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P. Giocondo Pio Lorgna, O.P.
Discorsi di formazione religiosa alle Imeldine

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78.     (s. a.)

 

Alla richiesta della superiora di una casa filiale di avere uno scritto che aiutasse le figlie a fare bene la Quaresima, P. Giocondo risponde commentando il Vangelo della domenica di Quinquagesima. È la profezia della passione, morte e risurrezione di Gesù. Il punto focale del discorso è questo: il Cristo, pur sapendo con precisione tutto quello che sarebbe accaduto, perché si è liberamente sacrificato? La risposta è assoluta: per amore delle sue creature da salvare. Come per amore delle sue figlie Padre Lorgna ha steso questa meravigliosa meditazione.

Testo in AL V 730 (6)

 

 

La superiora di una casa filiale mi ha chiesto uno scritto che incitasse le figlie a fare bene la santa quaresima ed io rispondo volentieri con un breve commento al tratto di vangelo che nella domenica di Quinquagesima si è letto ai fedeli, al fine di disporli a un tempo di penitenza quale è appunto quello della quaresima.

Il Vangelo offriva alla riflessione delle anime pie la profezia di Gesù riguardo alla sua passione: eccolo. "Noi andiamo a Gerusalemme e tutte le cose scritte dai profeti, intorno al Figliolo dell'uomo, saranno compiute. Egli sarà dato in mano ai gentili, vilipeso, flagellato e sputacchiato. E poiché l'avranno flagellato, l'uccideranno e il terzo dì risorgerà" (Lc 18, 31-33).

La Chiesa sapientemente fa meditare questo tratto del vangelo ai fedeli la domenica, prossima alla quaresima, perché col ricordo della passione di Gesù si preparino a passare santamente un tempo sì santo. Questo tratto è una delle profezie di Gesù più chiare e presenta agli apologisti uno degli argomenti più belli della sua divinità.


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Dove Gesù ha saputo che andando a Gerusalemme egli sarebbe stato trattato sì vilmente e dato alla morte infame di croce? Tutto lo svolgimento della sua passione dipendeva dagli atti liberi degli uomini e chi può prevedere ciò che essi faranno anche fra brevi istanti: potrebbero fare una cosa e non farla, anzi fare tutto l'opposto delle nostre previsioni; e se svanissero?

Ebbene, vedete Gesù che determina anticipatamente tutto quello che farà di lui una turba di popolo inferocita, dopo di averlo esaltato con un trionfale ingresso nella santa città: accenna alla pena, a cui l'avrebbe sottoposto Pilato con la flagellazione, e alla morte di croce, voluta dal popolo sobillato dagli Scribi e dai Sacerdoti. Egli profetizza e coloro che l'avevano udito parlare così sarebbero stati testimoni dell'avveramento del vaticinio doloroso.

Gesù, se fosse stato un semplice uomo, non poteva sapere ciò che avrebbero fatto di lui i suoi nemici. Se egli dunque conosce tutto, fino alle particolarità più impressionanti, è segno evidente che egli è Dio; solo Iddio conosce anticipatamente gli eventi umani quasi fossero presenti: il suo sguardo non soffre successione di tempo.

Gesù poi, accennando alla sua passione, parla senza figura alcuna; non usa né metafore, né parabole; prende i termini nel loro genuino significato e tutti gli apostoli comprendevano benissimo ciò che prefigurava essere "egli dato in mano ai Gentili; vilipeso, flagellato e sputacchiato". E poiché l'avranno flagellato, l'uccideranno. Eppure, nonostante un eloquio sì chiaro, il vangelo nota che essi non compresero nulla di queste cose. Che è ciò? Gli apostoli intendevano benissimo il senso delle parole pronunziate da Gesù, riguardanti la sua passione, ma non sapevano raccapezzarsi come mai "il figlio dell'uomo", cioè lui, avesse a terminare con una morte sì tragica: egli, il figlio di Dio, il sospirato Messia, il taumaturgo che operava tanti miracoli, sarebbe morto sazio di obbrobri e di patimenti?

Gli apostoli non sapevano mettere insieme la vita del Figliolo dell'uomo sì santa e una morte sì infame: quello che non comprendevano allora gli apostoli, lo sappiamo noi. Perché tanto patire e morire? Prima di Gesù Iddio era conosciuto attraverso lo spettacolo dell'universo  e  il  velame delle sacre scritture: le cose create e i libri


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santi che idea grandiosa danno di Dio! Gli stessi filosofi pagani, Aristotele e Platone, hanno pagine bellissime riguardo a Dio creatore; il popolo ebreo poi, leggendo le sante scritture, non poteva non formarsi un'idea fulgidissima della sua sapienza, della sua giustizia e onnipotenza. A mezzo del creato e dei libri santi il mondo conosceva Dio e alcune delle sue perfezioni più luminose; ignorava però l'argomento più evidente e perentorio: la divina bontà. Quale?

Primo argomento della bontà di un cuore è fare il bene con la speranza della mercede; quell'infermiera tratta delicatamente il suo infermo, ma dinanzi al suo sguardo brilla il luccichio del denaro: la sua carità è piuttosto mercenaria.

Il secondo grado della tenerezza di un cuore è fare il bene e sorvolare sulla ricompensa. Quell'uomo opera piamente perché è tratto dal bene stesso: a lui basta la gioia della sua coscienza nel compimento di un atto generoso verso l'umanità sofferente.

L'ultimo grado della carità è fare il bene ai propri fratelli con nocumento proprio: sacrificarsi, immolare se stessi per l'utilità altrui. Ecco la prova più evidente della bontà di un cuore.

Iddio aveva, sì, creato il mondo, aveva fatte alcune rivelazioni di sé all'umanità, ma ciò che sacrifizi costava a lui? Egli ha detto, "ipse dixit", e tutte le cose furono fatte: "et facta sunt": egli ha parlato dunque e al suo comando brillano gli astri, si distendono i mari, la terra appare tutta ammantata di fiori e piena di vita. Egli parla ancora e l'uomo conosce alcuni segreti intimi di Dio, che sono poi raccolti nei libri santi; ma sì, nell'un caso come nell'altro, quale sacrifizio da parte di Dio? Nessuno.

Ma quando questo Verbo si fece carne: "et Verbum caro factum est", e Iddio, oscurando tutti i fulgori della sua divinità, apparve tenero bambino, operaio, apostolo, e martire nell'altare della croce, allora sì che nella immolazione di sé, rivelò tutta la pienezza del suo amore, dando a noi l'argomento maggiore che ci parla d'amore: il sacrifizio.

Allora l'uomo comprende tutti i palpiti dell'amore divino e guardando il Crocifisso con S. Paolo esclama: "Chi non ama nostro Signore Gesù che egli sia anatema, cioè scomunicato, ossia separato dalla Chiesa e dalla comunità".


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Ecco S. Bernardo che prendendo in mano il Crocifisso ne contempla tutte le piaghe, le lividure, la corona di spine e i chiodi e grida piangendo di tenerezza: “O Gesù, quanto più ti sei fatto vile per me, tanto più mi sei dolce ed amabile; quanto tu pro me milior tanto mihi carior".

E' S. Domenico che mai si sazia di meditare la passione di Gesù sia guardando il Crocifisso che il Tabernacolo; è S. Francesco che non sogna che la croce, non vuole che la croce, e merita le sante stimmate. Ma la vista del Crocifisso non solo ci parla d'amore e desta amore; ma vogliamo che l'amore nostro per Gesù imiti quello di Gesù per noi: egli ci ha amato soffrendo e noi l'ameremo godendo?

Gli apostoli, dopo di aver ricevuto lo Spirito Santo, intesero il perché della passione di Gesù e di nulla più si gloriavano che di patire per Gesù. "Ibant gaudentes... Iesu… pati"... (cf At 5, 41), la loro gloria, la loro consolazione era la croce.

S. Paolo descrive in una epistola famosa tutti suoi dolori: sofferenze di terra e di mare; di spirito e di corpo; egli é flagellato, gettato in fondo a un carcere, la spada che gli deve mozzare il capo è sguainata dinanzi al suo sguardo ed esclama: "Sovrabbondo di gaudio in ogni tribolazione". Forse che il dolore, come dolore, è piacevole a lui? Era sì, piacevole, ma non come dolore, ma quale argomento ed espressione del suo amore per Gesù! Gesù aveva sofferto, amando, e S. Paolo voleva amare soffrendo.

Ecco, distesa sul letto degli ultimi dolori atrocissimi la B. Colomba da Rieti, ella tiene in mano il crocifisso e lo vuole tutto inghirlandato di rose che è il fiore dell'amore. E con quell'atto gentile sembra dire a tutti: "Le sofferenze sono le rose dell'amore del mio Gesù per me, e le sofferenze siano pure le rose del mio amore per Gesù!". Così hanno fatto i santi dinanzi ai dolori di Gesù, e noi?

La quaresima, o mie figlie, ci ricorda Gesù nel deserto che prega, digiuna e lotta con il demonio. Ecco quale deve essere la nostra quaresima: una vita di preghiera e di penitenza. Non potremo far digiunare lo stomaco, perché le nostre forze e le nostre occupazioni non lo permettono?  Facciamo digiunare i nostri sensi esterni ed interni e il nostro intelletto e la volontà nostra con una obbedienza


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più umile e generosa. Il demonio ci tenterà e l’esempio di Gesù ci conforti alla battaglia e alla vittoria. Passerà la quaresima con le sue fervide preghiere e la penitenza austera, e il frutto?

Gesù disse agli apostoli recandosi a Gerusalemme che lì si sarebbe svolta la sua passione ma che… "il terzo giorno risorgerà". Ecco la gloria che nasce dal dolore, ecco l'esaltazione che sorge dall’umiliazione.

Spunterà l'alba della Pasqua e l'inno trionfale, con cui la Gerusalemme celeste e terrestre saluta il Redentore risorto, sarà una eco giuliva nel nostro cuore perché, uniti a Gesù nella preghiera, nella lotta e nel dolore, lo saremo anche nella Risurrezione. L'anima, purificata dalla penitenza, infervorata dalla preghiera e rinforzata nella lotta si sentirà rinnovata: tutta ammantata, con le virtù più belle, della luce fulgida del Divino Redentore.

 

 

 




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