19 LO SPAZZACAMINO
Un vecchissimo
mestiere ormai completamente in disuso e che al giorno d’oggi non potremmo
neppure inventare, era quello dello spazzacamino. A dire il vero, già ai miei
tempi questo mestiere andava sparendo, perché nelle case nuove, come, per
esempio, in quella di Castello come in quella di Arzignano, non v’era il
caminetto, ma la stufa economica e, per essa, non serviva lo spazzacamino. Invece,
nelle case vecchie, come in quella della mia nonna Clorinda in Calpeda, v’era
un gran caminetto e per tenere perfettamente pulita la canna fumaria dalla
caligine, serviva lo spazzacamino. Lo spazzacamino passava tutti gli anni e non
arrivava mai da solo, ma era sempre accompagnato da un ragazzino, forse era un
figliolo, forse un aiutante. Questi due si recavano di paese in paese, da
contrada in contrada, da casa in casa, anche in quelle più isolate. Ricordo che
giungevano imbrattati di fuliggine, che camminavano a piedi scalzi e che, se
possedevano le scarpe, le portavano, legate fra loro con i propri lacci, a
tracolla sopra una spalla. Di solito l’uomo portava una matassa di corda
arrotolata sopra una spalla e sopra l’altra spalla portava una lunga pertica
sulla punta della quale era legato un grosso mazzo di pungitopo, che
dondolavano ad ogni passo. Il ragazzo aveva a tracolla una borsa all’interno
della quale, forse, teneva il desinare e, sopra l’altra spalla, anche lui
portava una pertica con legati all’estremità un fascio di pungitopo. Ricordo
che, quando giungevano sul limitare del cancello, non entravano assolutamente
nella corte, ma si scappellavano, chiamavano la padrona per farsi conoscere e
per domandare se avesse bisogno di far pulire la canna del camino. In caso
affermativo, chiedevano il permesso di entrare nella proprietà e ci si
accordava per il compenso del lavoro. Tante volte, prima dell’opera, lo
spazzacamino domandava alla padrona se aveva un tozzo di pane, qualche crosta
di formaggio, una caraffa d’acqua o un bicchiere di vino leggero. Se si
prevedeva che per il pranzo il lavoro non fosse stato ultimato, si pattuiva nel
conteggio anche il mangiare. Il lavoro di raschiare la canna del camino si
eseguiva così. Se la canna era sufficientemente capiente, il ragazzo si
arrampicava come un gatto, spostandosi dal basso verso l’alto, aiutandosi con
le mani e i piedi. Egli portava con sé, sopra una spalla, un matassa di corda
arrotolata e, una volta giunto al vertice, fuoriusciva sul tetto e, da lì,
lasciava cadere un cappio del rotolo della fune. Lo spazzacamino a terra,
legava ben fisso, più o meno a metà del grosso spago, il fastello dei pungitopo
e, preparata questa scopa semovente, impartiva l’ordine al ragazzo di tirare in
su. Questi strattonava la corda verso l’alto finché il mazzo dei pungitopo
arrivava al punto più alto della canna del camino e, dopo, gridava allo
spazzacamino a terra di tirare in giù.
Nelle prime grattate dei pungitopo, cadeva una gran quantità di
fuliggine, che riempiva la cucina e faceva mancare il fiato a chi vi era
all’interno. Quest’operazione di su e giù con i pungitopo, era ripetuta finché
non cadeva più nulla. Alla fine, il ragazzo scendeva attraverso il foro della
canna del camino e puliva alla perfezione, con uno scopino, i buchi all’interno
dei quali le punte del fascio di pungitopo non erano arrivate a raspare la
caligine lì depositata. Nel caso che la canna del camino non fosse
sufficientemente larga per essere attraversata dal giovanetto, questo si recava
sopra il tetto passando dall’abbaino. Una volta giunto sopra il tetto, l’opera
di scrostare la canna del camino era come se il giovane fosse salito attraverso
il foro della canna del camino. Eseguita la commissione e ricevuta la paga, i
due spazzacamini ringraziavano, salutavano e si allontanavano più imbrattati di
fuliggine che all’arrivo, ma, anche, più contenti perché tenevano qualche
moneta in più in tasca.
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