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Ambrogio Bazzero Ugo. Scene del secolo X IntraText CT - Lettura del testo |
Alzor, nato dalla stirpe di Maometto, fremebondo di sterminata ambizione di conquista, audace per giovanissima anima e crudele e insaziato, era uscito profeticamente da' suoi deserti di sabbia e di sole, aveva predato l'Egitto, la Numidia, il regno de' Mauri, e, tragittato il mare, co' suoi tigri di soldati aveva rotti i Goti e i confratelli Arabi di Spagna. Dalla Spagna era piombato in Provenza, di Provenza, per sommo castigo di Dio, in Italia. Qui giurò nel nome di Maometto di piantare il suo seggio fatale.
Il luogo di Frassineto serba incerte e guerresche tradizioni intorno a queste orde di miscredenti. Negli Annali d'Italia il Muratori cita all'anno DCCCXXXIII Frodoardo cronista (in Ch. T. II Rer. Franc. Du-Chesne): i Saraceni abitanti in Frassineto meatus Alpium occupant, atque vicina quaeque depraedantur. All'anno DCCCCXL Frodoardo ancora dice che "una gran brigata d'Inglesi e Franzesi, incamminata per devozione a Roma, fu costretta a tornarsene indietro, occisis corum nonnullis a Saracenis. Nec potuti Alpes transire propter Saracenos, qui Vicum Monasterii Sancti Mauritii occupaverunt. Se qui è indicato il Monastero Agaunense di S. Maurizio ne' Vallesi, avevano dilatato ben lungi quegli Infedeli assassini di strada il loro potere". Segue ancora il Muratori, all'anno DCCCCXLI: "Circa questi tempi più che mai infierivano i Saraceni abitanti in Frassineto ai confini dell'Italia e della Provenza (Liut., lib. 5, n. 4). Studiava il Re Ugo la maniera di snidare quei crudeli masnadieri, e conoscendo di mancargli le forze per mare, giacché in quei tempi gli Imperatori e Re d'Italia poco attendevano ad avere armate navali, prese la risoluzione d'inviare ambasciatori a Costantino e Romano Imperadori de' Greci, per pregarli di volere a lui somministrare una competente flotta di navi con fuoco greco, acciocché mentr'egli per terra andasse ad assalir quei barbari ne' loro siti alpestri, esse incendiassero i legni dei mori, ed impedissero, che non venisse loro soccorso dalla Spagna." E Frodoardo ancora, all'anno DCCCCXLII: Idem vero Rex Hugo Saracenos de Fraxinedo eorum munitione desperdere conabatur. Osserva il Muratori: "Pertanto dovrebbe appartenere all'anno presente ciò che scrive Liutprando (lib. 50, n. 5). Cioè che avendo Romano Imperadore inviato uno stuolo di navi a requisizione del Re Ugo, questi le incamminò per mare a Frassineto. L'arrivo d'esse colà, e il dare alle fiamme tutte le barche dei Saraceni che quivi si trovarono, fu quasi un punto stesso. Ugo nel medesimo tempo arrivò per terra a Frassineto colla sua armata. Pertanto non si fidando i Barbari di quella lor fortezza, l'abbandonarono e tutti si ridussero sul Monte Moro, dove il Re li assediò. Avrebbe potuto prenderli vivi, o trucidarli tutti: ma per un esecrabil tiro di politica se ne astenne. Tremava egli di paura, che Berengario, già marchese d'Ivrea, fuggito in Germania, non sopravenisse in Italia con qualche ammasso di Tedeschi e Franzesi. Però licenziata la flotta dei Greci, capitolò con gli assediati Saraceni di metterli nelle montagne che dividono l'Italia dalla Suevia, acciocché gli servissero di antemurale, caso mai che Berengario tentasse di calare con gente armata in Italia. Non è a noi facile l'indicare il sito, dove a costoro fu assegnata l'abitazione. Solamente sappiamo, che a moltissimi cristiani, i quali incautamente vollero passare per quelle parti, tolta fu la vita da quei malandrini: iì che accrebbe l'odio e la mormorazione degli Italiani contro di questo Re Ugo, il quale lasciò la vita a tanti scellerati, affinché potessero levarla a tanti altri innocenti...."
Abbiamo voluto citare questo fatto di Ugo per soggiungere che un altro Ugo, non re certamente, ma una figura bieca che la tradizione ci dice senza certezza cavaliere e boscaiuolo, un altro Ugo, non nelle grandi pagine del Muratori, ma sulle cartapecore sibilline del romito di Malandaggio, appare di nefastissimo nome ai cristiani e agli abitanti delle valli intorno a Saluzzo. Quando è morto il romito? Quando veramente è vissuto quell'Ugo? Nessuna data è certa. Anche la tradizione è morta da un pezzo. Frassineto ebbe delle leggende, e sono svanite: Malandaggio ebbe un romito vecchio che scrisse e che morì, e un altro che misteriosamente gli successe, che non aveva scritto, perché aveva operato, e non scrisse perché ancora operò prima di morire....
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Non ci intrichiamo nella storia a stabilire date o a fissare il progresso di questi Saraceni, ma pel romanzo accettiamo la tradizione.
Più breve d'ogni cronista, e senza mettere date, eloquentissimo, il romito che scrisse lasciò questa memoria: - Cadde Genova, cadde Casale, cadde Torino. Alzor è alla Dora!
Alzor era alla Dora. Una sera di un giorno vittorioso egli aveva posto l'alloggiamento in un Santuario della Vergine. Fulgente di gioia, gloriosissimo e temuto, sontuosamente vestito, colla spada ricurva e con un pennacchio di diamanti, egli sedeva sui gradini dell'altare maggiore: gli incensi cristiani e e gli aromi insidiosissimi degli harem intorno a lui spandevano tepori e profumi: uno schiavo di Provenza suonava l'organo da flato: vampeggiavano per scherno sulle fredde lastre dei morti due grandi cataste di pino olente: danzavano seminude, procaci e velenose, o si raccosciavano sui sacri paramenti, afflosciate dalla voluttà, venti schiave diverse, dalla nerissima alla bronzina, alla candida rosata. Alzor banchettava: servivano a lui e alle femmine i vasi d'oro e d'argento, che aveva predato nella sua corsa di conquista, e per abiti si buttavano indosso le planetas de coco e toalias cum frixio, opere plumarie, e crysoclava et vela holoserica, de basilisci, fundatum de alithinum, della Soria, di Costantinopoli, della Persia, dell'Egitto, le cose insomma che troviamo nelle cronache dell'evo medio, e gli ornamenti, come inaures, anulos, dextralia et perselides, monilia olfactoria, acus, specula. Dall'Africa e dalla Spagna aveva rubato cortinaggi, addobbi, tapetia belluata, che Sempre trascinava con sé, profumandoli coi nettari e insozzandoli col sangue, letti di voluttà e coltri pei moribondi.
Alzor, dice il romito, calpestava una veste della santa Madonna di Provenza, vestem chrysoclavam ex auro gemmisque confectam, habentem historiam Virginis cum facibus accensis mirifice comtam. Alzor giaceva trionfalmente sui cuscini palpitanti di otto o dieci ardentissime more: Alzor, al principio dell'orgia, s'era circondato di cento armati fedeli: aveva il carnefice al fianco, e pure a fianco un bardo ispirato della sua razza che cantava le vittorie di quel giorno e la somma protezione di Maometto: - O felice, o potente, o caldo, o amato, o pasciuto, o protetto dal profeta, Alzor! Tu hai Dio, il denaro, la donna, la spada, la vittoria. Preghi coll'ardore del nostro sole adorato: getti le gioie e gli ori come il villano getta la semente: le donne si sdraiano su tuoi tappeti e muoiono di voluttà, felici se il loro ultimo sospiro ti rinfocola un nuovo tripudio: la tua spada è più possente e più curva del grand'arco dei cieli; insanguinata, si gemma: né sul tuo acciaio s'annubila il riflesso mesto del tramonto.... Il tramonto? Chi dirà questa parola?
Alzor aveva già fatto un cenno al carnefice.
Continuava il bardo: - La vittoria, la gloria, il regno! Esulta, o Alzor!... Esulta!... Noi ti adoriamo!
Ricominciava l'orgia, e Alzor era felice. Sì, aveva Dio, il denaro, la donna, la spada, la vittoria! Felicissimo!
Udite strano contrasto. Quella sera, in quell'ora di beatitudine smodata, a un tratto entrò nella chiesa un montanaro.
Egli era lacero e scarmigliato, insozzato, puzzolente e sinistro. Cupo come una belva famelica, livido pel freddo, custode rabbiosissimo di un fardelletto di pelli, si drizzò, camminando sui tappeti, le sete, le coppe rovesciate e gli ori, fra le donne nude, al riverbero del fuoco, fra il fumo degli incensi e delle dapi, fra il canto del bardo, si drizzò verso Alzor.
Cessò l'orgia.
- Chi sei tu? - domanda l'audacissimo Saracino. Le sue guardie gli si stringono appresso: il carnefice ghigna: ma più maledette ghignano le femmine insaziate....
Il montanaro pare né vegga né ascolti.
- Chi sei tu? - ridomanda Alzor: - Non temo l'insidia! Si scuote allora l'uomo e grida profondamente: - E tu chi sei?
- Io un eletto del profeta.
- Io un castigato da Dio.
E Alzor già infastidito: - Ebbene? Che cerchi qui?
- La mia vendetta!
Vieppiù si stringono le guardie: e le donne ancora, svegliandosi briache, superano in protervia crudele il carnefice. E Alzor discacciandolo: - Vanne!
Ma il montanaro ruggisce: - No!
- No! no! - supplicano intorno le schiave, avide di sangue,
- Ebbene parla - comanda Alzor.
- Io parlerò! Tu sei potente, o Alzor! Osanna! Ma tu hai fallato se credi di resistere nel piano alla colleganza dei signori da Saluzzo a Susa.
- Parla.
- Io parlerò!... Tu sarai vittorioso, o Alzor! - esulta il montanaro, stringendo il suo fardelletto come se fossevi correlazione tra la sua mente e quello: - Si. Io ti apro i passi delle valli: lungo la Dora ti conduco in valle del Chiusone, là sorprendi quelle rocche che sono vassalle al sire di Susa: poi ti slanci improvviso dai monti sopra Saluzzo, senza che dalla Dora Taizzone, Agobardo, Fulberto, possano mandare aiuto ai collegati. - Poi, sfavillante orrendamente in volto, colla gioia di un profeta: - Nella valle del Po vi sono le castella di un Adalberto, di un Oberto, di un Baldo. Se vinci, come ti giuro che vincerai, mi dai que' tre prigionieri? Alzor fece circondare l'uomo dagli armati: credette sì e no: e disse: - Vuoi altri patti?.
- Hai tu ancelle? - sospirò il montanaro, quasi emettendo un alito di fuoco.
- Il sorriso dell'amore è più bello fra l'armi. Vedi le mie conquiste! Ho egiziane, numide, maure e gote, arabe, spagnuole, provenzali, serpenti contìnui di continue voluttà. Uomo, non guardarle! Ti comando. Sei tu, cristiano, che aspiri al mio paradiso? Ascolta: ho anche l'aguzzino.
- Non ascolto! Ma supplico! - gemette il montanaro: - Tu hai ancelle: cerca il seno più ardente, e, fammi somma carità, lascia che il latte sia succiato da chi muore di fame! Ho qui una bambina morente!
- Che? i vagiti fra l'armi?
Allora il montanaro, facendosi pensoso e sciogliendo il fardelletto, mostrò una creaturina già quasi paonazza, un piccolo mostro di dolore: e disse: - Su questa bambina, nata da conti illustri, c'è su copiosissima taglia ove sia consegnata ancora viva in valle di Po, a Lanciasalda. Se vuoi, là ti aspetterò, e la ventura è tua.
- Cristiano, quante castella vale? - domandò Alzor che intendeva sotto quelle poche parole nascondersi un gran mistero di fatti.
- Tre castella. Ma mi darai i tre prigionieri.
- Ho da pagare Almor, Zanata, Zullik, rapacissimi. I soldati vogliono posa, i duci oro.
- T'offro guerra breve e tesori.
- Cristiano, ciò che hai detto è conforme a verità?
- Interroga il profeta.
- Il profeta non risponde: mi risponderà la tua testa.
E il montanaro si piegò tutto come se sopra il suo capo gravasse una catena di ferro. Erano anella e anella di delitti: era la catena del destino.
Ed Alzor, sorgendo e ributtando una egizia che gli si avvinghiava pregando, comandò: - Suonate le chiarine e i timballi.
L'uomo baciò la figlia: poi la vide suggere da un seno avidissimamente: poi si volse ad Alzor: - Io sarò con te!