aggiunsi – i Padri paragonano la sua azione a quella di un
mercenario. Ma Dio vuole che noi veniamo a Lui come figli, vuole che l’amore e
lo zelo ci spingano a comportarci in modo degno e che godiamo dell’unione
perfetta con Lui nell’anima e nel cuore. Puoi fare quel che vuoi; logorarti,
importi le prove e le penitenze fisiche più dure, ma se non hai Dio
sempre nello spirito e la preghiera di Gesu nel cuore, non sarai mai al riparo
dai cattivi pensieri; sarai sempre pronto a peccare alla prima occasione.
Mettiti dunque, fratello, a recitare senza posa la preghiera di Gesù; ti
sarà facile farlo in questa solitudine; ti accorgerai presto del suo
benefico effetto. Le idee empie spariranno, la fede e l’amore per Gesù
Cristo si riveleranno a te; capirai come i morti possono risuscitare e il
Giudizio ultimo ti apparirà quello che realmente è. E nel tuo
cuore ci sarà tanta leggerezza e tata gioia che ne sarai meravigliato;
non ti sentirai più stanco o turbato per la tua vita di penitenza! Gli
spiegai poi come meglio potevo il modo di recitare la preghiera di Gesù,
secondo il comandamento divino e gli insegnamenti dei Padri. Il guardaboschi
non chiedeva di meglio e la sua inquietudine diminuì. Allora,
congedandomi da lui, entrati nella vecchia capanna che mi aveva indicata.
Lavori spirituali
Mio
Dio, che gioia, che consolazione, che rapimento provai nel varcare la soglia di
quel ricovero, o per meglio dire, di quella tomba; mi apparve come un magnifico
palazzo pieno di letizia e mi dissi: bene, ora in questa calma e in questa pace
bisogna lavorare seriamente e pregare il Signore di illuminare la mia mente.
Così
cominciai a leggere la Filocalia dal principio alla fine con grande
attenzione. Dopo un certo tempo, terminata la lettura, mi resi conto della
saggezza, della santità e della profondità di quel libro. Ma dato
che vi erano trattati argomenti diversi, non potevo capire tutto, né
raccogliere le forze del mio spirito sul solo insegnamento della preghiera
interiore per arrivare alla preghiera spontanea e perpetua nell’intimo del
cuore. Ne avevo però un vivo desiderio, secondo il comando divino
trasmesso dall’Apostolo: Cercate i doni più perfetti (1Cor 12,31),
e anche: Non spegnete lo spirito (1Ts 5,19).
Ma per
quanto riflettessi, non sapevo cosa fare. Non ho un’intelligenza tanto acuta e
non c’era nessuno che mi potesse aiutare. Cercherò di annoiare il buon
Dio a forza di preghiere, e allora Lui illuminerà la mia mente. Passai
così una giornata a pregare senza fermarmi un solo istante; i miei
pensieri si calmarono e mi addormentai; ed ecco che in sogno mi vedo nella
cella del mio starets ed egli mi spiega la Filocalia dicendo:
"Questo santo libro è pieno di grande saggezza. È per questo
che voi, spiriti semplici, non dovete leggere i libri dei Padri tutti di
seguito come sono esposti qui. Questa è una disposizione conforme alla
teologia; ma colui che non è istruito e vuole imparare la preghiera
interiore nella Filocalia deve attenersi a quest’ordine: leggere per
prima cosa il libro del monaco Niceforo (nella seconda parte) poi il libro di
Gregorio il Sinaita per intero, salvo i capitoli brevi, poi le tre forme della
preghiera di Simeone il Nuovo Teologo e il suo trattato sulla fede, infine il
libro di Callisto e Ignazio. In questi testi si trova l’insegnamento completo
della preghiera interiore del cuore, alla portata di tutti.
Se vuoi un
testo ancora più comprensibile, prendi nella quarta parte lo schema
della preghiera di Callisto, patriarca di Costantinopoli. E io, come se avessi
avuto in mano la Filocalia, cercavo il passo indicato senza riuscire a trovarlo.
Lo starets allora, sfogliando qualche pagina, mi disse: – Eccolo, te lo
segno! E raccolto un pezzo di carbone da terra, fece una riga sul bordo della
pagina, accanto al passo indicato. Ascoltai con attenzione tutte le parole
dello starets e cercai di fissarle nella memoria con fermezza e in ogni
particolare.
Mi svegliai
e, visto che ancora non era giorno, rimasi disteso, richiamando alla memoria
tutto quel che avevo veduto in sogno e ripetendo quel che mi aveva detto lo starets.
Poi mi misi a riflettere: Dio sa se è l’anima del mio defunto starets
che mi appare così o le mie idee che prendono tale forma, perché
io penso spesso e a lungo alla Filocalia e allo starets!
Mi alzai in
questa incertezza di spirito; cominciava ad albeggiare. Ad un tratto vedo sulla
pietra che mi serviva da tavolo la Filocalia aperta alla pagina indicata
dallo starets e segnata con un tratto di carbone, proprio come nel
sogno; il carbone era ancora lì vicino al libro. Ne fui colpito,
perché mi ricordai che il libro la sera non era sulla pietra; l’avevo
messo, chiuso, accanto a me prima di prendere sonno, e mi ricordai anche che in
quella pagina non c’era alcun segno. Questo fatto mi diede fede nella
verità dell’apparizione e mi garantì della santità della
memoria del mio starets. Così ricominciai a leggere la Filocalia
secondo l’ordine indicato. Lessi una volta, poi un’altra, e questa lettura
infiammò il mio zelo e il desiderio di provare coi fatti tutto quello
che avevo letto. Scoprii chiaramente il senso della preghiera interiore, i
mezzi per arrivarci e i suoi effetti; compresi che essa riscalda l’anima e il
cuore, e che si può distinguere se questa felicità viene da Dio,
dalla natura sana o dall’illusione.
Cercai per
prima cosa di scoprire il luogo del cuore, secondo l’insegnamento di san
Simeone il Nuovo Teologo. Chiusi gli occhi e diressi il mio sguardo verso il
cuore, cercando di rappresentarmelo com’è, nella parte sinistra del
petto, e ascoltando attentamente il suo battito. Ripetei questo esercizio prima
per mezz’ora, molte volte al giorno; all’inizio non vedevo che tenebre; presto
però il mio cuore apparve e sentii il suo movimento profondo; poi
arrivai a introdurre nel mio cuore la preghiera di Gesù e a farvela
uscire, seguendo il ritmo del respiro, secondo l’insegnamento di san Gregorio
il Sinaita, di Callisto e di Ignazio; perciò, guardando con lo spirito
nel mio cuore, inspirai l’aria e la tenni nel petto, dicendo: Signore
Gesù Cristo, e la espirai dicendo: abbiate pietà di me. Mi esercitai
per un’ora o due, nei primi tempi, poi mi applicai con sempre maggiore
frequenza a questa occupazione, e infine passai così quasi tutta la
giornata. Quando mi sentivo pesante, stanco o inquieto, leggevo subito nella Filocalia
i passi che trattano dell’attività del cuore, e il desiderio e lo zelo
per la preghiera rinascevano in me. In capo a tre settimane, avvertii un dolore
al cuore, e poi un tepore gradevole e un sentimento di consolazione e di pace.
Questo mi infuse maggior forza per esercitarmi nella preghiera a cui i miei
pensieri si riferivano, e cominciai a provare una gioia immensa. Da quel
momento provai di volta in volta diverse sensazioni nuove nel cuore e nello
spirito. Talvolta c’era nel mio cuore come un fervore e una leggerezza, una
libertà, una gioia così grandi che ne ero trasformato e mi
sentivo in estasi. A volte, sentivo un amore ardente per Gesù Cristo e
per tutta la creazione divina. Talvolta le mie lacrime fluivano da sole per
riconoscenza al Signore che aveva avuto pietà di me, peccatore indurito.
Talvolta il mio spirito angusto si illuminava in modo tale che io comprendevo
chiaramente quello che un tempo non avrei potuto nemmeno concepire. Talvolta il
dolce calore del mio cuore si diffondeva in tutto il mio essere e sentivo con
emozione la presenza infinita del Signore. Provavo certe volte una gioia
potente e profonda nell’invocare il nome di Gesù Cristo e comprendevo
quel che significa la sua parola: Il Regno di Dio è dentro di voi (Lc
17,21).
In mezzo a
tali benefiche consolazioni, notai che gli effetti della preghiera del cuore si
manifestano sotto tre forme: nello spirito, per esempio, la dolcezza dell’amore
di Dio; nei sensi il gradevole calore del cuore, la pienezza di dolcezza nelle
membra, il fervore della gioia nel cuore, la leggerezza, il vigore di vita,
l’insensibilità alle malattie o alle pene; nell’intelligenza
l’illuminazione della ragione, la comprensione della sacra Scrittura, la
conoscenza del linguaggio della creazione, il distacco dalle vane cure, la
coscienza della dolcezza della vita interiore, la certezza della vicinanza di
Dio e del suo amore per noi.
Dopo cinque
mesi solitari in queste occupazioni e in questa beatitudine, mi abituai
così bene alla preghiera del cuore che la praticavo senza posa e alla
fine si compiva da sola senza alcuna attività da parte mia; nasceva nel
mio spirito e nel mio cuore non solo allo stato di veglia, ma anche durante il
sonno e non si interrompeva più un solo minuto. La mia anima ringraziava
il Signore e il mio cuore esultava di una gioia incessante.
Venne il
tempo del taglio, i taglialegna si riunirono e dovetti lasciare la mia
silenziosa dimora. Ringraziato il guardaboschi e recitata una preghiera, baciai
quell’angolo di terra in cui il Signore aveva voluto manifestarmi la sua
bontà e partii. Camminai e camminai, percorsi molti paesi prima di
entrare in Irkutsk. La preghiera spontanea del cuore fu la mia consolazione
durante tutto il cammino, e non cessò mai di confortarmi, anche se a
gradi diversi; mai e in nessun luogo mi ha dato noia, nulla ha potuto menomarla.
Se io lavoro, la preghiera agisce da sola nel mio cuore e il lavoro va avanti
più svelto; se ascolto o leggo qualcosa con attenzione, la preghiera non
si interrompe, e io sento l’una e l’altra insieme, come se fossi sdoppiato o se
nel mio corpo si trovassero due anime. Mio Dio, com’è misterioso
l’uomo!…
Le tue
opere sono grandi, Signore; tu hai fatto tutto con saggezza (Sal 104,24). Ho avuto nel
mio cammino molte straordinarie avventure. Se dovessi raccontarle tutte, non
basterebbero delle giornate. Ecco, per esempio: una sera d’inverno passavo solo
per una foresta, e volevo andare a dormire a due verste di là, in un
villaggio di cui si scorgevano già le prime luci. A un tratto mi si
avventò contro un grosso lupo. Tenevo in mano il rosario del mio starets
– lo portavo sempre con me –. Respinsi il lupo con il rosario. E – lo
credereste? – il rosario mi scappò di mano e si attorcigliò
intorno al collo della belva. Il lupo balzò indietro e, saltando
attraverso i pruni, le zampe posteriori si impigliarono tra le spine, mentre il
rosario si impigliava nel ramo secco di un albero. Il lupo si dibatteva con
tutte le sue forze, ma non riusciva a liberarsi perché il rosario gli
serrava la gola. Mi feci con fede il segno di croce e avanzai per liberare il
lupo; soprattutto temevo che mi strappasse il rosario e portasse via con
sé quell’oggetto tanto prezioso. Mi ero appena avvicinato e avevo messo
la mano sul rosario che il lupo lo strappò davvero e fuggì via
senza troppi complimenti. Così, ringraziando il Signore e ripensando al
mio santo starets, arrivai senza fatica al villaggio; mi diressi
all’albergo e chiesi da dormire. Entrai in casa. Due viaggiatori erano seduti a
una tavola d’angolo, uno già avanti negli anni, l’altro d’età
matura e robusto. Bevevano del tè. Chiesi chi fossero al contadino che
custodiva i loro cavalli. Mi spiegò che il vecchio era istitutore e
l’altro cancelliere del giudice di pace: tutti e due di origine nobile: – Li
conduco alla fiera a venti verste da qui.
Dopo essermi
riposato qualche istante, chiesi alla padrona un ago e un po’ di filo. Mi
avvicinai alla candela e cominciai a cucire il mio rosario. Il cancelliere mi
lanciò un’occhiata e disse:
– Ne hai
fatte di riverenze, per strappare in quel modo il tuo rosario!
– Non l’ho
rotto io, signore, fu un lupo…
– Guarda,
anche i lupi ora si mettono a pregare… rispose con una risata il cancelliere.
Raccontai
allora l’avventura nei suoi particolari e spiegai come quel rosario fosse
prezioso per me. Il cancelliere ricominciò a ridere e disse:
– Per voi
creduloni, son tutti miracoli! Cosa c’è di misterioso nella tua storia?
Tu hai gettato semplicemente qualcosa al lupo, questi ha avuto paura ed
è scappato. Cani e lupi hanno sempre paura dei gesti, e non è
difficile impigliarsi le zampe tra i pruni; non bisogna mica credere che ogni
cosa che capita nella vita sia un miracolo!
–
L’istitutore allora cominciò a discutere con lui:
– Non
parlate così, signore! Voi non siete profondo in queste questioni… Dal
canto mio, io vedo nella storia di questo contadino un duplice mistero,
sensibile e spirituale…
– Come come?
– chiese il cancelliere.
– Ecco:
senza avere un’istruzione superiore, voi avrete certamente studiato la storia
sacra in domande e risposte, nell’edizione per le scuole. Vi ricordate che
quando il primo uomo, Adamo, era nello stato d’innocenza, tutti gli animali
erano sottomessi a lui. Si avvicinavano a lui con timore ed egli dava loro il
nome. Lo starets, al quale è appartenuto questo rosario, era un
santo: e che cos’è la santità? Null’altro che la risurrezione
nell’uomo peccatore dello stato d’innocenza del primo uomo. Ecco il mistero
della natura spirituale! Questa forza è avvertita naturalmente da tutti
gli animali e specie attraverso l’odorato; il naso è l’organo essenziale
dei sensi nell’animale. Ecco il mistero di natura sensibile…
– Per voi sapienti non ci sono che forze e storie simili; ma noi, noi
vediamo le cos in modo più semplice: versarsi un bicchiere e
tracannarlo, ecco che cosa dà forza, disse il cancelliere dirigendosi
verso l’armadio.
– A voi
spetta quello, affare vostro – rispose l’istitutore; ma in questo caso lasciate
a noi le nozioni un po’ dotte.
– Le parole
dell’istitutore mi erano piaciute; mi avvicinai a lui e gli dissi:
–
Permettetemi di raccontarvi ancora qualche cosa e proposito del mio starets.
Gli spiegai come mi fosse apparso in sogno e dopo avermi istruito, avesse fatto
un segno sulla Filocalia. L’istitutore ascoltò il mio racconto
con attenzione. Il cancelliere invece, steso su una panca, brontolava:
– È
vero che si diventa matti a tenere sempre il naso incollato sulla Bibbia. Basta
veder questo bel tipo! Qual è il lupo mannaro che si diverte a sporcarti
i libri durante la notte? Avrai fatto cadere il tuo scartafaccio per terra
rigirandoti nel sonno ed è finito nella cenere… E questo è un
miracolo?! Questi
bricconi! Li conosco, caro mio, quelli della tua risma!
Dopo aver
brontolato in questo modo, il cancelliere si rigirò verso il muro e si
addormentò. A queste parole mi chinai verso l’istitutore e gli dissi: Se
volete, vi farò vedere il libro che porta veramente il segno, e non
tracce di cenere. Estrassi la Filocalia dal sacco e gliela mostrai
dicendo: mi meraviglio che sia possibile a un’anima incorporea prendere un
carbone e scrivere…
L’istitutore
guardò il segno sul libro e disse:
– Questo
è il mistero degli spiriti. Te lo spiegherò. Quando gli spiriti
appaiono a un uomo sotto forma corporea, compongono il loro corpo visibile di
luce e di aria, utilizzando per questo gli elementi dai quali era stato tratto il
loro corpo mortale. E come l’aria è dotata di elasticità, l’anima
che ne è rivestita può agire, scrivere o afferrare degli oggetti.
Ma che libro hai dunque?
Fammi vedere.
Lo
aprì e capitò sul discorso e il trattato di Simeone il Nuovo
Teologo.
– Ah!
È certamente un libro di teologia. Non lo conosco…
– Questo
libro, piccolo padre, contiene quasi unicamente l’insegnamento della preghiera
interiore del cuore al nome di Gesù Cristo; è esposto qui in modo
particolareggiato da venticinque Padri.
– Ah! La
preghiera interiore… So che cosa è – disse l’istitutore.
– Mi piegai
ancor più verso di lui e lo pregai di dirmi qualche parola sulla
preghiera interiore.
– Ebbene,
nel Nuovo Testamento si dice che l’uomo e tutta la creazione sono soggetti non
per volontà propria alla vanità e che tutto sospira e tende verso
la libertà dei figli di Dio (Rm 8,19-20); questo misterioso
movimento della creazione, questo desiderio innato nelle anime è la
preghiera interiore. Non la si può imparare, perché essa è
in tutti e in tutto!
– Ma come
acquistarla, scoprirla e sentirla nel nostro cuore? Come prenderne coscienza e
accoglierla volontariamente, giungere a che essa agisca attivamente,
riscaldando, illuminando e salvando l’anima? – chiesi.
– Non so se
i trattati di teologia ne parlano – rispose l’istitutore.
– Ma qui
tutto questo sta scritto – esclamai.
L’istitutore
prese una matita, annotò il titolo della Filocalia e disse:
"Voglio farmi venire questo libro a Tobolsk e lo leggerò.
Ci salutammo, e ognuno andò per i fatti suoi. Andandomene ringraziai Dio per la
conversazione con l’istitutore e pregai il Signore che permettesse al
cancelliere di leggere di leggere un giorno la Filocalia e di
comprenderne il senso per il bene dell’anima sua.
Un
altra volta, a primavera, giunsi in una borgata e mi fermai in casa di un
prete. Era un uomo d’oro, che viveva da solo. Passai tre giorni con lui. Dopo
avermi attentamente osservato per tutto quel tempo, alla fine mi disse:
"Rimani con me, io ti darò un salario; ho bisogno di un uomo
fidato. Avrai visto che si sta costruendo una nuova chiesa in pietra accanto a
quella vecchia che è di legno. Non riesco a trovare una persona
coscienziosa che mi sorvegli gli operai e che stia nella cappella a raccogliere
le offerte per la costruzione; vedo che tu ne saresti capace e che questa vita
sarebbe adatta per te; vedo che tu saresti capace e che questa vita sarebbe
adatta per te; tu saresti da solo nella cappella a pregare Dio, c’è
là uno sgabuzzino isolato nel quale puoi stabilirti a tuo agio. Rimani, te ne
prego, almeno fino a che la chiesa sia costruita". Mi difesi per un bel
po’, ma alla fine dovetti cedere alla preghiera insistente del sacerdote.
Rimasi dunque tutta l’estate fino all’autunno e mi installai nella cappella.
All’inizio fui lasciato tranquillo e mi potei esercitare nella preghiera, ma
specialmente nei giorni di festa venivano molte persone, alcune per pregare,
altre per sbadigliare, altre ancora per piluccare qualche soldo nella cassetta
delle elemosine. E
quando vedevano me intento a leggere la Bibbia o la Filocalia, alcuni
visitatori intavolavano discorsi con me, altri mi chiedevano di leggere loro
qualche brano. Dopo un po’ di tempo notai che una fanciulla del paese veniva
spesso nella cappella e vi rimaneva a lungo in preghiera. Tendendo l’orecchio a
quello che la fanciulla bisbigliava, mi accorsi che recitava delle curiose
preghiere, e certe erano addirittura travisate. Le chiesi: – Chi ti ha
insegnato queste parole? – Mi rispose che era stata sua madre che era ortodossa,
mentre suo padre era uno scismatico della setta dei senza-preti. La sua
situazione mi impietosì e le consigliai di recitare le preghiere
correttamente, secondo la tradizione della santa Chiesa. Le insegnai il Padre
Nostro e l’Ave Maria. Alla fine le dissi: – Recita soprattutto la preghiera di
Gesù; essa ci avvicina a Dio più di ogni altra preghiera e tu ne
ricaverai la salvezza dell’anima tua. La fanciulla mi ascoltò con
attenzione e agì con molta semplicità, secondo i miei consigli.
Lo credereste? Dopo un po’ di tempo mi annunciò che si era abituata alla
preghiera di Gesù, che sentiva il desiderio di ripeterla senza posa se
fosse stato possibile; quando pregava, sentiva il gusto della preghiera e
infine la gioia e insieme il desiderio di continuare a pregare sempre di
più, invocando il nome di Gesù Cristo. La fine dell’estate si
avvicinava; molti visitatori della cappella venivano a trovarmi, non più
soltanto per chiedermi un consiglio o una lettura, ma per raccontare le loro
pene domestiche e anche per sapere come ritrovare gli oggetti smarriti;
evidentemente alcuni di loro mi prendevano per un mago. Un giorno infine la
–fanciulla accorse tutta disperata per chiedermi che cosa doveva fare. Suo
padre voleva sposarla contro voglia a uno scismatico come lui e l’officiante
sarebbe stato un contadino. – Ma è un vero matrimonio, questo? – diceva
angosciata – È concubinato e basta! Io voglio scappare di casa, seguendo
lo sguardo dei miei occhi! Le dissi allora: e dove andrai? Ti potranno sempre
raggiungere. Con i tempi che corrono, non potrai mai nasconderti senza
documenti, e si arriverà facilmente a riacciuffarti; è meglio che
tu preghi Dio con fervore affinché spezzi con le sue vie la risoluzione
di tuo padre e salvi la tua anima dal peccato e dall’eresia. Questo è meglio del tuo
progetto di fuga. Il tempo passava, il rumore e le distrazioni mi riuscivano
sempre più penose. L’estate finì, e decisi di lasciare la
cappella e riprendere la mia vita come un tempo. Andai dal prete e gli dissi: –
Padre mio, voi conoscete le mie intenzioni. Ho bisogno di calma per dedicarmi
alla preghiera, e qui non trovo che distrazioni e fastidi. Ho fatto quello che
mi avevate chiesto, sono rimasto tutta l’estate; ora lasciatemi partire e
benedite la mia strada. Il prete non voleva lasciarmi andare e cercò di
insistere ancora: – Chi ti impedisce di pregare anche qui? Non hai che da
rimanere nella cappella e trovi il pane bell’è pronto. Prega notte e
giorno là, se tu vuoi; vivi con Dio! Tu sei capace e utile qui, non dici
sciocchezze con i visitatori, sei fedele e onesto e assicuri le entrate alla
chiesa di Dio! È meglio agli occhi del Signore che non la tua preghiera
solitaria. Perché rimanere così solo? Con gli altri si prega
molto meglio. Dio non ha creato l’uomo perché egli non conosca che se
stesso, ma perché ognuno aiuti il suo prossimo, guidandoci l’un l’altro
verso la salvezza, ciascuno secondo le sue forze. Guarda i santi e i dottori
ecumenici, erano giorno e notte in movimento e in daffare per la Chiesa,
predicavano dovunque e non rimanevano in solitudine a nascondersi ai loro
fratelli. – Ciascuno riceve da Dio il dono che conviene, padre mio; molti hanno
predicato alle folle, e molti sono vissuti nella solitudine. Ciascuno agiva secondo la sua
inclinazione e credeva che fosse la via della salvezza indicata da Dio. Ma come
spiegate che tanti santi hanno abbandonato tutte le dignità e gli onori
della Chiesa e si sono rifugiati nel deserto per non essere tentati dal mondo?
Sant’Isacco il Siriaco ha abbandonato così i suoi fedeli e il beato
Atanasio l’Atonita ha lasciato il suo monastero; essi consideravano quei luoghi
troppo pericolosi e credevano veramente alla parola di Cristo: Che serve
all’uomo acquistare il mondo, se perde la sua anima? (Mt 16,26). –
Ma essi erano dei grandi santi – replicò il prete. – Se i santi si
guardassero con tanta cura dal venire a contatto con gli uomini – gli risposi –
cosa non dovrebbe fare un povero peccatore! Infine dissi addio al
buon prete e ci separammo da amici. Percorsi dieci verste e mi fermai per trascorrere
la notte in un villaggio. Viveva
là un contadino gravemente ammalato. Consigliai alla famiglia di farlo
comunicare pensando ai santi misteri di Cristo, e la mattina essi mandarono a
cercare il prete del villaggio. Io rimasi per inginocchiarmi davanti ai santi
doni e per pregare durante la somministrazione del Sacramento. Ero seduto su
una panca davanti alla casa e guardavo se il prete arrivava. All’improvviso
vedo correre verso di me la fanciulla che avevo visto in preghiera nella
cappella. – Come hai fatto a venire qui? – Le dissi. – In casa mia tutto era
disposto ormai per le nozze con quello scismatico, e io sono scappata. Poi,
gettandosi ai miei piedi, gridò: – Per pietà, prendimi con te e
conducimi in un convento, da queste parti, non voglio marito, voglio vivere in
un convento recitando la preghiera di Gesù. Ti ascolteranno là, e
mi accetteranno. – Di’ un po’, dove vuoi che ti conduca? Non conosco nemmeno un
convento, da queste parti, e come potrei prenderti con me senza passaporto? Non potrai
fermarti mai in nessun posto. Ti scopriranno subito; sarai ricondotta a casa tua e punita per la tua
scappata. Ritorna invece a casa e prega il Signore; e se non ti vuoi sposare,
inventa qualche scusa. Questa sarà una "bugia pietosa".
Così hanno agito la santa madre di Clemente, la beata Marina, che
salvò la sua anima in un monastero di uomini, e tante altre. Mentre noi
stavamo così parlando, vedemmo quattro contadini in un biroccino che
trottavano dritti verso di noi. Acciuffarono la ragazza e la caricarono sulla
carretta: uno di loro partì con lei, gli altri tre mi legarono le mani e
mi condussero al borgo nel quale avevo passato l’estate. A tutte le mie
spiegazioni essi rispondevano con grida: – Imparerai, santoccio, a sedurre le
ragazze! – Verso sera, mi condussero alla prigione, mi fecero mettere i ferri
ai piedi e mi fecero rinchiudere in attesa del giudizio per l’indomani. Il
prete, avendo saputo che ero in prigione, venne a trovarmi, mi portò la
cena, mi consolò e disse che avrebbe preso le mie difese dichiarando,
come mio confessore, che io non avevo assolutamente quelle tendenze che mi
venivano attribuite. Si
trattenne un po’ di tempo con me, poi se ne andò. Sul far della notte
passò di là il commissario di polizia del distretto e gli fu
raccontata la storia. Egli ordinò che si riunisse il consiglio comunale
e si conducesse me al commissariato. Noi entrammo e rimanemmo in piedi ad
aspettare. Ad un tratto, ecco il commissario già piuttosto eccitato;
sedette al tavolo col suo berrettone ben calato sul capo e disse a voce molto
alta: – Ehi, Epifanio, questa ragazza qui, tua figlia, non ha portato via
niente da casa? – Nulla, piccolo padre. – Ha fatto qualche stupidaggine con
questo scimunito? – No, piccolo padre. – Allora la questione è giudicata
e si decide: con tua figlia, regolati tu come vuoi; e questo bel muso, lo
pregheremo di svignarsela domattina, dopo una solida correzione che gli levi la
voglia di tornare da queste parti. Via! Con queste parole il commissario si
alzò in piedi e andò a dormire; io fui ricondotto in prigione.
L’indomani mattina, per tempo, vennero due contadini che mi sferzarono di santa
ragione e poi mi lasciarono andare; e io partii di là ringraziando il
Signore per avermi permesso di soffrire in nome suo. Questo mi consolava e mi
incitava anche di più a pregare. Tutti questi incidenti però non
mi avevano abbattuto: era come se fossero toccati a un altro e io ne fossi solo
lo spettatore; anche durante le sferzate riuscivo a sopportare il dolore; la
preghiera, che illuminava il mio cuore, non mi dava tempo per accorgermi di
alcun’altra cosa. Dopo quattro verste, incontrai la madre della ragazza che
tornava dal mercato. Si fermò e mi disse: – Il fidanzato ci ha piantati.
Si è arrabbiato con Akulka, capisci?; perché lei è
scappata! –. Poi mi diede del pane e un biscotto, e io ripresi la mia strada.
Il tempo era asciutto e non avevo voglia di chiedere ospitalità per la
notte in un villaggio: scorsi due mucchi di fieno nel bosco e mi aggiustai
là, per passare la notte. Mi addormentai e mi misi a sognare che stavo
camminando per la via, e leggevo i capitoli di sant’Antonio il Grande nella Filocalia.
A un tratto mi apparve lo starets e mi disse: – Non è là
che devi leggere – e mi indicò il capitolo 35 di Giovanni di Karpathos,
nel quale è scritto: "Talvolta il discepolo è dato in pasto
alla vergogna e sopporta prove per coloro che ha aiutato spiritualmente".
E mi mostrò anche il capitolo 41 in cui si dice: "Tutti coloro che
si dedicano più ardentemente alla preghiera sono preda di tentazioni
terribili e logoranti" Poi aggiunse: – Fatti coraggio e non abbatterti
mai. Ricorda le parole dell’Apostolo: Colui che è in voi è
più grande di colui che è nel mondo (1Gv 4,4). Tu ora
hai conosciuto per esperienza che non c’è tentazione che sia superiore
alle forze dell’uomo. Perché con la tentazione Dio prepara anche una via
d’uscita (1Cor 10,13). E dalla speranza nell’aiuto del Signore sono
stati sostenuti i Santi che non hanno trascorso la loro vita soltanto a
pregare, ma hanno cercato, per amore, di insegnare e di illuminare gli altri.
Ecco quanto ha detto in proposito san Gregorio di Tessalonica: "Non ci
basta pregare senza posa secondo il comandamento divino, ma bisogna che
esponiamo quest’insegnamento a tutti, monaci, laici, gente istruita o gente semplice,
uomini, donne o bambini, onde risvegliare in loro lo zelo per la preghiera
interiore". Il beato Callisto Telicoudas si esprime nello stesso modo:
"L’attività spirituale (ossia la preghiera interiore), dice, la
conoscenza contemplativa e i mezzi per elevare l’anima non debbono essere
tenuti per noi, ma bisogna comunicarli con la scrittura o con il discorso per
il bene e l’amore di tutti. E la parola di Dio dichiara che il fratello aiutato
dal fratello è come una città alta e forte (Pr 18,19).
Bisogna soltanto fuggire con tutte le nostre forze la vanità e vegliare
perché il buon grano dell’insegnamento divino non sia disperso dal
vento". Al risveglio sentii nel mio cuore una gioia immensa e nell’anima
una forza nuova. E ripresi la mia strada.
Molto
tempo dopo ebbi un’altra avventura; e se volete, ve la racconterò. Un
giorno, il 24 marzo, sentii il bisogno veramente invincibile di comunicarmi ai
santi misteri di Cristo nel giorno consacrato alla Madre di Dio, in ricordo
della sua annunciazione divina. Chiesi se da quelle parti ci fosse una chiesa; mi
fu detto che vene era una a trenta verste da lì. Camminai tutto quel giorno e la notte
successiva per arrivare all’ora di mattutino. Era un tempo da lupi, pioggia,
neve, vento e gelo. La strada attraversava un ruscello e non avevo fatto che
pochi passi quando il ghiaccio scricchiolò e cedette sotto il mio piede,
così caddi in acqua fino alla cintola. Arrivai al mattutino tutto
inzuppato, ma riuscii almeno ad ascoltare le preghiere e la messa, durante la
quale il Signore mi permise di ricevere la comunione. Per passare quel giorno
in pace, senza che nulla venisse a turbare la gioia dello spirito, chiesi a un
custode di lasciarmi fino all’indomani nella celletta di guardia. Passai tutta
quella notte in una gioia indicibile e nella pace del cuore; ero steso su una
panca in quella capannetta non riscaldata, come se riposassi sul seno d’Abramo:
la preghiera agiva con forza. L’amore per Gesù Cristo e per la Madre di
Dio attraversava il mio cuore con onde benefiche e immergeva l’anima mia in
un’estasi consolatrice. Stava scendendo la notte, quando avvertii nelle gambe
un improvviso dolore, acutissimo, e mi ricordai allora che erano bagnate. Ma
ricacciando il pensiero, mi immersi di nuovo nella preghiera e non avvertii
più alcun dolore. Quando al mattino mi volli alzare, non riuscivo
più a muovere le mie povere gambe. Erano inerti e molli come uno
stoppino; il guardiano mi tirò giù dalla panca e rimasi
così due giorni senza muovere un dito. Il terzo giorno il guardiano mi
cacciò via dalla baracca dicendo: – Se morrai qui, bisognerà poi
correre in giro e darsi da fare per te –. Riuscii a trascinarmi sulle mani fino
alla scalinata della chiesa e vi rimasi disteso. Trascorsi così due
giorni circa; le persone che passavano non prestavano alcuna attenzione
né a me né alle mie domande. Finalmente un contadino mi si
avvicinò e si mise a chiacchierare. Dopo un po’, mi disse: –
Cosa mi dai? Ti voglio
guarire. Anch’io ho avuto questo stesso male e conosco un buon rimedio. – Non
ho nulla da darti – gli risposi. – Cosa hai nel tuo sacco? – Null’altro che del
pane raffermo e dei libri. – Bene, tu lavorerai da me per un’estate se ti
guarisco.
– Non posso
nemmeno lavorare, vedi che ho un braccio che non serve.
– Cosa sai
fare, insomma? – Niente, salvo leggere e scrivere. – Scrivere? Benissimo.
Insegnerai a scrivere a mio figlio, che sa già leggere un pochino e
voglio che impari anche a scrivere. Ma i maestri chiedono troppo, venti rubli
per insegnare tutto l’alfabeto. Mi misi d’accordo con lui e, con l’aiuto del
custode, fui trasportato in casa del contadino, dove venni sistemato in un
vecchio bagno in fondo al suo podere. Cominciò allora a curarmi.
Raccolse dai campi, dai cortili e dagli immondezzai delle vecchie ossa di
animali, di uccelli e di che altro ancora: li lavò, li frantumò
in piccolissimi pezzi con un sasso e li mise in una grossa pentola; la
incappucciò con un coperchio forato e rovesciò il tutto dentro un
vaso che aveva interrato. Spalmò con gran cura il fondo della pentola
con uno spesso strato di creta e la coprì di ceppi che lasciò
bruciare per più di ventiquattro ore. Mentre disponeva i ceppi, diceva:
– Tutto questo farà un bel pastone di ossa. Il giorno dopo dissotterrò
il vaso nel quale, attraverso l’orificio del coperchio, era colato quasi un
litro di un liquido spesso, rossastro, oleoso e dall’odore di carne fresca; le
ossa rimaste nella pentola, da nere e marce, erano diventate di un colore
bianco e trasparente quanto la madreperla. Per cinque volte al giorno io mi
dovevo frizionare le gambe con quel liquido. Lo credereste? Il giorno dopo mi
accorsi che potevo muovere le dita; il terzo potevo piegare le gambe; il quinto
mi reggevo in piedi e camminavo per il cortile appoggiandomi a un bastone. In
una settimana le gambe erano tornate normali. Ne ringraziai Dio e dicevo tra
me: la sapienza di Dio si manifesta nelle sue creature. Delle ossa spolpate e
marce, già quasi ritornate alla terra, conservano in sé la forza
vitale, un colore e un odore; esercitano un’azione sui corpi vivi, ai quali
possono ridare la vita! È un pegno della risurrezione futura. Se avessi
potuto far sapere questo portento al guardaboschi con il quale avevo vissuto e
che dubitava della risurrezione e dei corpi! Così guarito, cominciai a
occuparmi del ragazzo. Scrissi come modello la preghiera di Gesù e
gliela feci ricopiare, mostrandogli come vergare le lettere in modo ordinato.
Era molto riposante per me, perché il ragazzo prestava servizio tutta la
giornata presso il castaldo e veniva da me solo quando il castaldo dormiva,
ossia il mattino per tempo. Il fanciullo era sveglio e in poco tempo
imparò a scrivere quasi correttamente. Il castaldo, che lo vide
scrivere, gli chiese: – Chi ti istruisce? – Il ragazzo rispose che era il pellegrino
monco, che viveva da loro nel vecchio bagno. Il castaldo curioso, era un
polacco, venne a trovarmi e mi trovò intento a leggere la Filocalia.
Parlò un poco con me e mi chiese: – Cosa leggi di bello? Gli mostrai il
libro. – Ah, è la Filocalia – disse. Ho veduto questo libro dal
curato, quando abitavo a Vilna. Ma ho sentito dire che contiene strane formule
e modi per pregare, inventati da certi monaci greci sullo stampo dei santoni
indiani e di Buchara, che gonfiano i loro polmoni e credono ciecamente, quando
riescono a sentire un pizzicorino nel cuore, che questa sensazione naturale sia
una preghiera data da Dio. Bisogna pregare semplicemente, per compiere il
nostro dovere verso Dio; quando ci si alza il mattino, si recita il Pater come
ha insegnato Gesù Cristo; e questo basta per tutta la giornata. Ma a
forza di ripetere sempre la stessa preghiera, si corre il rischio di diventare
matti e di guastarsi il cuore. – Non parlate in tal modo di questo santo libro,
piccolo padre. Non sono dei semplici monaci che l’hanno scritto, ma antichi e
santi personaggi che la vostra Chiesa venera, come Antonio il Grande, Macario
il Grande, Marco l’Asceta, Giovanni Crisostomo e altri. I monaci dell’India e
di Buchara hanno preso la loro tecnica dalla preghiera del cuore, ma l’hanno
deformata e guastata, come mi ha spiegato il mio starets. Nella Filocalia
tutti gli insegnamenti sulla preghiera interiore sono tratti dalla Parola
divina, dalla santa Bibbia, nella quale Gesù Cristo, pur dicendo di dire
il Padrenostro, ha affermato anche che bisognava pregare senza posa, dicendo: Ama
il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima (Mt 22,37);
osservate, vegliate e pregate (Mc 13,33); voi sarete in me e
io in voi (Gv 15,4). E i santi Padri, citando la testimonianza di
Davide nei salmi: Gustate e vedete quanto è buono il Signore (Sal
34,9), lo interpretano dicendo che il cristiano deve fare di tutto per
conoscere la dolcezza della preghiera, deve senza tregua cercarvi consolazione
e non accontentarsi di recitare una volta il Padrenostro. Sentite. Vi leggo
quello che i Padri dicono di coloro che non cercano di studiare la benefica
preghiera del cuore. Dichiarano che essi commettono un triplice peccato
perché, per prima cosa, si mettono in contraddizione con la santa
Scrittura; in secondo luogo, non ammettono che vi sia per l’anima uno stato
superiore e perfetto: accontentandosi delle virtù esteriori, ignorano la
fame e la sete della giustizia e si privano della beatitudine in Dio; in terzo
luogo poi, considerando le loro virtù esteriori, cadono spesso nella
soddisfazione di sé e nella vanità. – Tu leggi certo cose molto
elevate – disse il castaldo – ma come possiamo, noi laici, seguire simile via?
– Ecco, ora vi leggo come degli uomini dabbene hanno potuto, anche se laici,
imparare la preghiera perpetua. Presi nella Filocalia il trattato di
Simeone il Nuovo Teologo sul giovane Giorgio e mi misi a leggere. Il brano
piacque al castaldo che mi disse: – Dammi quel libro e lo leggerò nei
miei momenti liberi. – Se volete, ve lo posso lasciare per un giorno, ma non di
più, perché io lo leggo di continuo e non posso farne a meno. –
Ma tu potresti almeno copiarmi quel passo; ti darò del denaro. – Non ho
bisogno di denaro, ma lo copierò volentieri, sperando che Dio vi dia
l’ardore per la preghiera. Copiai immediatamente il passo che avevo letto. Egli
lo lesse a sua moglie e tutti e due lo trovarono molto bello. Da quel giorno
essi mi mandarono ogni tanto a chiamare. Io leggevo ed essi stavano a sentire, mentre bevevano il tè. Un giorno mi
trattennero a pranzo. La moglie del castaldo, una simpatica vecchia signora,
stava con noi e, mentre mangiava del pesce ai ferri, inghiottì una
lisca. Malgrado tutti i nostri sforzi, non riuscimmo a liberarla; ed essa
accusava un forte male alla gola e dopo un paio d’ore dovette mettersi a letto.
Si mandò a cercare un medico a trenta verste da lì, e io tornai
nella mia stanza piuttosto rattristato. Durante la notte io, che avevo il sonno
molto leggero, sentii la voce del mio starets, ma non vidi alcuno. La voce mi diceva: – Il tuo padrone
ti ha guarito e tu non puoi far nulla per il castaldo? Dio ci ha ordinato di
andare incontro al nostro prossimo che soffre. – Lo aiuterei più che
volentieri, ma in che modo? Non so proprio alcun rimedio. – Ecco che cosa
bisogna fare: essa ha sempre avuto una ripugnanza fortissima per l’olio di
ricino; basta l’odore per provocarle la nausea; se tu le dai un cucchiaio di
olio di ricino, lei vomiterà, uscirà la lisca e l’olio
lenirà la ferità della gola; così quella povera signora
guarirà. – E come potrò farglielo bere, se lei ha una ripugnanza
così forte? – Prega il castaldo di tenerle ferma la testa e versale il
liquido in bocca con mano ferma. – Mi scossi dal sonno e corsi dal castaldo, al
quale narrai ogni cosa nei più minimi particolari. Egli mi disse: – Che
vuoi che possa fare il tuo olio? Mia moglie ha già la febbre e sta
delirando, il suo collo è tutto gonfio. In ogni modo si può
tentare; se l’olio non le farà bene, non le potrà fare nemmeno
male. Versò l’olio di ricino in un bicchierino e riuscimmo a farglielo
ingoiare. Ella ebbe subito un conato di vomito e sputò la lisca con un
po’ di sangue. Si sentì meglio e si addormentò
profondamente. Il giorno
dopo andai per sentire sue notizie e la trovai mentre col marito stava sorbendo
il suo tè. Erano molto stupiti della sua guarigione, e soprattutto di
quello che mi era stato detto in sogno sulla sua ripugnanza invincibile per
l’olio di ricino, perché non ne avevano mai parlato con nessuno. In quel
momento arrivò il medico: la signora gli raccontò come era stata
guarita e io come il contadino mi aveva curato le gambe. Il medico
dichiarò: – Non sono due casi straordinari. È una forza di natura
che ha agito tutte e due le volte, ma me lo voglio segnare per ricordarmelo.
Trasse una matita dalla tasca e scrisse alcuni appunti su un suo notes. Si
diffuse rapidamente la voce che io ero un indovino, un guaritore e un mago;
venivano a vedermi da ogni paese, per chiedermi consigli, per portarmi dei
regali, e cominciavano a venerarmi come un santo. Allora, dopo una settimana di
queste cose, io riflettei ben bene ed ebbi timore di cadere nella vanità
e nella dissipazione. La notte dopo lasciai di nascosto io villaggio.
Così
ripresi ancora una volta la mia via solitaria, leggero come se una montagna mi
fosse caduta dalle spalle. La preghiera mi consolava sempre di più; a
volte il mio cuore traboccava di un amore infinito per Gesù Cristo, e da
quella meravigliosa pienezza si spandevano in tutto il mio essere onde
benefiche. L’immagine di Gesù Cristo era così impressa nella mia
anima che, pensando agli avvenimenti del Vangelo, potevo dire di vederli
proprio davanti ai miei occhi. Ero commosso e piangevo di gioia, e talvolta sentivo
nel mio cuore una tale felicità che non la saprei descrivere. A volte
restavo ben tre giorni lontano da ogni abitato umano e con estasi mi sentivo
sulla terra solo, miserabile peccatore davanti a Dio misericordioso e amico
degli uomini. Questa solitudine faceva la mia felicità e la dolcezza
della preghiera era molto più sensibile che non il contatto con gli
uomini. Infine arrivai ad Irkutsk. Dopo essermi inginocchiato davanti alle
reliquie di sant’Innocente, mi chiesi dove potevo ormai andare. Non avevo
voglia di rimanere a lungo nella città, perché era molto
popolata. Camminavo per le vie e riflettevo tra me. A un tratto incontrai un
mercante del paese che mi fermò e disse: – Sei un pellegrino? Perché non vieni a casa mia?
Arrivammo nella sua magnifica casa. Mi domandò chi ero e gli raccontai
del mio viaggio. A queste parole mi disse: – Dovresti andare fino all’antica
Gerusalemme. Laggiù c’è una santità che non è pari
a nessun’altra! – Vi andrei volentieri – gli risposi – ma non ho di che pagare
la traversata, perché il denaro che ci vuole è molto. – Se vuoi,
ti posso indicare un mezzo – disse il mercante –. L’anno scorso ho mandato
laggiù un vecchio che era nostro amico. Caddi ai suoi piedi, ed egli
soggiunse: – Stammi a sentire. Io ti darò una lettera per mio figlio che
sta a Odessa e commercia con Costantinopoli; egli ha delle navi, ti farà
imbarcare fino a Costantinopoli e di là le sue agenzie ti pagheranno il
viaggio fino a Gerusalemme. Non è poi tanto caro. Ringraziai calorosamente,
colmo di gioia, il benefattore e tanto più ringraziai Dio che
manifestava il suo amore paterno per me, peccatore indurito, che non faceva
alcun bene né a sé né agli altri e che mangiava
inutilmente il pane altrui. Sono rimasto tre giorni con quel generoso mercante.
Egli mi ha dato una lettera per suo figlio e ora sto andando a Odessa nella
speranza di raggiungere la città santa di Gerusalemme. Ma non so se il
Signore mi concederà di inginocchiarmi davanti al suo sepolcro di vita.
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