Seguirono dei giorni queti quanto i primi
erano stati tempestosi. La vita è piena di tali contrasti
"inverosimili".
Pareva che tutta quella burrasca si fosse
scatenata apposta per farmi sentir meglio la pace profonda del Presbiterio.
Dopo una settimana io mi chiedeva se, per
caso, tutto quell'imbroglio, non fosse un sogno: non aveva più incontrato nè il
sindaco, nè il Bazzetta.
Non vedevo che i miei ospiti. Sempre gli
stessi volti, sempre le stesse cose, alle stesse ore. In quella dolce
uniformità di abitudini nessun altro avvenimento che qualche nuovo piatto,
qualche torta di pomi, qualche nuovo guazzetto di Mansueta,
Faceva la mattina di buon'ora grandi
passeggiate pei monti, m'inerpicavo sulle vette circostanti, mi ficcava in
tutti i burroni, in tutte le macchie; felice se riuscivo a scovarne qualche
immagine, schiva dei sentieri troppo battuti, o qualche rima discreta.
Avevo anche ripreso i miei studi di pittura.
Nel pomeriggio, appena scemava un po' il caldo, - scendevo colla mia cassetta
alla cascata dove avevo trovato un motivo eccellente d'alberi e di rupi.
Qualche volta il curato veniva a raggiungermi,
a vedere "se il dipinto andava innanzi" - ma veramente la sua
presenza non giovava punto a mandarlo innanzi, - perchè quando arrivava lui si
cominciava fra una pennellata e l'altra a discorrere, - ed erano più i discorsi
delle pennellate. Il lavoro era un comodo pretesto di star là seduti fino a che
il sole scendeva giù in Valsesia.
In casa mi dava soggezione la presenza di don
Sebastiano, il vice-curato, - il quale, secondo l'usanza, partecipava sempre
alla mensa del presbiterio. Egli non mostrava troppa simpatia per don Luigi; e
il torto era tutto del suo carattere arcigno, del suo spirito gretto e
farisaico. Quel testimonio freddo, impassibile, insensibile pareva fatto
apposta per impedire le cordiali confidenze.
Nella solitudine della cascata, i nostri
discorsi erano molto più intimi.
Si parlava di molte cose, ma più soventi di
filosofia, di arte, di letteratura; egli non aveva ipocrisie, non si adontava
s'anche cadeva nella conversazione il nome di un autore o di un libro messi
all'indice dalla Romana Congregazione.
Confesso che soventi ce li facevo cadere io
apposta, e, per quella curiosità che v'ho detto, lo guardavo di sottecchi per
sorprendere sul suo viso gl'intimi sentimenti del cuore.
Nella letteratura moderna egli s'era fermato a
Byron e a Chateaubriand, e del primo non aveva letto che il Child-Harold. Gli
parlai del Don Giovanni. Poi, man mano gli feci gustare gli scritti piccanti
degli autori più recenti: di Victor Hugo, di Theophile Gauthier, di Heine, di
cui avevo piena la mente.
Se gli domandavo le sue impressioni, - mi
rispondeva schietto, anzi qualche volta preveniva egli stesso la mia domanda.
Mi faceva ripetere volentieri i miei poveri versi,
- ed io sceglievo di preferenza i più bizzarri e i più sconclusionati. Li
ascoltava con attenzione, senza far le smorfie e si contentava alla fine di
dire: - che originale che siete!
Sopratutto si compiaceva di sentirmi a
raccontare dei miei viaggi. Io ho cominciato di buon'ora a girellar per il
mondo a mio talento: a quel tempo conoscevo tutti i valichi delle nostre Alpi,
ero stato in Bretagna, in Normandia; avevo dimorato a Parigi; e conosciuto colà
quella generazione, per cui Victor Hugo ha scritto Les Misérables, un'epopea, e
Baudelaire Les fleurs du mal, un'imprecazione, cesellata nel diamante - avida
delle alte cose che le sfuggono, sdegnosa delle basse che l'assaltano,
generazione crucciosa che prova il rimorso prima del peccato, per cui il piacere
è un cilicio che gli dilania il petto: - avevo posato l'orecchio su quel grande
cuore dell'umanità e ci avevo sentito con una gioia spaventosa gli stessi
battiti morbosi del mio; le stesse soffocazioni d'ideali, le stesse febbrili
concitazioni d'istinti. Io gli descrivevo il grande malanno, di tutti noi
venuti al mondo nello strettoio di un grande peccato e di un grande ignoto;
glielo descrivevo col linguaggio crudele del notomista e del clinico che è la
sola e la dolorosa conquista della nostra filosofia, linguaggio che incide ed
uccide....
Quell'anima buona pendeva dalle mie labbra....
una avidità ingenua, insaziabile lampeggiava nei suoi sguardi scintillanti, -
l'avidità di Adamo per le tentazioni della scienza del male.
Poi, quand'io avevo finito, scoteva la sua
nobile testa come chi rinviene da un fascino opprimente, e diceva sospirando:
- Ah!
la vostra vita non è soltanto oziosa contemplazione, - ma è la lotta, - ed è
anche la vittoria, poichè, dopo aver così giovane affrontati tanti pericoli,
n'uscite buono e credente.
Ero buono e credente davvero?
Egli mostrava di crederlo: nè io lo
contraddicevo.
Forse lo era, - benchè non secondo i dettami
della sua religione.
Appartenevo fin d'allora alla schiera di
coloro che negano assetati di fede, che portano il dubbio come una croce in
cerca di qualche nuovo Calvario.
A sentire i discorsi che noi pronunziavamo a
voce bassa salendo al lume del crepuscolo sotto i grossi noci che costeggiano
il torrente, si sarebbe detto che il più vecchio ero io.
Egli era nato prima, e forse aveva vissuto
meno: interrogava la mia esperienza! mostruoso paradosso di un'epoca in cui i
venti anni hanno qualcosa da insegnare ai sessanta!
Però quel candore che con tanta sollecitudine si
faceva incontro alle mie tristi rivelazioni doveva celare un mistero. E mi ero
proposto di scoprirlo.
Il buon prete intendeva forse per la prima
volta discorsi strani come quelli che io gli tenevo. - Dalla adolescenza alla
vecchiaia egli aveva trascorso gran parte del viver suo in un mondo primitivo.
- Ma, chissà, la passione doveva aver picchiato alla porta del suo eremo, -
essa conosce i sentieri delle tebaidi. Non sempre quando lo spirito è invitto,
il cuore è inespugnabile e nell'assalto alla coscienza, il dubbio è il più
codardo; egli retrocede quando le tentazioni accorrono all'assalto; ma queste
hanno sempre degli alleati nella cittadella: - gli istinti. Molti santi
vittoriosi di Leviathan hanno piegato innanzi ad Artadoth, il demone della
voluttà.
La passione aveva picchiato alla porta del suo
eremo, - il santo era forse riuscito a respingerla, ma non senza fatica, - lo
mostrava quella curiosità ch'io aveva potuto ravvivare disotto alla cenere
degli anni, il temperamento sanguigno del prete.... una segreta cura che gli
leggevo nel viso.... Ma dopo tutto che gusto era il mio di investigare l'umile,
il comunissimo romanzo di un povero prete? Non so, - non già per irriverenza
malevola, - per un vivo capriccio di artista, di psicologo, null'altro. Del resto
il mio rispetto per lui non poteva scemare per la conoscenza di qualche umana
debolezza.
Tuttavia, tanta è la forza delle massime
convenzionali avute dall'educazione, che qualche volta arrossivo di questa mia
innocente curiosità. Me ne vergognavo come di una profanazione.
Don Luigi nell'esercizio del suo ministero me
ne imponeva. Sapeva congiungere alla dignità del sacerdozio una grande
semplicità di cuore.
Una volta, nel pomeriggio della seconda
domenica dopo il mio arrivo a Sulzena, ero passato innanzi alla porticina del
coro mentre egli faceva la dottrina ai ragazzi: mi fermai ad ascoltarlo: la sua
voce delicata, armoniosa arrivava a me congiunta alla soave fragranza del
tempio e le somigliava: egli alternava alla recitazione dei dogmi l'insegnamento
di una sua morale spontanea, indulgente, amorevole. Egli era sicuro del suo Dio
e delle promesse che faceva in suo nome.
Nelle sublimi puerilità del rito, nelle
premure quasi femminili per il suo altare, era poeta ed artista e però anche
fanciullo. Sceglieva le rose egli stesso per riempiere i suoi vasi, ne
disponeva in leggiadra guisa i colori, vi faceva piovere su dalle terse vetrate
della cupola un raggio di effetto sapiente, una luce tranquilla che ispirasse
un dolce e gradevole raccoglimento.
Ed era poi tanto umano e tanto sollecito dei
suoi parrocchiani; egli prendeva sul serio la sua cura d'anime: dove si
soffriva non mancava mai nè il suo soccorso nè la sua consolazione. Certe
mattine all'alba mentre uscivo per le mie corse montanine lo incontravo che
rientrava: aveva passata la notte al capezzale di un infermo; era stanco,
afflitto ma non abbattuto: mi dava il buon dì con un sorriso ed entrava in
chiesa ad offrire davanti al suo tabernacolo i voti della povera creatura di
cui aveva nella veglia penosa assistito i patimenti.
In quei momenti sentivo tutta la sua
superiorità, tanto più grande quanto più inconscia.
Quando don Luigi veniva alla Cascata, era un
amico, un ingenuo compagno che conosceva molto meno di me le cose e le vie del
mondo.
Una cosa mi meravigliava: Don Luigi non
parlava mai di sè.
Se, discorrendo, mi appellavo alla sua
esperienza e gli dicevo: "voi sapete questo e quest'altro" non diceva
nè sì nè no; qualche volta impensieriva come se una subitanea rimembranza lo
assalisse. E la tristezza, ogni giorno crescendo, gli oscurava lo sguardo.
Un giorno, mentre all'ora consueta, noi due
eravamo alla Cascata, capitò il dottore De Emma. Era stato a casa, non ci aveva
trovati ed era venuto a raggiungerci. Sedette sotto i noci e fe' da terzo nella
nostra solita conversazione.
Il discorso cadde sul Renato di Chateaubriand,
lugubre protesta del dubbio uscita dall'anima di un credente.
-
Strano enigma! sclamò il curato.
-
Enigma sì, io dissi, e mostruoso, ma punto strano.
- Come?
domandò Don Luigi.
-
Queste buie disfatte della ragione e della coscienza sono frequenti nella vita.
- Il
pittore ha ragione, disse il signor De Emma; le passioni buone o cattive sono
lievito originale della nostra natura. Dopo una lunga incubazione erompono come
il vaiolo, irresistibili, spesso micidiali, talvolta provvidamente salutari.
Don Luigi parve colpito da queste parole, diè
una strana occhiata al dottore e domandò:
-
Credete?
- Si,
colla differenza che il vaiolo si può prevenirlo col vaccino, mentre per quell'altro
male.....
- Non
vi sono preservativi? ed aggiunse dimessamente: ma e la virtù e il dovere,
e....
- Sono
freni, - resistono, ma si spezzano. Ci vorrebbe uno sfogo anticipato, una
specie di vaccino morale; una cura previdente di affetti che stornassero in
tempo le forze germinanti del male. Ma quale? come indovinarle prima di
conoscere il male? Difficilmente si può e si sa fare. Spesso le condizioni, le
ripugnanze sociali vi si oppongono. E il più delle volte è impossibile lo
scandagliare in fondo alle indoli talvolta diversissime nella sostanza dalle
loro superficiali apparenze: ne ho viste talune disformarsi nella crisi
subitamente, rivelare tendenze di cui non si sarebbe mai sospettato
l'esistenza. E ne ho viste dell'altre trasfigurarsi; e giusto non dimenticherò
mai uno stranissimo fatto accaduto a Sorese in Brianza dove la mia famiglia
possedeva molti anni sono vasti poderi ed io mi recavo con essa a passare i
mesi delle vacanze. Una delle bellezze o rarità, come dicono i ciceroni, di
quel villaggio era Tonio, un povero cretino di dieciotto anni, sciancato,
losco, peloso, due terzi meno che scimmia, un terzo meno che uomo, serio come
un gendarme, ingenuo come una pulzellona, orfano, nudrito, o quasi, a spese del
Comune, errante a saltelloni su e giù per le strade, sdraiato in gennaio nella
neve, accocolato di pien meriggio sotto il sollione di luglio, creatura
incapace ed inoffensiva che rispondeva con un sorriso ed un mugolio a chi gli
gettava il soldo o il tozzo di pane.
Ora, era avvenuto cotesto, che, trovandosi
fornita per bene la cassetta delle elemosine, il dabbene parroco dì quel
villaggio, aveva deciso, previo consenso degli onorevoli fabbricieri, di
commettere a un pittore di città, una nuova Madonna, ad olio, s'intende, e di
grandezza naturale, da collocare al posto di quella vecchia e sdruscita che
faceva torto all'altar maggiore, e, a detta di chi se ne intendeva di arti
belle "era ormai una Madonna che non valeva più un fico".
Quale solennità non fu quella dello
insediamento della nuova Madonna!
Ad ogni svolto di via, archi trionfali
costrutti di paglia intrecciata e di mortella, festoni dall'una all'altra
grondaia, tappeti, lenzuola, coperte da letto ad ogni finestra; altarini
posticci, irti di moccoli smilzi smilzi e di imagini di santi ancora più
smilzi; baracche di merciaiuoli, chicche, aranci, castagne, - per le
circostanti praterie assiti e panche e tende d'ogni colore e d'ogni foggia con
vendita di vino e di birra; e ciarlatani e spacciatori di zolfanelli e
cantatori di bosinate, a suon di pifferi e di chitarre; - e forestieri a
bizzeffe, e di quelli, veh! venuti le cento leghe da lontano; e il cortile
dell'albergo pieno zeppo di carri e carrette e carrozze, - e fior di signori e
signore dagli abiti di panno chiaro e dagli ombrellini di seta e, - ad ogni
quarto d'ora, - una salva di mortaretti che faceva traballar tutto e tutti
dall'un capo all'altro della borgata.
Io vedo tuttociò come se mi fosse ancora
presente davanti agli occhi; mi sento ancora pigiato da quella folla variopinta
in cui si faceva largo di tratto in tratto, coll'autorità dell'abito e forse
più con quella dei gomiti, qualche pievano in ritardo, già prelibante la lauta
imbandizione del parroco; in cui si incrociavano in altrettanti saluti,
congratulazioni, appuntamenti per la cena e pel ritorno, tutti i minuscoli
dialetti della Brianza, da quelli asmatici di oltre Adda, e i secchi e spiccati
del piano d'Erba, fino ai cadenzati e grassotti che cominciano verso la
Camerlata e si spandono, con poche varianti, su tutto il territorio di Varese,
per dar posto ad una lingua, quasi nuova di zecca, sulla sponda sinistra del
Verbano.
Tutta quella moltitudine era diventata d'un
tratto immobile, tutto quel cicalio era cessato come per incanto, a un nuovo e
più formidabile sparo di mortaretti e allo scoppio di una allegra fanfara che
annunciava l'arrivo della processione e quello della nuova Madonna con essa.
Come la cattolica Dea passava davanti a me ed
io contemplava curiosamente quella figura dipinta dal pittore di città, colla balda
ingenuità di un Ottentotto, una mano sulle spalle mi scrollava e una voce ben
nota mi distoglieva dal quadro. Era mio padre, che abbassandomisi all'orecchio
e additando il centro del corteo mi diceva:
-
Guarda la faccia di Tonio!
E infatti, Tonio era trasfigurato.
Armeggiandosi tra la folla con una destrezza che nessuno gli aveva mai
riconosciuto fino a quel giorno, gli occhi dilatati, intenti, assorti nella
faccia della Madonna, egli andava avanti colla processione come se non toccasse
coi piedi la terra, come se un nuovo spirito di vita agitasse il meccanismo del
suo carcame, e l'idea, per la prima volta, avesse susurrato chi sa quali arcane
sillabe all'animo suo. Le labbra del cretino erano agitate da un tremito
convulso; pareva che dietro di esse una parola bussasse disperatamente perchè
le venisse aperto!...
Io ricordo quella faccia, così che potrei,
dopo tant'anni, riprodurla, se fossi pittore, colla fedeltà della fotografia.
La moltitudine, tutta assorta nella imponenza
dello spettacolo, non aveva badato alla trasformazione del povero scemo, e
forse nemmeno la sua profana presenza in mezzo a quel lusso di stole, di cappe
magne, di tricorni, di fiaccole e di stendardi incedenti nella mistica nube
dell'incenso e al suono cadenzato delle liturgie.
Ma il segrestano, una vecchia volpe bigotta,
quando il meraviglioso quadro ebbe passata la soglia della chiesa parrocchiale,
vi si piantò diritto davanti coll'asta dell'elemosina adagiata orizzontalmente
sull'epa, e, a nome delle autorità civili ed ecclesiastiche, intimò a tutto
quel formicaio di popolo che non si facesse un passo più in là; nel tempio non
c'era posto che per gli invitati; se volevano veder la madonna a suo luogo,
venissero l'indomani; ordine esplicito delle autorità costituite, imbandito da
quell'onorevole funzionario, or colle buone or colle brutte, a seconda del
caso.
Ma Tonio voleva seguire la Madonna; implorava
collo sguardo e coi gesti e colle labbra balbuzienti chi sa quale parole di
supplica disperata. Il segrestano lo mandò a rotoli con un ceffone, tra le
risate del publico.
Venuta la sera, tornati alle loro case tutti
quei più o meno devoti visitatori, ridivenuto deserto e tranquillo il
villaggio, coricatosi il curato contento e ben pasciuto, il segrestano aveva
dato di chiavistello a tutte le porte e porticine della chiesa, ne aveva
visitati tutti gli angoli, ed era a sua volta andato a dormire ben pasciuto e
contento.
Quale fu la sua meraviglia quando il mattino
seguente, accendendo le candele per la prima messa, inciampò in un corpo
disteso per terra, ai piedi della Madonna nuova, e riconobbe Tonio e constatò
che era morto!
Alla notizia del caso, divulgatasi nel paese
in un batter d'occhio, una vecchia aveva giurato sull'anima sua di aver udito
uscir dalle labbra del povero scemo, mentre egli seguiva in quel tal modo la
processione - queste parole indirizzate alla Madonna:
"Ti voglio... bene!"
Sarebbero state le sue prime ed ultime
parole...
Don Luigi non si mostrò scandolezzato del
racconto.
Il dottore continuò:
- Chi
poteva prevedere le precauzioni di tenerezza che occorrevano a Tonio? e se si
fossero potute prevedere? - chi avrebbe voluto accordargliele? Intanto la prima
immagine di donna che, per esser dipinta, non stornò da lui, con ribrezzo, gli
sguardi lo uccise.
- Ora
facciamo, dissi con nuovo coraggio, facciamo il caso opposto.
-
Sicuro, riprese il dottore, supponiamo un carattere nobile, elevato, un uomo
superiore. Ebbene, può darsi che egli abbia un'intima inclinazione a delle
sregolatezze strane. Ciò succede spesso: Rousseau ha detto che egli sentiva in
sè, allo stato potenziale tutti gli istinti del più scellerato malfattore:
moltissimi uomini, e dei migliori, potrebbero farvi la medesima confessione.
Questi istinti non si avvertono che quando una causa morbosa sopravviene a
suscitarli, cioè quando è troppo tardi per correggerli. Torniamo al nostro
esempio, facciamo le migliori ipotesi, ammettiamo che quell'uomo superiore
preveda il pericolo - ma sarà egli in caso di scansarlo? le funzioni, le
convenienze, gli obblighi del suo stato, un insuperabile pudore gli lascieranno
la libertà di scegliere i rimedi e di usarne in tempo? Qui sta il punto.
Il dottore s'interruppe; e mi parve di leggere
nei suoi sguardi il rincrescimento di aver detto troppo.
Cambiò discorso: parlò di Beppe.
Il povero uomo, a quanto gli scrivevano, aveva
mostrata una grande docilicità, ma era tutt'altro che rassegnato. Si manteneva
cupo, chiuso nella sua pena come al primo giorno: adempiva il compito della sua
nuova condizione, ma con un fare distratto, collo stupore di chi non vi si è
ancora dimesticato. Gli avevano proposto di fargli venire i figlioli, - egli
ricusava sempre dicendo che sarebbe andato lui a cercarli.
-
"Quando sarò tranquillo" aggiungeva.
Aspettavano dunque che egli fosse tranquillo.
Ma quel giorno non pareva vicino.
- Lo
stato di quell'uomo m'inquieta, disse il curato, siete sicuro che i vostri
parenti riescano a trattenerlo?
- Lo
spero, rispose il dottore. L'ho tanto loro raccomandato che faranno tutto il
possibile.
- E
pensare, soggiunse, che noi ci diamo tante brighe per la sicurezza di quel
cialtrone del De Boni. È vero che non si tratta solo di lui: se mai, una
lezione gli starebbe bene.
- Dio
non voglia, sclamò don Luigi un po' sgomento.
- Non
ha forse permesso il peccato? Però quel disgraziato di Bebbe potrebbe perdersi:
e, v'assicuro che questo sarebbe il solo mio rincrescimento.
Noi eravamo frattanto tornati in paese e
passavamo giusto in quella davanti alla casa del mandriano. Sulla unica
finestra del piano superiore notai gli steli disseccati di un garofano che
penzolavano dall'orlo di una terrina rotta; - ricordo ed immagine della
felicità di un tempo.
Annottava. Non so se fosse per i discorsi del dottore
o per la mia naturale tendenza ad attribuire sentimenti e pensieri alle cose
inanimate; mi parve di intravvedere nell'aspetto squallido di quella casa
abbandonata, chiusa, silenziosa, qualcosa di simile ad una minaccia e
involontariamente alzai gli occhi alla casa del sindaco che si disegnava nel
fondo sopra un cielo di lucida opale.
Qualche passo più in là il curato ci lasciò
per la solita visita che egli soleva fare prima di cena ai malati del
villaggio. Salutò il dottore che voleva ad ogni costo tornare a Zugliano ed
entrò in una porta dove un vecchierello lo attendeva come il vicario visibile
della provvidenza.
Il signor De Emma mi accompagnò fino al
Presbiterio, dove aveva lasciato la sua cavalcatura.
Allo sbocco della piazzetta c'imbattemmo in un
giovine che scendeva dai monti con una scure in ispalla: il quale, appena ci
vide, chinò il capo e accelerò il passo come volesse schivare il nostro
incontro.
Il signor De Emma gli diè una voce, e lo
costrinse suo malgrado a fermarsi.
Allora, sotto le rustiche spoglie del
boscaiuolo, ravvisai con grande sorpresa il mio amico Aminta, che, dal giorno
di quel nostro colloquio alla Cascata, non avevo più riveduto.
- Che
significa codesta novità? domandò il dottore.
- È il
signor Angelo che mi manda ai Roveretti a spaccar legna, rispose con amarezza e
chinando gli occhi vergognoso.
- Ma
perchè?...
- Mi
sono arrischiato a dirgli che avrei preferito un'altra professione a quella
ecclesiastica, - egli è saltato su tutte le furie, mi ha strappato la mia veste
e mi ha detto che ero un villano, e che villano dovevo essere.
Balbettava, tremando, e pareva fosse sulle
spine.
Il dottore non lo trattenne di più. Aminta ci
salutò in fretta e s'allontanò di corsa.
Il suo terrore non era senza motivo: s'era
appena allontanato che sbucò dalla farmacia la sinistra figura del sindaco, e
passandoci innanzi ci diè una breve occhiata di traverso.
Il signor De Emma corrugò la fronte e mormorò:
- poveretto, egli fa una dura penitenza! povera Rosilde se la lo vedesse! e non
poterlo soccorrere! maledetto sistema di spiritualistiche ipocrisie!
Poi, accortosi ch'io lo guardavo con curiosa
ansietà di penetrare le sue parole, tacque e s'avviò a capo chino.
A me rimordeva d'essere la causa di quella
nova testina. E mi persuasi come, il più dei casi, i consigli sia ottima cosa
tenerli per sè.
Anche in agosto, la sera, in montagna, un buon
fuoco è sempre una gradita compagnia.
Intirizzito dalla brezza pungente che s'era
levata al cadere del sole, mi recai in cucina.
Mansueta seduta davanti ai tizzoni rimondava
delle patate per la minestra e intanto teneva d'occhio la pentola che
brontolava in mezzo al camino.
Ella non mostrava la sollecitudine dell'altre
volte; una delle sue bravure era quella di levare la peluria tutta intera e di
farla cadere a terra a spire come la scoria di un serpentello: ma quella sera
la rompeva ad ogni momento e i pezzetti saltavano nel piattello, -
s'interrompeva spesso e si poneva la mano sugli occhi come per tergere qualcosa
che le facesse velo alla vista.
Finalmente in uno di questi intervalli la
pentola levato il bollore traboccò sulle brace che crepitarono e stridettero
annerandosi quasi dalla vergogna dell'inaudita trascuranza di Mansueta. La
buona vecchia non resse a tanta mortificazione: l'afflizione che l'accorava
irruppe.
Mi contò piangendo che aveva visto il nipote.
-
Povero ragazzo, mi si spezza il cuore vederlo così maltrattato, lui tanto buono
e sommesso!
Mi provai di consolarla: le dissi che Aminta
sarebbe presto liberato di quella schiavitù di cani. - E volevo accennare alla
sua età e al coraggio che con essa avrebbe acquistato.
La buona donna mi fraintese, e oltrepassando
il significato delle mie parole mi disse con rustica franchezza:
-
Liberato, oh sì ci vorrà ben altro! Quell'orso ha il cuoio duro: è tomo da
campar cent'anni.
- Oh,
soggiunsi ridendo dell'equivoco, oh! se appena gliene capita il destro, colui
ci facesse la grazia di accopparsi.... l'occasione sarebbe sempre ottima per
tutti di perderlo.... Ma in ogni caso vostro nipote non dovrà mica aspettare
quel giorno per scuotere il giogo. - E giusto io avrei certi progetti in cui
voglio sentire il parere di Don Luigi.
- No,
saltò su a dire la donna, no, la non gliene parli per carità, egli non può
senz'accorarsi sentirne a parlare; gli vuol tanto bene che il solo pensiero
delle sue sofferenze lo fa piangere. In questi giorni è già sempre tanto tristo
che non ha bisogno di nuovi dispiaceri. La non gli dica nulla; ci penseremo poi
al povero Aminta; ora, poichè la Madonna ce l'ha mandato, faccia di tener
allegro il mio padrone, di distrarlo.
La buona fantesca nella sua idolatria pel
padrone sapeva far tacere anche la voce della sua tenerezza quasi materna per
Aminta, l'unica creatura della sua famiglia che le restasse al mondo.
Quando intesimo il passo del curato, ella si
scosse, si assicurò di aver gli occhi ben asciutti, prese il suo solito fare
lesto e volonteroso e per tutta quella sera io contemplai con ammirazione que'
suoi occhi affaticati e quel suo volto scarno sorridere mentre avrebbe pianto
tanto volentieri.
Non scorderò mai quelle sue rughe venerande,
in cui non dirò come il secentista, che vi s'appiattassero gli amori, ma
traspariva tanta e così limpida devozione, una bontà schietta, animosa!....
E anche Don Luigi, benchè avesse tanti motivi
di tristezza, più assai e più gravi di quel ch'io potessi allora immaginarmi,
si faceva una gran forza e conversava e mi parlava di me, delle cose mie
dimenticando, nella premura di intrattenermi piacevolmente, sè stesso e le sue
pene: tutto ciò senza sforzo per una volontaria e spontanea delicatezza.
Invece io, il solo senza fastidi (allora non
ne avevo), io spensierato, pareva il più cruccioso di tutti. Ammiravo come ho
sempre ammirato senza poterlo imitare, quell'eroismo umile di tutte le ore che
piglia la vita come vien viene, come una battaglia e la combatte valorosamente
ad oltranza.
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