XVIII.
Tuttociò che aveva visto e inteso in quei due
giorni mi sconvolgeva la testa: sentivo un vivo desiderio di raccoglimento, di riflessione.
Cosa singolare! in quella solitudine dove la vita mi pareva dovesse scorrere
tranquilla come un idillio, monotona come il ciangottare di un ruscello avevo
trovato invece il romanzo feuilleton, il dramma Porte-Saint Martin, il teatro
Fossati; quel dramma e quel romanzo che ora è caduto di moda ma che la vita si
ostina a risuscitare ogni giorno a dispetto del buon gusto e della letteratura
collet-montant.
Scendevo così lentamente lungo le rive dello
Strona, che mi affretto a presentarvi (cosa che avrei dovuto far prima), come
il torrente più realista ed indocile alla moralità idrografica ch'io mi
conosca. Figuratevi che egli non vuol saperne neppure per un minuto di quella
linea retta, di quella misura costante che la convenienza dovrebbe insegnare
anche ai torrenti per trasformarli, se Dio vuole, inquieti rigagnoli, in pingui
ed onesti canali. Dimentico dei suoi doveri, del grande scopo della creazione
che è quello di impinguare le tasche del negoziante di grano e di bestiame, sta
asciutto la maggior parte dell'anno; poi, ad un tratto, quando il ghiribizzo
gli salta, devasta pascoli e distrugge vigneti, cosa contraria all'economia
politica; abbatte baite e casolari, attentato iniquo, come ognun vede,
all'ordine a alla sacra prosperità della famiglia.
E il monello fa l'arte per l'arte; scende a
balzelloni, rotolando massi dalla vetta di Cornalina, gitta sprazzi al sole per
trame delle iridi cangianti. Si butta nei precipizii, si nasconde fra i
cespugli, scompare nelle buche del monte, poi salta fuori a sproposito per
tagliare il sentiero montanino, - e s'adagia fra l'erbe, e folleggia e
spumeggia e si inebbria di libertà e di licenza - con una sicurezza come
facesse la cosa più seria del mondo. Così non è buono a nulla, nè a far girare
una ruota di mulino nè ad irrigare un pascolo, nulla!... malgrado tutti i
tentativi fatti dai buoni padri coscritti di Zugliano e di Sulzena e persino
dall'illustrissimo Consiglio provinciale di Novara per correggerlo e trame
qualche costrutto. Tanta è la sua impertinenza, che se poteste intenderlo, vi
direbbe che Dio l'ha fatto a quel modo e che vuol tirar innanzi in quella
bizzarra sua maniera, - tutte cose che dicono gli scapestrati.
Dopo tutto gli originali come lui divertono i
fannulloni come me, ed io ebbi, finchè rimasi al Presbiterio, cara la sua
compagnia come quella di carissimo amico. Lo seguivo volontieri per qualche
centinaio di passi giù per la china, felice di non essere menato ad uno scopo,
felice dell'indugio perchè piacevole.
Quel dì scesi più in giù fino alla cascata.
Quei di Sulzena chiamano così impropriamente una specie di rapida che termina
in una cateratta dove lo Strona si perde per ricomparire due miglia più in là
nella valle, tra il Passo degli Stambecchi e il cimitero di Zugliano. Il
baratro è profondo oltre a cento piedi; vi si scende per uno scheggiato a
zig-zag fino allo stretto bacino in cui l'acqua, dopo essere venuta giù sopra
un letto inclinato di ciottoli, fa un gorgo e inabissa. Le pareti della rupe
scavate dal torrente, simulano l'aspetto di tortuose gallerie, di stallatiti
grossolane, e si appressano in alto sino quasi a toccarsi in un immenso sesto
acuto, anzi acutissimo, tagliato nel mezzo da una fessura, da un cordone o
bianco lucente o turchiniccio, secondo l'ora: - il cielo. Piove di là una luce
tranquilla e soavissima, la cui monotonia è corretta dai riflessi tremolanti
dall'acqua. Scendono dall'alto, lontani come echi dello spazio infinito, i
suoni radi della vita montagnola, qualche schioppettata di cacciatore, lo
slamar d'una frana, il battito dell'ali di qualche avoltoio, lo strido del
falco. Altri suoni più cupi e misteriosi, a intermittenze meno frequenti,
escono da un crepaccio di fronte, e narrano a voce sommessa l'odissea del
torrente nei fondi recessi del monte.
Il lettore deve a quest'ora essersene accorto,
- se strada facendo, mi si para davanti un ginepraio inestricabile, un pertugio
misterioso, un sentiero che non meni a nulla, bisogna che mi ci cacci dentro.
Però mi lasciai andare giù per lo scheggiato
in fondo allo speco dalla cascata.
L'acqua lascia in disparte alcune tese di
terreno coperto di muschio fitto e finissimo.
Appena l'occhio si fu avvezzo a quella
penombra mi accorsi che non ero solo.
Un giovine chierico seduto in terra col dosso
appoggiato ad un masso dormiva.
Era l'abatino da me veduto il giorno prima, il
nipote di Mansueta, quello che la moglie dello speziale aveva ricordato.
Me gli appressai da tergo senza far rumore:
teneva un libro sulle ginocchia.
Mi chinai, lo presi: erano le Confessioni di
Rousseau: aperte al punto in cui... insomma a quel tal punto... la pagina
gualcita mostrava d'essere stata letta più volte.
Il viso del giovinetto, arrovesciato fra due
sporgenze del masso sorrideva nel sonno come d'una deliziosa visione; la fronte
pallidetta gocciolava di sudore.
Volli riporre il libro, ma questa volta, egli
si destò. Si rizzò confuso e arrossì come una fanciulla.
- Vi
diverte? gli chiesi indicando maliziosamente il libro che egli si sforzava di
nascondere nella tasca.
Chinò la testa; divampò addirittura.
-
Sembra, soggiunsi io nello stesso tono, che quella di fare il prete non sia in
voi la vocazione più spiegata.
-
Evvia, ripresi poi, mosso a compassione del suo turbamento, vi fo paura? Non
abbiamo forse la stessa età? potete bene aver confidenza in me come s'usa fra
amici... non volete che lo siamo amici?...
Rassicurato mi diè un'occhiata di viva
riconoscenza.
Io continuai:
-
Guardate, per darvi esempio di schiettezza, vi confesso, che a torto od a
ragione, mi rincresce vedervi avviato a far sagrifizio di tutta la vostra
vita... dicono che la vita è tanto ricca di brave e di belle battaglie, perchè
ritrarsi? è meglio battersi.
Il poverino crollò tristamente il capo:
- È il
signor Angelo che lo vuole.....
Il solo pronunziare quel nome lo faceva
rabbrividire.
-
Appena acconsentì a incaricarsi di mantenermi egli mostrò la maggior impazienza
di liberarsi di me e volle ch'entrassi in seminario.
- Voi
non siete stato allevato in casa del sindaco?
- No fino
a dieci anni io rimasi colla zia Mansueta al presbiterio. Così vi fossi rimasto
sempre. Dacchè ne sono uscito io non so immaginarmi paradiso diverso dalla mia
felicità in quegli anni beati della mia infanzia, tanto dissimili da quelli che
li seguirono. Quando lessi nel Klopstock i lamenti di Abbadona, l'angelo
esiliato dal cielo, piansi colle sue parole la mia sciagura, e mi trovai più
disgraziato di lui perchè io sono punito di colpa... che non ho commesso. Il
curato mi voleva tanto bene... poi parve sempre amoroso, rispettabile...
l'opposto di quell'altro.....
-
Perchè dunque vi ha abbandonato nelle mani di uno che non ha nessun affetto per
voi?...
- Oh
non è stato lui, ne sono sicuro... quel giorno che io lasciai la mia queta
stanzuccia del Presbiterio, egli mi prese in disparte mi abbracciò stretto e
piangendo mi disse: - Povera creatura, mi ti vogliono levare e mi strappano il
cuore, io ti terrei tanto volentieri. - Poi si fe' promettere ch'io sarei
venuto spesso a trovarlo e che in ogni mio bisogno avrei ricorso a lui. E
diffatti tutte le volte che ha potuto in qualche modo aiutarmi egli l'ha fatto
ed io gli devo tutte le poche gioie che m'ebbi in questi otto anni di
purgatorio.
- Ma
colui là, il sindaco, vi reclamava forse?
- Non
so... se l'ha fatto non è stato certo per tenerezza... e, ne son sicuro,
nemmanco di sua volontà. Ricordo perfettamente tutte le circostanze che
precedettero e accompagnarono la mia disgrazia: c'è di mezzo un mistero che non
ho mai potuto penetrare. Otto anni sono, in aprile, il Vescovo venne a Sulzena
ad impartir la cresima e si intrattenne due giorni al Presbiterio. Lo
accompagnava un canonico, parente del signor Bazzetta; andò ad alloggiare da
costui e la sera stessa dell'arrivo lo condusse qui a parlare con Monsignore.
Veggo ancora lo speziale vestito in abito di cerimonia farsi strada in mezzo
alla gente che ingombrava la soglia ed entrare tutto superbo del singolare
favore. Non so perchè ho sempre sospettato che quel ciarlone sia l'autore dei
miei mali. Il mattino seguente di buon'ora fui svegliato da un discorso animato
che si teneva sotto il mio bugigattolo, nella stanza del Vescovo, quella stessa
che adesso voi occupate. Monsignore faceva ad intervalli non so quali domande,
brevi, come quelle di un confessore o di un esaminatore; il curato rispondeva
sommesso, - non sentivo che il mormorio confuso delle sue parole, - seguivano
delle lunghe pause. Ad un tratto il curato proruppe con maggior vivacità; -
"ma io feci a fin di bene" e la voce del Monsignore incalzava tosto
più severa, più diffusa e accentuata, persisteva su certe parole che venivano
sino al mio orecchio: decoro... convenienza... riguardo. Poi tacquero entrambi;
io sentivo dallo scricchiolar degli scarpini nuovi sul pavimento di legno che
Monsignore passeggiava, Dopo mezz'ora il colloquio ricominciò: e vi si era
aggiunto una voce, quella cupa del signor Angelo. Egli pareva preso da una gran
collera, che frenava a stento e che irrompeva in esclamazioni e in
interiezioni. Il Vescovo lo riprendeva vigorosamente ogni volta, e continuava a
parlare in tono di rimprovero. Mi ricordo d'aver inteso il signor Angelo a
strillare: - le prove, le prove, - e Monsignore rispondergli con recisa
fermezza: - le prove ci sono, le abbiamo.
In quella Mansueta venne a prendermi; mi vestì
in furia e mi condusse abbasso: la buona zia mi parve più amorosa del solito:
era inquieta - ed anch'io lo ero. Il colloquio durò quasi due ore: finalmente
il signor Angelo discese, quel suo viso sinistro che ci faceva scappare noi
bambini, era sconvolto dal furore. Io mi trovavo sulla soglia e non fui in
tempo a cansarlo: egli mi diè un gran calcio che mi mandò ruzzoloni sui
ciottoli della strada. Fu quello il suo primo atto di autorità a mio riguardo.
- Voi sapete che non è stato l'ultimo di tal genere...
Povero ragazzo, mi faceva compassione. Era
tanto avvilito che non poteva neppure nutrire rancore contro il proprio
aguzzino.
Egli continuò:
-
Qualche giorno dopo, la zia cominciò a parlarmi di andare col signor De Boni.
Aggiunse per ispiegazione che egli era parente del padre mio e che egli voleva
così e ch'io dovevo obbedire. Figuratevi il mio spavento; gridai, piansi, - la
zia cercò di tranquillarmi dicendo che il signor De Boni, se ero saggio, mi
avrebbe trattato bene, che mi avrebbe portato amore... ma finiva sempre col
piangere desolatamente; non credeva nemmanco lei a quelle sue parole. Un giorno
fui condotto dal cavallante nel seminario di Novara. Quando, sopraggiunto
l'autunno tornai a Sulzena, entrai per la prima volta in casa del signor
Angelo; egli mi trattò sempre come un cane malvisto. Le mie vacanze sono una
tal tortura che io anelo sempre al collegio come ad una liberazione. Dopo una
pausa conchiuse:
- Ecco
tutto quel che conosco della mia storia: nessuno mi ha mai detto qual sia il
diritto che vanta sulla mia persona il sindaco - e che egli esercita con tanta
malavoglia come fosse il più odioso dei doveri.
- Ma
voi, - dissi io, senza riflettere, spinto dalla curiosità, ma voi che ne
pensate?
La domanda era indiscreta e me ne accorsi
subito e studiavo il modo di ritirarla...... Ma, con mio stupore, il giovinetto
non se ne adontò punto; - mi guardò con amichevole timidezza come volesse farmi
una confidenza e rispose misteriosamente:
- Ho
paura che la mia parentela con colui.....sia assai più stretta di quel che
volesse farmi credere la zia. Questo sospetto è il mio tormento, la mia
disperazione. Nei suoi frequenti accessi di collera il Sindaco mi da i nomi più
oltraggiosi mi chiama... mi chiama... voi capite; - urla che sono la vergogna
della sua casa, - ed io domando bestemmiando perchè Dio congiunga coloro che
non possono volersi bene.....
Un lampo di odio sfolgorò nelle sue pupille e
tosto si spense nella triste rassegnazione di prima, le sue parole terminarono
in un angoscioso singhiozzo. Come il fiotto del torrente mi parve lugubre in
quel punto!
-
Usciamo fuori, dissi io, e quando fummo all'aperto, e che l'aspetto sereno del
cielo, la vista dei monti rivestiti dal raggio di un roseo tramonto ebbe
dissipata un po' la mia commozione, presi il mio compagno a braccetto e,
sforzandomi di dare una gaia intonazione alla mia voce, gli dissi:
-
Ringrazio il caso che mi ha condotto a pescare un amico in fondo alla cascata.
- Forse
non è il caso... soggiunse l'abatino.
- Può
darsi non sia il caso.
- È la
prima volta che mi accade di parlare di queste cose con alcuno e mi ha fatto
bene.
Questa dichiarazione non mi meravigliò punto.
Egli non era il primo a farmela e non fu l'ultimo: ebbi molte volte a ricevere
confidenze da gente che mi vedevano per la prima volta. Io sono stato così il
depositario di molti dolori. È una triste prerogativa: ho dovuto persuadermi
per esperienza mia e per l'esempio di quelli che la dividono con me che non è
segno di fortuna: è una attrattiva che una sciagura esercita su altre sciagure.
In tutti i casi consimili non è mai stato mio
vezzo di far del sentimentalismo: ho veduto che i dolori sono come i ragazzi
viziati: più li accarezzi e più si fanno impertinenti. Io preferisco
strapazzarli: è una cura quasi sempre efficacissima.
Però rivolto all'abatino dissi:
-
Badate però ch'io voglio sgridarvi; alla nostra età la rassegnazione è, scusate
la parola, dappocaggine, La vostra condizione vi par un mantello troppo
pesante? ebbene gettatelo dietro le spalle. Il mondo ha tante strade,
sceglietene una, e tirate innanzi senza voltarvi indietro.
Mi guardò stupito: nessun pensiero di
ribellione aveva mai attraversato quel suo animo umile e mansueto. Si strinse a
me rabbrividendo.
Superbo di farla da Mentore o meglio da Mefistofele,
io ripresi:
- Il
signor Angelo vi tratta come un cane; mostrategli che siete un uomo col
respingere i suoi oltraggiosi beneficii; lasciate la sua casa, buttate il suo
pane e fate da voi. - scommetto ch'egli non vi correrà dietro a farvelo accettare
per forza.
-
Guardate, dissi poi, accennando al libro di Rousseau che faceva sempre capolino
dalla sua tasca, voi avete lì un bell'esempio. Non vi fermate alle sue
melanconie, ai suoi piagnistei: guardate al sodo della sua vita: tutte le volte
che Gian Giacomo ha voluto cercare il successo, il successo gli è venuto
incontro: colpa sua se sovente egli l'ha rinnegato per rinchiudersi daccapo
nella chiocciola della sua pigrizia.
Eravamo così arrivati a Sulzena. Fin là
l'abatino aveva camminato al mio fianco dritto e spedito. Ma all'ultimo svolto
del sentiero, quando apparvero le case del villaggio e più eminente da una
parte del paese, solitaria, più vasta ma non più appariscente dall'altre,
quella del signor De Boni - non potè contenersi. Tolse il suo braccio di sotto
al mio e fe' capire colla sua inquietudine che non voleva essere visto in mia
compagnia. Non insistei e lasciai che prendesse un viottolo di traverso che
girava dietro alle case.
- Ci
rivedremo, caro... come ti chiami? gli domandai.
- Il sindaco
mi fa chiamare Ignazio, per un suo fine di ironia, ma il mio nome è Aminta.
-
Curioso nome!... vuoi ch'io venga a prenderti qualche volta?
- No,
fu lesto a rispondere, verrò io.
E così ci separammo amici, di quella vecchia e
durevole amicizia che a dieciott'anni si fa in un'ora.
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