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Antonio Balsemin Ve conto… IntraText CT - Lettura del testo |
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12 UCCIDONO IL MAIALE*
Al tempo giusto, tramandato dai vecchi trapassati e guardando da che parte la luna aveva la gobba, si stabiliva il tempo esatto per organizzare una festa, tagliando la gola al maiale. Iniziate le prime gelate, sempre più tirava la tramontana, gli uccelli erano emigrati, gli alberi si erano spogliati delle proprie foglie, i frutti erano stati raccolti e sistemati nel granaio e, lì, era stato collocato anche il frumento e il granturco. Restava solamente il porcello. Questo bestione, buono dal muso alla coda, rappresentava il colpo grosso per ogni famiglia: una tombola vinta! Dopo l’evento, in quei giorni si mangiava a volontà specialità come la torta di sanguinaccio, gli involtini con l’omento, il fegato con il rosmarino e una foglia di alloro, i crostini delle frattaglie, dei fegatini, dei ciccioli e, via via, tutto quello che non era possibile macinare per confezionare salsicce di sangue, salsicce, salami, cotechini e lonze. Resta chiaro che, allora come adesso, tutti si vantavano delle parti più pregiate, vale a dire, i prosciutti, quelli di spalla e, maggiormente, quelli di coscia. Le fette di lardo, ben pepato e salato, appese alle travi con fili di spago apposito, richiamavano una cambusa rimirata ad occhi aperti. Tutto questo ben di Dio, rappresentava la sicurezza di mangiar bene, con soffritti abbondantemente grassi, per tutto l’inverno. Prima di questa cuccagna, per strada, nei campi e, soprattutto in casa, tutti conversavano allegramente. Eh sì, non si parlava che di quest’argomento importantissimo! Una decisione fondamentale, da stabilire per tempo, era quella della scelta del norcino. Ognuno di questi ‘sapienti’, era geloso di quello che conosceva e teneva, in stretto serbo e solo per sé, i segreti di quest’arte, che era tramandata da padre in figlio. I norcini più qualificati, erano accaparrati l’anno precedente. In casa, gli adulti ragionavano se valeva più questo o quello e, intanto, si faceva arrotare dall’arrotino i coltelli e l’accetta, per rompere gli ossi. Si riprendeva la cassa apposita per la lavorazione delle carni dei maiali, la si puliva per bene, vi si allargavano sopra degli stracci e dei vecchi sacchi di iuta zuppi d’acqua, affinché mantenessero l’umidità e, di tanto in tanto, vi erano versate sopra secchiate d’altra acqua. Così l’attrezzo si ripuliva e si rinchiudevano le fessure delle piccole assi. Questo fatto regalava per più mesi abbondanza e sicurezza sotto tetto. Giunto il giorno opportuno, gli uomini più forti, almeno cinque, agguantavano il maiale e, dopo avergli legato le mascelle ben strette e a più giri con una fune resistente, lo spingevano e lo trascinavano per stenderlo sopra il cassone. L’animale, infelice, comprendeva che gli stava succedendo qualcosa di spiacevole e grugniva disperatamente, rivendicando i propri diritti alla vita. Proteste inutili, speranze vane. ‘Mors tua, vita mea’ ed il rito cruento si consumava fra il baccano e le grida di noi ragazzi e delle donne. Una volta riusciti a posarlo, posto di fianco, sopra il bancone sacrificale, tutti lo tenevano ben bloccato. Al bestione, ormai vittima del suo destino segnato da una coltellata fatale, tremolava tutta la pelle. Io stesso, quando il tutto era sicuro, andavo a tirargli la coda. Disgraziato porcello, gli eravamo tutti addosso! Rosina, la donna, che aveva più coraggio di un uomo, era quella che doveva sistemare il secchio largo sotto la gola della vittima. Rosina aveva il compito di raccogliere tutto il sangue che sarebbe sgorgato, a fiotti, dal taglio. Se non centrava in pieno il getto, non lasciandosi scappare una sola goccia, poteva accadere che, a qualcuno arrabbiato, sfuggisse qualche parolaccia. A maiale ucciso, a sangue raccolto, tutti noi ci si sentiva felici e contenti e si passava a fare quello che comandava il norcino. L’organizzazione, per una positiva riuscita, dipendeva interamente da lui che, con perizia ed autorevolezza, impartiva ordini categorici: “Acqua bollente, più veloci, buttatene di più, qui, addosso alla natica, addosso alla coppa, state attenti di non scottarvi, forza, adesso qui, addosso alla schiena, più in là, sopra questa gamba” e così via. Dopo, con il coltello grande, messo di taglio, faceva pelo e contropelo. Con una piccola raspa mondava tutte le parti della pelle del porco che, rasato a zero, non sembrava più un porcello ma una statua di marmo levigato. Il norcino squartava l’animale in due parti, che erano appese a un trave o a due scale incrociate e legate nelle parti in alto. Per ultima operazione, dopo che ogni parte del porcello era stata sistemata nei posti giusti, il norcino con delle asciugamani ben pulite strofinava le parti interne ed esterne di tutto il corpo dell’animale. Con questa accortezza, non sarebbero sgocciolati filamenti di sangue per terra e la carne si sarebbe asciugata più velocemente. Al suo: “È tutto finito” scoppiava un battimano generale. Però, che benefattore questo povero porcello!..
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* Un ‘compito’ annuale. |
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