3 UNA
LEZIONE D'ITALIANO*
Mia madre da tutti era chiamata
Annetta, ma se qualcuno non la conosceva si spiegava dicendo l’Annetta dei
Pieri e così era chiaro per tutti chi era. Lei si sarebbe sacrificata per la
propria famiglia, per il marito Giovanni, per i figli Luigi e Antonio (che sono
io) e per l’altra donna in casa, la Teresita. Quando frequentavo le classi
elementari, la mamma mi seguiva sempre per darmi una mano e un giorno, dato che
la signora maestra per fare esercizio di scrittura aveva dato, alla scolaresca,
da comporre un tema a casa, lei mi stava accanto cercando di controllare se
scrivevo in buon italiano. Per risparmiare (penso che tutti gli scolari
facessero nello stesso modo), scrivevo la brutta con il lapis così da poter
sostituire le parole meno adatte o quelle non appropriate o quelle ripetute o
gli strisci fatti per sbaglio. Per cancellare gli sgorbi, adoperavo la gomma,
che era formata e divisa in due parti differenti. Una parte era di colore
chiaro, direi bianco sporco ed era di pasta tenera, l’altra parte, invece, era
di color rosso, direi arancione smorto ed era di pasta molto compatta, quasi
quasi, sembrava che vi fosse della sabbia impalpabile. Questa seconda parte,
più che cancellare, raschiava e, se non si fosse tenuto la mano leggera,
avresti perforato il foglio di carta. Se, per combinazione, la gomma fossa
stata dimenticata o persa o del tutto consumata, si ricorreva all’astuzia della
mollica del pane fresco, amalgamando le briciole a mo’ di uno gnocco. Quando si
scriveva direttamente a penna, invece, era impossibile apportare delle
correzioni ed, in più, si correva la probabilità di imbrattare numerosi fogli
del quaderno. Quale gran vergogna era sentirsi apostrofare un incompetente, un
maldestro, un incapace, un pasticcione, uno con le mani flaccide, un buono a
niente! Terminato il componimento in malacopia, riportavo il tutto in bella
copia servendomi dell’inchiostro blu. La mia più gran diligenza, era quella di
non lasciare nemmeno una pecca delle dita sporche sulla facciata del foglio.
Gli inchiostri erano di due colori, blu e nero. L’inchiostro blu costava meno
di quello nero, che era usato solamente per gli scritti definitivi o per i
compiti più importanti. Io scrivevo (penso che tutti gli scolari facessero
nello stesso modo) la malacopia con la penna lapis perché scrivendo a penna si
correva il rischio di spuntare numerosi pennini. Alla mamma sarebbe tanto
piaciuto che io facessi bella figura con l’insegnante, con la scolaresca e
anche per lei stessa. Così, quando avrebbe parlato di me con le donne della
contrada, si sarebbe vantata di avere un figlio intelligente e colto. Quel
giorno, lei mi seguiva più del suo solito sbirciando, con la coda dell’occhio,
che cosa facevo e finché scrivevo non fiatava, ma se mi fermavo un attimo
diceva: “Hai finito?” o “C’è qualche problema?” o “Muoviti, ché il tempo passa
velocemente e non riuscirai a riportarlo in bella copia! Che cosa leggerai
domani alla signora maestra?” E dai e dai, una volta messo il punto fermo,
chiamo la mamma e tutto contento: “Ho finito! Vuoi che te lo legga?” “Sì,
leggilo!” Ed io, pavoneggiandomi, iniziai a leggere cercando di seguire la riga
con il dito della mano per non perdere il segno. Leggi e leggi, giunsi alla
frase nella quale avevo scritto: “…e io
ho catà…”. A questo punto, la mamma fece un atto repentino, stralunò gli
occhi, mise le mani sui fianchi come facevano le secondine delle SS, in quegli
atroci frangenti di tempi fa, per terrorizzare gli infelici imprigionati. Lei,
poveretta, faceva la dura per sforzarmi a star più attento e per invogliarmi a
studiare con più lena così da riuscire a comporre correttamente. La mamma,
facendo la maestra, così sentenziò: “Impara a scrivere in corretto italiano,
non si scrive io ho catà ma... io ho catato. Senti come suona bene?”
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