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Ambrogio Bazzero
Ugo. Scene del secolo X

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IV.

 

Pochi giorni dopo Oldrado, trascinatosi nello stanzone del castello, cogli occhi smarriti cercava i suoi sproni, e, solissimo, là moriva percuotendo le sue armi. Un tristissimo malore, toltagli la ragione, l'aveva tutto disfigurato. Ugo lo volle vedere nel cofano aperto: e comandò lo si lasciasse giacere due notti ai piedi di quel tremendo scalone.... Dicono le cronache che vi venisse la madonna perduta e ripetesse la condanna: - Voi non credete in Dio!

Oldrado fu sepolto. Ugo si fece cupo, angosciosissimo, apparve come la fiera che tende l'insidia: temette le squille pei poveri trapassati, e, rammentando certi portici deserti, una cappella sempre parata a lutto, fingendosi alla fantasìa un dì in cui si sentissero suonare tutte le trombe del castello, correva al camerotto dell'armi, quasi attendesse ancora il padre, si travolgeva sul letto nel quale sapeva lui essere nato, essere morta la madre, interrogando: - È questa la vita a cui mi dannaste? Che delitto ho commesso prima del mio nascimento? Perché nacqui colla maledizione? - e lagrimava nell'angoscia: - Ho venti anni! E in venti anni tre volte ho sorriso: quando la prima volta su un'altissima cima vidi all'orizzonte sorgere il sole, e vidi che avvolgeva anche me ne' suoi raggi: quando suonò la tromba che mi chiamava all'armi: quando.... Non è riso, è sogghigno! Ebbene sogghigno oggi in cui mi trovo tanto deserto!... Dicono che ci sia il mare. Com'è il mare? Dovrebb'essere come l'anima... Com'è l'anima? - Non aveva mai parlato né con una donna, né con un frate, né con un amico: e si sentiva rozzo, villano, cattivo, crudele, fortissimo, libero.... Con economìa di parole si esprimeva: - Mi sento tormentato! Voglio odiare! E voglio amare!

Il testamento di Oldrado era confìtto nella memoria e nella volontà di Ugo. - Vendicati! Sì, e poteva sorridere o sogghignare per la quarta volta: Adalberto stava sempre chiuso nel suo castello d'Auriate, forte d'uomini, e scaltrito dall'astrologo. Venisse il giorno in cui Ugo, battendo l'avello del padre colle calcagna spronate, potesse dirsi: - Mi ascoltate? Io non ho tempo d'ascoltar voi, se anche mi narraste le istorie del di là!

Venne il giorno, sì: quello in cui l'araldo bandì doversi prestare l'omaggio al signore. Ugo stava ai piedi della chiesa nella sua curte: c'erano pure messer Ildebrandino, Baldo, Aginaldo, e tra gli scudieri Aimone. I cavalieri ascoltarono, diedero mano alle borsucce, poi se ne andarono: Ugo, tenendosi vicino Aimone; gli altri dietro, legati da nessun aperto discorso, pure tacitamente affratellati da un odio solo.

Ugo disse allo scudiere: - Il meno che si sarebbe potuto fare?

- Messere, - rispose questi - dargli a masticare la pergamena.

- Ah! parli dell'araldo?

- In quanto a messere...!

- Ci abbiamo pensato! - attestò Ugo: poi - Aimone, hai conosciuto Unfrido? Sai com'è morto?

- Vostro padre lo fece trascinare dall'istesso puledro morello. Ma perché dite così?

- Per avvisare i traditori - Ugo disse ad alta voce.

- Per Dio!

Allora, udendo questo, Ildebrandino prese a camminare lesto, in modo da giungere a pari di Ugo, e aggiunse: - Per avvisare i traditori e i traditi.

Ugo, il quale struggevasi nell'ardentissime battaglie dell'anima, e in quel momento più che mai sentiva amaro l'essersi ingozzata la vergogna di quel bando, udendo le parole d'Ildelbrandino e notandone il tono, fu lì lì per gridare ai cavalieri:  - Qua la mano e giuriamo vendetta! - E sarebbe stato ascoltato. Egli conosceva Ildebrandino, come Ildebrandino conosceva lui: si salutavano cortesemente quando il raro caso portava che fossero insieme, ma ognuno pensava tra sé: - Se quel valente mi fosse allato! - e l'uno e l'altro nella sommessione al comune signore, trovava, anziché una spinta ad amicarsi ed operare, un argomento penoso per starsi lontani, sospettando che quegli potesse dire di questi, e questi di quegli:  - Perché ha sopportata tuo padre? - Perché hai sopportato, come un giumento, finora? - Adunque Ildebrandino fu soddisfatto di aver dato appicco a quella conoscenza che sperava doversi stringere e mutarsi nella sospirata congiura, giacché di Ugo presagiva molto, sapendolo valoroso e bollente. Ed Ugo fu contentissimo di avere con sua volontà eccitate quelle parole, buon indizio di tempra inflessibile.

Si fecero l'uno appresso all'altro, e il loro esempio fu imitato dagli altri due baroni, messere Baldo e messere Aginaldo: quello un vecchio ringhioso e impaziente; questo un cavaliero poderoso, guerriero quando ci fossero petti da passare fuori, non importa se d'amici o di nemici, cacciatore di lupi audacissimo quando gli mancassero gli uomini.

Si avvicinarono Ildebrandino ed Ugo, e siccome Aimone stette per porsi dietro ad essi, Ildebrandino, cogliendo l'occasione di più chiarire il suo animo e applicando il motto che ci si guadagna ad accarezzare il cane per il padrone: - Scudiero - disse: - avete capegli bianchi e l'essere invecchiato presso messere Oldrado so quanto valga.

Ugo si drizzò tutto, e trovò di concludere così: - O Aimone, imparerai ad aprire i portoni delle castella. Aimone, non farti scrupolo: quando portavi a mio padre la lancia pel combattimento ti facevi forse di dietro? Metti conto che il viaggio può essere lungo. Ma noi ci incamminiamo. Messere Ildebrandino?

- Con la grazia d'Iddio - rispose questi.

- E con la nostra volontà.

E i due cavalieri sporsero simultaneamente la destra e se la strinsero.

Il giorno di Pasqua di Resurrezione già abbiamo veduto come Ugo abbia fatto e Ildebrandino risposto.

I cavalieri eruppero dal castello d'Auriate, avviandosi dietro ad Ugo, e tale era la furia di voler la pugna che si udiva esclamare: - Messer Aginaldo, che dite? - Dico che vorrà essere ottimo giuoco! - Mandiamo i paggi per le armi! - Era tempo! - E i nostri montanari sono tutti pronti e vogliono le prede. - E quelli di Ugo! - Educati da Oldrado! - Orsù!

Ed Ugo gridava: - Ci vuole unione di consiglio.

- Dove andiamo ora? - interrogava rabbiosamente Baldo.

- Se ci attardiamo all'impresa siamo perduti! - gridavano gli altri.

- Volete combattere oggi? - domandava Ugo.

- Oggi! - Sì, sì, gli facciamo in tal guisa gli omaggi! - Oggi!

- Messeri - disse Ugo: - è giorno di Pasqua.

Aginaldo che non lo ascoltava o non voleva ascoltarlo: - Liberiamo le nostre castella! Gli avi le tennero sì o no? Più bella giustizia non si sarà mai resa! Chi è Adalberto? Chi siamo noi? Noi sì siamo i padroni dei nostri servi, ma noi non siamo servi ad alcuno: egli non può essere signore di gente libera.

- Messeri, - ripeteva Ugo: - vogliamo esser leali!

- C'è tregua fino a che il sole va sotto! Dopo si possono squassare quante lance si vogliono - diceva Aginaldo.

- Vero anche questo.

- E poi che cosa è il combattere? Conseguenza di una sfida che non si poteva fare? No, è difesa - esclamava il Baldo.

Qui parlarono di regole d'armi: gridarono, sempre camminando, per togliersi fuori dalla gittata degli archi saluzzesi, che potevano essere nascosti tra merlo e merlo o alle feritoie del castello.

Alla fine Ugo concluse: - Così non si fa alcuna cosa! Unione di consiglio e d'armi: per quella vuolsi che ognuno esponga recisamente: per questa che ognuno sappia di quali e quante forze può disporre. E per l'una e l'altra richiedesi obbedire a un capo.

Tutti intesero benissimo: Ildebrandino e Aginaldo ardenti di entusiasmo: - Voi! - cominciarono a gridare: - Voi il capo! Sappiamo come avete incominciato! Pensiamo come volete finire!

Egli, a vece di rivolgersi a loro, si volse a Dio, acclamando solennemente: - L'omaggio deve essere reso a Te solo. Noi non siamo torme di ribelli, perché non erano torme di schiavi gli avi nostri ab antico! Dunque, cavalieri, - strinse Ugo: - dove ci riuniamo?

- Dite voi. - Dite voi.

- Più atto ad esplorare i movimenti che potesse fare il conte parmi il castello di messere Ildebrandino. Assentite, cavaliero?

- Per la spada di Sichelmo mio! Quando, e' saranno venti anni, venne Guidaccio sul mio torrione, avevo tutti gli uomini appestati da un certo pellegrino che ospitai. "Suonate per me: i nostri figli, spero, ricorderanno questi squilli" dissi. Figli maschi non ho: io voglio rispondere, io stesso, e con me il mio Oberto!

- Al castello d'Ildebrandino - disse Ugo. - Mezzogiorno è ancora lontano. Messere Aginaldo, quanto impiegate dal vostro portone a quello di Ildebrandino su un buon corridore?

- Io non ho cavalli grami - morse il cavaliero: - Con qualunque de' miei in due ore vi sono.

- Dunque, messeri, - comandò il capo dell'impresa: - fra quattro ore a Rupemala.

- Non ho cavalli grami! - incioccò i denti Aginaldo.

- Non dico questo: ne è caso vi offendiate. Ad andare al vostro un'ora, a rassegnare le armi e i vassalli un'ora e mezza, un'altra e mezza dal vostro castello a Rupemala, o forse manco, perché le vostre scuderie hanno tanta rinomanza quanto il vostro valore. - Così fu contento anche messer Aginaldo.

E si separarono.

Primo a mettere il piede sul ponte di Rupemala fu Ugo. Aveva tanto osato e tanto ottenuto in quel giorno, che per ambizione audace, tentava di cancellarsi dalla mente la memoria del padre e della madre, lanciandosi colla fantasìa in un combattimento vittorioso, per fare tutta sua la gloria dell'impresa. Quei fantasmi gli rubavano! E per Dio! suo l'ardimento, sua la valentìa che gli aveva sottoposti spontanei anche i vecchi cavalieri, suo l'accorgimento, e suo l'esito... E se fosse rotta? Oh rotta no, no! Che vitupero!...

Ugo entrò nel castello, perché tosto al suo nome si aperse il portone: fu condotto in una sala d'armi, aspettò poco, osservò molto, computando quanti uomini si potessero arnesare subito con piastra e maglia, poi s'inchinò là dove la porta si spalancava. Venne innanzi messer Ildebrandino coll'usbergo sopra l'abito di pelle: e con lui un bellissimo giovane di diciotto in diciannove anni, pallido, aggraziato, più atto, a giudicare dalla sua persona, a toccare il salterio che a reggere il lanciotto del signore, come voleva il suo ufficio, e questo appariva dagli sproni d'argento.

- Oberto, - disse Idebrandino, prendendolo per un braccio: - questi è il cavaliero Ugo, il quale ti farà degno della sua stretta di mano quando tu avrai la fascia sull'armi.

- Non me la faceste promettere? - Oberto interrogò lo zio coraggiosamente. Si trovava di fronte a quell'Ugo che in un ultimo gioco l'aveva soperchiato in tre incontri! E quell'Ugo già aveva gli speroni d'oro! E lo zio, sperimentato cavaliero, s'inchinava a quel venuto del malanno!

- Quando messere Ugo lo creda, - disse Ildebrandino.

- Quando io la meriti! - interruppe Oberto.

Ugo davvero incominciò ad amarlo.

Vennero i cavalieri, e furono presi gli accordi per la dimane Ildebrandino con Oberto sopraintenderebbe alle macchine guerresche: messer Aginaldo darebbe gli arcieri più abili, coi capitani Guelardo ed Irnando: Baldo vi unirebbe i suoi savoiardi con Aldigero e Ugonello, al cavaliero il comando dei cavalli di retroguardia: a Gisalberto il servizio di esplorazione notte e giorno co' suoi, Oddone, Eleardo capo dei saluzzesi armati di scuri: Ugo alla testa di venti valentissime lance regolerebbe le mosse di vanguardia e d'investimento: e via, e via: i castelli non istarebbero sguerniti: si lascerebbero armi ed avvisatori in ognuno di essi.

Come voleva la cortesìa delle usanze, i messeri furono convitati. Entrarono in una sala assai rozza, ma spaziosa, col tavolo fumante di mezzi capretti arrostiti, colle seggiolone coperte di pelli di lupi. Scinsero le spade, rumorosamente gittandole in un mucchio, allentarono le fibbie delle piastre e delle maglie, si lasciarono andare giù sui panconi, pure nessuno mise le mani nel tagliere, perché un posto, e il più eminente, rimaneva vuoto. Né attesero a lungo: si sollevò l'usciale della sala, e un paggio, affacciando mezza persona, annunziò: - Madonna Imilda.

Apparve la figliuola di messer Ildebrandino e della morta Adelasia, di vaga persona e di animatissimo viso, in stretta gonna oscura, cinta su da uno scheggiale, e coperta il capo dai lati con un velo appuntato: s'avanzò salutando i convitati, e, al cenno fattole dal padre, s'assise al suo posto. A destra aveva messer Ugo, a sinistra il suo parente Oberto.

Ildebrandino così la salutò: - Valenti, udite: la figliuola mia sa assai bene di leuto e canta di Carlomagno e dei paladini: operate in modo che il suo strumento abbia una corda anche per voi; e la sua bocca una voce per le vostre imprese. Amabilissima figlia, abbiateci grazia!

Di poi i convitati presero l'invito non da scherzo, come ai dì nostri, e se da quegli assalti alle vivande dovevasi trarre augurio per la domane, in verità era buonissimo. La sola fanciulla non aveva tagliere dinnanzi e non partecipava all'allegrezza epulona: il che era richiesto dal suo decoro verginale.

Ugo guardava... La smorta faccia di Oberto non era faccia che egli si potesse dipingere incorniciata di maglia, colla bocca che impreca ai nemici, col naso fiutante la polvere del combattimento, cogli occhi dai lustri audacissimi... Imilda, melanconica e dolcissima, aveva l'aureola dei biondi capegli, le labbra dischiuse al canto amoroso, le nari voluttuosamente ebbre come d'alito profumato, le pupille lente nel sopore placido delle visioni insidiose.

Ugo guardava irresistibilmente. Il viso di Imilda gli pareva sfumasse nelle nebbie di un sogno. Che sogno? Oberto toccava il salterio: ella cantava le laudette religiose. No! no! Oberto riprendeva lo strumento e atteggiava la persona al mollissimo abbandono dell'amore. - Per l'inferno, spezzategli le corde! - Ugo con moto improvviso sorse, e si cinse la spada, poi ne morse gli elsi con potentissimo affetto.

- Chi siete? - una e due volte domandò Imilda ad Ugo.

- Sono il figlio di Guidinga.

Imilda lo interrogò con un lungo sguardo. Ed Ugo nuovamente pensando: - Com'è il mare? - si rispose: - Dovrebb'esser come l'anima quando è in tempesta! Come l'anima quando sorge il sole!

E veramente per la prima volta sorrise....

 

 

 




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