1 PRIMO RICORDO*
Si era verso la
fine della seconda guerra mondiale (1940 – 1944) e tutto era problematico. Il
mangiare scarseggiava e, se si voleva e si poteva acquistare gli alimenti di
prima necessità, si potevano trovare solamente al mercato-nero1, di nascosto, a permuta. C’era sì la
‘tessera annonaria’ per ricevere le razioni assegnate ai tesserati, ma quanto
era passato: pane, olio, sale, zucchero, carne, farina, formaggio, medicine,
sapone ecc., non bastava per sostentare in modo adeguato la famiglia. Eh sì,
situazioni difficili per tutti! Per me... no. Ero proprio piccolino ed ero come
lo sono tutti gli infanti che si sentono il centro del mondo, fine a se stessi!
Il primo
ricordo mi porta indietro di una vita e mi vedo accomodato su un seggiolone
alto poco meno della tavola. All’estremità dei braccioli di questo aggeggio, la
mamma aveva messo una sicura (una traversa di legno) legata con lo spago in
modo che, muovendomi, non cadessi a terra. Penso che avrò avuto circa tre anni,
perché il seggiolone era alquanto largo. Mi sentivo messo su quella specie di
piccolo castello, accomodato sopra un cuscino di stoffa nera imbottito con le
foglie secche delle pannocchie del granturco mondato, le quali ad ogni mio
movimento scricchiolavano di continuo. Alle mie spalle, verso un angolo, vi era
la porta e, verso l’altro angolo, vi era la finestra che aveva la parte
inferiore coperta da una leggera tendina con gli orli ricamati. Detta finestra
aveva il parapetto molto basso e, senza questa protezione la gente che passava
per la strada, avrebbe potuto curiosare dentro la cucina. Vedevo queste
particolarità girando la mia testina una volta di qua, una volta di là. Di
fronte a me vi era la tavola con attorno le sedie e a ridosso della parete
corta di fondo, vi era una credenza di colore marron chiaro. Questo mobile
aveva due sportelli di vetro decorato. In un disegno vi figurava un damerino
che faceva la riverenza togliendosi il cappello e nel secondo appariva una
damigella che gradiva l’inchino allungando una mano, ricambiando. I due
sportelli di vetro stavano nella parte alta. Nella parte vuota, quella a mezzo
mobile, vi era sistemata la sveglia ed altri oggetti. Ancora più sotto vi
stavano due cassetti paralleli e ancor più verso il basso la credenza finiva
con due sportelli di legno massiccio. A ridosso della parete e sopra la
credenza, vi era la scala con i propri scalini. Il tutto era in legno d'abete.
Questa gran scala, ben isolata con della faesite, conduceva in camera. La scala
così costruita poteva servire come un passaggio separato ed isolato e lo sporco
delle scarpe non sarebbe caduto in cucina. Io, incollato sul seggiolone, potevo
solamente agitare le gambette a penzoloni, muovere le braccine, le mani e la
testolina. Per il resto era come se fossi un pezzo di qualcosa vivente,
incastrato fra i due braccioli. In alto, al centro della stanza, stava a
penzoloni un sacco di tela bianca con la parte alta girata più volte su se
stessa e bloccata con una stringa di cuoio. La sacca riempita di pane secco,
era appesa ad una corda grossa e lunga. Un robusto uncino, avvitato al trave
maestro, reggeva la corda e, quando fosse stato necessario, si sarebbe fatta
scorrere a seconda che la si tirasse o la si allentasse. La corda andava a
fermarsi, strettamente bloccata con un nodo fatto ad asola, ad un gran chiodo
conficcato nel muro e per arrivare a scioglierlo bisognava salire su una sedia.
Così, quando gli adulti non stavano in casa, i ragazzi non sarebbero mai potuti
arrivare tanto in alto da poter allentare il nodo, abbassare e aprire il sacco
per prendersi un pezzo di pane. Quando si fosse esaurita la minuta scorta del
pane chiuso a chiave all’interno di un cassetto della credenza, mio padre
avrebbe slegato la corda dal chiodo e, quindi, molto cautamente avrebbe fatto
scorrere la corda sul gancio per far scendere la bisaccia finché non si fosse
adagiata sulla tavola. Questa scorta di pane era il sostentamento per tutta la
famiglia. Circa a mezzo metro sopra il sacco, strettamente bloccato alla stessa
corda, sporgeva un lamierino di latta, come se fosse un’ala, fungendo da imbuto
capovolto. Con tale astuzia di mio padre i sorcetti, che si arrampicavano
seguendo la corda, sarebbero scivolati senza avere la possibilità di arrivare a
rubare il pane.
L’unica persona, che si muoveva
in cucina era la mamma, che indossava un completino color blu scuro abbellito
da disegni di fiorellini bianchi. La vedo con i suoi capelli nerissimi a
crocchia, che era fermata da due lunghe forcine e da pettini ricurvi di
tartaruga. Lei era tutta indaffarata prestando attenzione al fuoco della stufa
economica per preparare il mangiare per il mezzogiorno. Sopra la tavola aveva
allargato la tovaglia, disposti i piatti, le forchette, i cucchiai, i coltelli,
i bicchieri, i tovaglioli e, quando vi stava ponendo sopra una bottiglia
d’acqua, scoppiò in un pianto a dirotto e disse: “Siamo proprio poveri, noi:
oggi è il giorno di Pasqua e non abbiamo neppure un goccio di vino da servire
in tavola!” Intanto si era messa una mano sopra la bocca, chiudendola a pugno,
quasi per fermare le parole (penso perché, guardandomi, avrà visto che ero
sbiancato come il latte e avevo gli occhi stralunati). Allora, lei cercava come
di riprendersi, ma ormai dai suoi occhi scendevano copiose lacrime che tentava
di asciugare con l’altra mano aperta.
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