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Antonio Balsemin Ve conto… IntraText CT - Lettura del testo |
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1 PRIMO RICORDO*
Si era verso la fine della seconda guerra mondiale (1940 – 1944) e tutto era problematico. Il mangiare scarseggiava e, se si voleva e si poteva acquistare gli alimenti di prima necessità, si potevano trovare solamente al mercato-nero1, di nascosto, a permuta. C’era sì la ‘tessera annonaria’ per ricevere le razioni assegnate ai tesserati, ma quanto era passato: pane, olio, sale, zucchero, carne, farina, formaggio, medicine, sapone ecc., non bastava per sostentare in modo adeguato la famiglia. Eh sì, situazioni difficili per tutti! Per me... no. Ero proprio piccolino ed ero come lo sono tutti gli infanti che si sentono il centro del mondo, fine a se stessi! Il primo ricordo mi porta indietro di una vita e mi vedo accomodato su un seggiolone alto poco meno della tavola. All’estremità dei braccioli di questo aggeggio, la mamma aveva messo una sicura (una traversa di legno) legata con lo spago in modo che, muovendomi, non cadessi a terra. Penso che avrò avuto circa tre anni, perché il seggiolone era alquanto largo. Mi sentivo messo su quella specie di piccolo castello, accomodato sopra un cuscino di stoffa nera imbottito con le foglie secche delle pannocchie del granturco mondato, le quali ad ogni mio movimento scricchiolavano di continuo. Alle mie spalle, verso un angolo, vi era la porta e, verso l’altro angolo, vi era la finestra che aveva la parte inferiore coperta da una leggera tendina con gli orli ricamati. Detta finestra aveva il parapetto molto basso e, senza questa protezione la gente che passava per la strada, avrebbe potuto curiosare dentro la cucina. Vedevo queste particolarità girando la mia testina una volta di qua, una volta di là. Di fronte a me vi era la tavola con attorno le sedie e a ridosso della parete corta di fondo, vi era una credenza di colore marron chiaro. Questo mobile aveva due sportelli di vetro decorato. In un disegno vi figurava un damerino che faceva la riverenza togliendosi il cappello e nel secondo appariva una damigella che gradiva l’inchino allungando una mano, ricambiando. I due sportelli di vetro stavano nella parte alta. Nella parte vuota, quella a mezzo mobile, vi era sistemata la sveglia ed altri oggetti. Ancora più sotto vi stavano due cassetti paralleli e ancor più verso il basso la credenza finiva con due sportelli di legno massiccio. A ridosso della parete e sopra la credenza, vi era la scala con i propri scalini. Il tutto era in legno d'abete. Questa gran scala, ben isolata con della faesite, conduceva in camera. La scala così costruita poteva servire come un passaggio separato ed isolato e lo sporco delle scarpe non sarebbe caduto in cucina. Io, incollato sul seggiolone, potevo solamente agitare le gambette a penzoloni, muovere le braccine, le mani e la testolina. Per il resto era come se fossi un pezzo di qualcosa vivente, incastrato fra i due braccioli. In alto, al centro della stanza, stava a penzoloni un sacco di tela bianca con la parte alta girata più volte su se stessa e bloccata con una stringa di cuoio. La sacca riempita di pane secco, era appesa ad una corda grossa e lunga. Un robusto uncino, avvitato al trave maestro, reggeva la corda e, quando fosse stato necessario, si sarebbe fatta scorrere a seconda che la si tirasse o la si allentasse. La corda andava a fermarsi, strettamente bloccata con un nodo fatto ad asola, ad un gran chiodo conficcato nel muro e per arrivare a scioglierlo bisognava salire su una sedia. Così, quando gli adulti non stavano in casa, i ragazzi non sarebbero mai potuti arrivare tanto in alto da poter allentare il nodo, abbassare e aprire il sacco per prendersi un pezzo di pane. Quando si fosse esaurita la minuta scorta del pane chiuso a chiave all’interno di un cassetto della credenza, mio padre avrebbe slegato la corda dal chiodo e, quindi, molto cautamente avrebbe fatto scorrere la corda sul gancio per far scendere la bisaccia finché non si fosse adagiata sulla tavola. Questa scorta di pane era il sostentamento per tutta la famiglia. Circa a mezzo metro sopra il sacco, strettamente bloccato alla stessa corda, sporgeva un lamierino di latta, come se fosse un’ala, fungendo da imbuto capovolto. Con tale astuzia di mio padre i sorcetti, che si arrampicavano seguendo la corda, sarebbero scivolati senza avere la possibilità di arrivare a rubare il pane. L’unica persona, che si muoveva in cucina era la mamma, che indossava un completino color blu scuro abbellito da disegni di fiorellini bianchi. La vedo con i suoi capelli nerissimi a crocchia, che era fermata da due lunghe forcine e da pettini ricurvi di tartaruga. Lei era tutta indaffarata prestando attenzione al fuoco della stufa economica per preparare il mangiare per il mezzogiorno. Sopra la tavola aveva allargato la tovaglia, disposti i piatti, le forchette, i cucchiai, i coltelli, i bicchieri, i tovaglioli e, quando vi stava ponendo sopra una bottiglia d’acqua, scoppiò in un pianto a dirotto e disse: “Siamo proprio poveri, noi: oggi è il giorno di Pasqua e non abbiamo neppure un goccio di vino da servire in tavola!” Intanto si era messa una mano sopra la bocca, chiudendola a pugno, quasi per fermare le parole (penso perché, guardandomi, avrà visto che ero sbiancato come il latte e avevo gli occhi stralunati). Allora, lei cercava come di riprendersi, ma ormai dai suoi occhi scendevano copiose lacrime che tentava di asciugare con l’altra mano aperta.
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* Il mio primo ricordo 1 marcà-nero = modo di vendere ed acquistare di nascosto, a scambio, talvolta non legale. |
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