VI.
Una delle più care soddisfazioni che si
possano provare viaggiando, è quella del ritrovarsi, dopo un buon sonno, in un
paese dove si è giunti di notte e di cui, per conseguenza, non avete che una
idea complessiva raccolta nel buio, e, il più delle volte, affatto opposta alla
realtà. Giacchè tenebra vuol dire esagerazione, così nel bene come nel male,
nel brutto come nel bello. Svanita la fatica del corpo e l'animo riposato delle
memorie del cammino percorso, le novità che vi circondano par che acquistino
attrattive maggiori. Uscendo dalla nuova camera o solo mettendo il capo alla
finestra, l'aspettazione e la curiosità sono soddisfatte, comunque sia la scena
che vi si affaccia, nel modo stesso che se foste davanti ad un quadro nel
momento in cui l'artista ne toglie il lenzuolo che lo nascondeva. La porta e la
finestra danno sull'ignoto; un passo, e voi sapete, d'improvviso, a che vi
hanno condotto le tante leghe percorse; un'occhiata, e vi decidete a restare o
rifare il bagaglio: - parlo a coloro che viaggiano - come si dovrebbe sempre
viaggiare - senza meta prestabilita.
Ora la mia finestra dava sul giardino del
presbiterio; un giardino ampio e solcato, sparso da viali di varia larghezza
che si intersecavano ad angoli retti, dando altrettanti confini alle aiuole. In
quegli angoli sorgevano, sovrapposti a rozze basi di mattoni dei vasi di limoni
di straordinario rigoglio, le cui foglie si distinguevano, pel luccichio, in
mezzo a tutte le altre. Le viti sorrette da lunghi pali, erravano in tutte le
direzioni, qui formando delle vie coperte sotto cui intravedevo panche e tavole
di pietra scura, là abbarbicandosi ai muri che da due lati facevano ala al
giardino. La vegetazione era splendida: maggio aveva fatto il suo dovere. Le
macchie dei fiori, gialli, rossi, turchini, bianchi, viola, amaranto, si
mescevano in pazza allegria colle infinite gradazioni del verde dei legumi;
peri e pruni contorcevano i loro tronchi nodosi, avvolti completamente, come da
un abito di festa, nei fiorellini color rosa e color pavonazzo del rhododendron
e della glicina. Non saprei se fossero cresciuti per colmar panieri o per
comporre ghirlande. Ma quel che dava l'intonazione a quel quadro di tutte le
tinte eran le rose. Avresti detto che quella notte ne fosse venuta una
nevicata: ce n'erano dappertutto, in alto, in basso, sulle pareti, in mezzo
alle viti, sui tetti, per terra. Il dolce fiore di Venere non crebbe mai con
tanta dovizia intorno ai templi di Lesbo. L'emblema della virginità, le rose
bianche, nascondevano intieramente il fianco del presbiterio, non lasciando
scoperto che quel tanto che era necessario per dar spazio alle imposte delle
finestre: la mia ne era tutta incorniciata. La rosa delle quattro stagioni
dominava dispoticamente, nelle siepi, la turba passeggiera dei tulipani, dei garofani
e delle anemomi; le rosette dalle cento foglie, simbolo delle grazie, gremivano
il chiosco posto a capo del viale più grande, e si cacciavano a destra e a
sinistra sul muricciuolo di cinta, occhieggiando.
Era evidente che il curato amava i suoi fiori
platonicamente; tranne forse per le funzioni solenni della chiesa, li lasciava
crescere e morire sullo stelo. Infatti un tappeto di foglie tremolanti copriva
i viali: tutti quei fiori pagavano il tributo della umana fragilità non
all'uomo, ma alla natura e le loro salme, scomposte e sparpagliate dall'aria,
volavano intorno in vortici odorosi, a somiglianza di farfalle: non avevo quasi
aperta la finestra, che il pavimento della camera ed il letto ne erano coperti.
Di là dal muro di cinta si protendeva la campagna,
in pendio; pochi metri coltivati a frumento, esile e sparuto come un povero
esiliato dal suo clima; e, interotte qua e là dalle macchie dei castagni e
degli onici, praterie piene di sentieruoli. Più in su, la montagna da cui io
era sceso il dì innanzi, arida e brillante delle sue frane silicee. Alla mia
destra sporgeva, oltre il fianco della casa parocchiale, a poca distanza, un
edificio rustico, di proporzioni, per quanto modeste, pure assai più grandiose
di tutte quelle intravedute attraversando il villaggio. Certo doveva essere
l'abitazione di Baccio. Due fanciulli vi stavano giocando sul balcone di legno,
e una donna, col capo circondato alla moda montanina di un fazzoletto rosso,
distendeva tutto all'ingiro i pannolini del bucato.
Fui interrotto nelle mie rapide osservazioni
dalla buona Mansueta che, viste schiuse le imposte, si era affrettata a
prepararmi il caffè e me lo porgeva, fumante e profumato, chiedendomi come
avessi passata la notte.
Chiesi subito del curato: stava cantando
messa.
Quel cantando mi fe' rissovvenire che eravamo
in domenica; epperò mi credetti in dovere di affrettare la mia modesta toeletta
per dar saggio del mio rispetto ai doveri dell'ospitalità, col far parte dei
fedeli raccolti in quel momento intorno a Don Luigi.
Discesi e, poichè la vecchia mi aveva
preceduto di qualche tempo, giunto in faccia alla scaletta, mi trovai
imbarazzato davanti a due porte, non ricordandomi quale di esse mettesse al
gabinetto da cui ero uscito la sera. Ne apersi una a caso e mi accorsi di aver
sbagliato; pure andai avanti. Ne valeva la pena. Era il deposito delle
suppellettili più importanti e degli arredi sacri di maggior valore, il
capharnaum della chiesa. Il baldacchino rosso a ricami e frangie d'oro,
sorretto dalle sue quattro aste collocate in altrettanti vasi di pietra,
occupava, con una posa obliqua che rammentava un ubriaco, il mezzo dello
stanzone.
Intorno, candelabri di metallo pulito,
lanterne da processione infisse sopra bastoni di color rosso già sbiadito verso
le estremità dal sudore delle mani dei confratelli; crocifissi pure di metallo
- allampanati, portanti al congiungimento delle due aste una specie di rosa
fatta di raggi in ottone invece del Cristo. Tuttociò, disposto in ordine di
battaglia sul pavimento, pareva allacciato, come da serpi di argento, dalle
catenelle sottili dei turiboli. Un armadio gigantesco sorgeva contro il muro:
le imposte ne erano spalancate. Vi pendeva tutta una famiglia di abiti
sacerdotali, camicie, cotte, stole: guardando da lontano somigliavano una fila
di preti appiccati. Un grosso messale antico mi tentò; l'apersi, e lessi in
lettere rosse intercalate a lettere nere: Breviarium Romanum ex decreto
Sacrosanti Concilii Tridentini restitutum, S. PII V. Pontificis Maximi jussu
Editum, Clementis VIII et Urbani VIII. Auctoritate recognitum in quo Officia
novissima sanatorum accurate sunt disposita. Venetiis, MDCCXXVII. Apud Nicolaum
Pezzana. Una di quelle vecchie edizioni logore e belle che fanno pensare. Quasi
a ogni pagina erano mazzetti di rose disseccate che avevano colorato
leggermente all'ingiro i caratteri, e mescolato il loro profumo di un giorno a
quello eterno del libro.
Dietro una stia piena di galline chioccianti e
su cui stavano sparpagliati una infinità di sacchetti e di cartocci di semi,
portanti il nome della specie scritto su cartoline appese al collo, a mo' di
decorazioni, s'innalzava appoggiata al muro una immensa tela oblunga; - ai suoi
lati drappeggiavano quattro bandiere tricolori circondanti colle loro pieghe le
lettere cubitali, di color giallo, imitante l'oro, che dicevano: Viva lo
Statuto. Quel viva però pareva fosse stato esposto alla pioggia tutto solo,
tanto era sbiadito in confronto del resto del dipinto; come se il curato a
imitazione degli auguri romani, lo avesse qualche volta esposto sulla porta
della chiesa, senza altre parole al suo seguito, per celebrare la festa del Dio
ignoto. Mi avvicinai, e scorsi sul secondo v le impronte evidenti di una
raschiatura; per poco che un'unghia fosse passata di nuovo lassù, si sarebbe
letto un via invece di leggere un viva. Ciò mi fece pensare alla parete d'un
seminario, su quelle stesse montagne, dove avevo ammirato quest'altra
iscrizione epigramma balordo di sanfedisti: Stat ut 0 (sta come zero).
I lettori vedranno in seguito come io fossi in
errore, cedendo in quel momento, davanti a quel v nebuloso, a un dubbio poco
lusinghiero verso il vecchio curato, e più ancora verso il giovanile entusiasmo
che mi aveva così repentinamente animato verso di lui. Però l'ingiusto pensiero
non durò che un minuto. Riapersi il Breviario; mi parve di vedervi specchiato
il bel viso dell'uomo che vi leggeva il paradiso attraverso le rose, e giurai a
me stesso che era impossibile ch'egli fosse un nemico della patria.
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