14 IL MIO PRIMO SERVIZIO COME TASSISTA
Era uno dei caldi giorni d’estate
di fine luglio del ’79, con il tempo sempre gradevole di Roma. Alla ricerca di
un lavoro, fui presentato da un amico, certo Peppino, detto ‘padroncino’,
(perché proprietario del proprio taxi), ad un suo amico, certo Luca, detto
‘industriale’, (perché proprietario di più licenze di taxi). Il signor Luca,
dopo la presentazione e dopo alcune domande, affidò a me, quale suo ‘sostituto
di guida’, il taxi a lui personalmente intestato. Questo accordo avrebbe dovuto
durare per tutto il mese d’agosto. Preciso che, vissuta quella breve esperienza
e nonostante le mie tante difficoltà economiche del momento, conclusi che non
avrei continuato quell'attività, perché eccessivamente sfibrante e non consona
alle mie aspirazioni. In quegli anni possedevo una ‘FIAT 500’, una vettura
acquistata di seconda mano, e con essa mi recavo al garage all’interno del
quale era parcheggiato quello ‘stallone-metallico’ da prelevare e cavalcare.
Ospitavo la mia ‘500’ nel luogo più vicino all’arcano ingresso dell’autorimessa
sul frontespizio della quale non era scritto, ma nel mio cervello sì, IBIS
REDIBIS NON. Scendevo la rampa, che immetteva nei locali seminterrati, ove
erano custoditi numerosi taxi ed autovetture private. Fatta scorta di
carburante alla pompa interna, con il cuore in gola salivo sul ‘yellow car’ per
raggiungere il centro della città. Trascorsi pochi minuti, mi ritrovavo tutto
madido di sudore e, soprattutto, la fronte era imperlata di grosse gocce che,
fastidiosamente scendevano sugli occhi. Era un mio continuo lavorio l’asciugare
il sudore con un fazzoletto, che andava sempre più inzuppandosi. Girai senza
riferimento alcuno, direi vagando qua e là e la prima volta che feci sosta fu
accanto alla porta d’ingresso ai Fori Romani. In quei tempi e in quel luogo vi
era una stazione per taxi. Qualunque persona, donna o uomo, italiano o
straniero, si fosse avvicinata, mi avrebbe dato una destinazione ed io,
contemporaneamente, volevo e temevo questo ipotetico primo cliente. La mia
preoccupazione era quella che il cliente mi desse un indirizzo a me sconosciuto
e l’ansia, l’attesa, il timore, tutto diventava un tormento. La fronte era
tutta arrossata e stava spellandosi. Il cuore batteva forte, non ce la facevo più
a stare in quello stallo inconcludente e, non potendone più, decisi d'andare a
casa. Devo precisare che Roma la conoscevo bene perché, per più anni, avevo
esercitato l’attività di rappresentante-piazzista per conto di varie ditte.
Giunto sotto casa e parcheggiata l’autovettura, entrai nell’appartamento. Mi
ristorai con benefiche abluzioni d’acqua fresca, sostituii canottiera e camicia
e poi ritornai alla mia immobile amica, che stava lì, buona e obbediente come
un somarello che dovevo montare e guidare verso un cliente il quale, nel
rendergli un servizio a pagamento, mi avrebbe fatto guadagnare i sospirati
soldini. Nulla era cambiato, tutto era come prima: stessa Roma, stesse strade,
stesso batticuore, stessa insicurezza. Che problema! Non riuscivo a vincere
quelle sensazioni, che mi rendevano oltremodo disagevole l’impatto
dell’incontro con il primo cliente. Sono grande e grosso e nessuno penserebbe
che sono incredibilmente timido. Lo sono ancor oggi, per natura! Gironzolai
cercando forse angeli celesti, che, però, dovevano essere di carne ed ossa! Più
di qualche persona mi aveva fatto cenno di fermarmi, ma io tiravo dritto, tutto
timoroso. Se mi fermavo e il passeggero m’avesse detto: ‘per favore a...’,
chiunque fosse, che figura avrei fatto se non conoscevo l’indirizzo? Intanto
dalle 7,00, ora nella quale ero uscito dal garage, erano scoccate le ore 9,30
e, nonostante i parecchi chilometri percorsi, non avevo effettuato alcun
servizio. Mi sentivo pervaso da paura, timore, disagio e d’amarezza perché il tempo
passava velocemente e la fine del turno di lavoro, alle 14,30,
improrogabilmente sarebbe arrivata! Mi dicevo: ‘E io che cosa mangio?’ ‘Che
cosa devo fare?’ ‘Dove trovo il coraggio per aprire la portiera ad un ignoto
personaggio?’ Con la forza della disperazione, dopo nuovi giri inconcludenti,
mi accodai ad alcuni taxi, in fila indiana, nel posteggio di via Veneto,
(adesso non c’è più, ma, allora, era laterale al ‘caffè de Paris’). Una volta
incolonnato, ero il quarto. La prima autovettura, ricevuto a bordo un cliente,
parte e io divengo terzo; il nuovo primo se ne va ed io divengo il secondo; il
nuovo primo prende la sua corsa e, ora, sono io ad essere il primo. Il cuore
rimbomba, le tempie scoppiano, le orecchie fischiano. Sto per scoppiare. Che
cosa debbo fare? Accendo il motore e fuggo oppure chiudo gli occhi e quel che
sarà, sarà? L’ansia è alle stelle, trattengo il fiato. Ed ecco che s’avvicina
un uomo e cortesemente: ‘Vatican museum, please!’ ‘Certainly!’ Tartassato dalle
fatidiche sette prove superate dal mitico Ercole, ero diventato, d’un colpo,
una felice creatura eterea: l’incubo era svanito! L’inglese io lo parlo e, come
indirizzo, quale più facile o più noto di quello dei Musei Vaticani, che già,
più volte, avevo visitato per mio personale godimento? Dio aveva avuto pietà di
me e mi aveva aiutato! Era un indirizzo
proprio facile quello, credo che ancor più semplice avrebbe potuto solamente
essere: ‘Please, St. Peter’s’!
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