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Silvano Tomasi – Gianfausto Rosoli Migrazioni moderne IntraText CT - Lettura del testo |
II
Signori, i pericoli che porta seco una tale emigrazione sono senza numero e del pari senza numero sono i mali che l’affliggono.
Quand’io, dieci anni or sono, raccolsi il grido di dolore de’ nostri poveri emigrati in uno scritterello che ebbe tanta eco nel cuore di tutti i buoni, e che riscosse in ogni ceto di persone così largo consenso di pensiero e di opere, io ero ben lungi dall’immaginare il cumulo di mali e tutti i pericoli ai quali si espone il povero emigrante.
Tutto, o signori, tutto cospira contro di lui, e i suoi mali spesso incominciano prima dell’esodo dall’umile casolare, sotto la forma di un agente di emigrazione che lo determina a partire, facendogli balenare innanzi la facile conquista della ricchezza e lo avvia dove a lui piace e conviene, non dove l’interesse dell’emigrante consiglierebbe; e lo seguitano quei mali lungo il viaggio, spesso disastroso, e lo accompagnano al suo arrivo in luoghi infestati da terribili malattie, ne’ lavori a’ quali si sente spesso disadatto, sotto padroni fatti disumani o dalla bramosia insaziata dell’oro, o dall’abitudine di considerare il lavoratore come un essere inferiore; e si aggravano que’ mali sotto i mille agguati che la malvagità tende loro in paesi stranieri, di cui ignorano la lingua e i costumi, in un isolamento che è spesso la morte del corpo e dell’anima.
E potrei citare fatti numerosi che dimostrano di quante lagrime sia bagnato e quanto sappia di sale il povero pane dell’emigrante, di quegli infelici che, tratti laggiù o da vane speranze o da false promesse, trovarono un’iliade di guai, l’abbandono, la fame e non di rado la morte, ove credettero trovare un paradiso; che, colorato dal miraggio del bisogno videro l’Eldorado, senza pensare che il simoun violento della realtà sperde in un attimo le incantate città dei sogni! Infelici! estenuati dalle fatiche, dal clima, dagli insetti, cadono sconsolati sulla gleba fecondata dai loro sudori, sul margine delle vergini foreste, che seppero dissodare non per sé, né pei figli, percossi da quel morbo fatale e gentile che è la nostalgia, sognando forse la patria, che non seppe dar loro nemmeno il pane, invocanti invano il ministro della religione
santa dei loro padri, che lenisca i terrori della agonia colle immortali speranze della fede.
Signori, il quadro non è lieto, ma è la storia verace di migliaia e migliaia di nostri connazionali emigrati, quale io l’ho raccolta dalle relazioni de’ miei missionari, e quale mi venne scritta e raccontata da chi fu testimone e parte di que’ tristissimi esodi.
Non vorrei però essere frainteso o sembrar pessimista. Le tristi cose accennate non ponno dirsi di tutti i nostri emigrati. Moltissimi di loro hanno trovato ne’ paesi ospitali pane sufficiente, molti agiatezza, e alcuni anche ricchezza, e formano nel loro insieme colonie di cui la madre patria può andare orgogliosa. Ma sono pure moltissimi i disgraziati, e in gran parte lo sono per loro ignoranza e per incuria nostra.
Ora i doveri e gl’interessi che derivano da un tale stato di cose sono molti, importanti e, sebbene di ordine diverso, tutti intimamente collegati fra loro, poiché in tutto ciò che riguarda l’emigrazione, interesse religioso, civile e, nazionale, pubblico e privato, non si possono disgiungere senza danno.
Di questa somma di interessi e di doveri, alcuni si riferiscono alla emigrazione in generale, come le leggi che la riguardano e la società di patronato, altri ai singoli nuclei di emigrati, come ad esempio le condizioni economiche e politiche dei paesi ospitali, i sistemi di colonizzazione adottati, le mercedi degli operai, gli scambi commerciali attivati, io limiterò il mio dire ai doveri e interessi generali della emigrazione, non solo perché il discorrere di tutti partitamente ci trarrebbe troppo per le lunghe, ma sì benanco perché degl’interessi particolari io ragionai diffusamente in altri miei scritti, e specialmente nella conferenza che tenni anche in questa città or sono dieci anni. Dò quindi tutto il tempo, che la vostra paziente cortesia mi concede, a quegl’interessi generali, che io compendio in due motti: proteggere e dirigere la emigrazione; protezione e direzione che si esplica in azione legislativa, religiosa e filantropica, e che interessa quindi il Governo, il clero e tutti i buoni di qualsiasi partito.
Signori, in questo esame io dovrò ripetere osservazioni e citare fatti che dissi già qui e altrove, ma non è colpa mia se le osservazioni fatte ed i provvedimenti invocati non furono ancora tradotti in leggi. Del resto è cosa nota: il cammino delle idee è di una lentezza disperante, massime quando urtano interessi e passioni, ma è continuo quando le idee proposte sono giuste e di vera utilità. Insistiamo adunque, poiché ogni lentezza giunge alla meta, a condizione che la stanchezza non vinca chi se ne è fatto banditore.
Ed è per questo, o signori, che, a costo di abusare della vostra pazienza, io mi intratterrò ancora per poco su alcune mie proposte
riguardanti la legge sulla emigrazione, sul reclutamento dell’esercito, sugli agenti di emigrazione, sulle banche coloniali, e invoco non solo la vostra benevola attenzione, ma l’aiuto altresì della parola e dell’azione vostra, perché, ciascuno nella sfera della propria influenza voglia alla sua volta farsene propugnatore.
Incomincio dalla legge sulla emigrazione. Quando nel 1888 fu presentato alla Camera dei deputati il disegno che poi divenne la legge che regola attualmente la nostra emigrazione, io notavo (in un opuscolo indirizzato ad un illustre uomo parlamentare) che le buone disposizioni di quella legge e le migliori intenzioni venivano annullate dagli articoli che riguardavano la istituzione dei subagenti di emigrazione. Allora io scrivevo:
«Io credo che questa concessione, giustificabile forse in teorica in pratica riesca di grave danno, e tale da render vane molte buone disposizioni della legge stessa.
Se gli agenti di emigrazione fossero, come sembra credere l’on. De Zerbi nella sua relazione, nulla più che semplici intermediari, uomini cioè di fiducia tra le varie Società di Navigazione e gli emigranti, e limitassero l’opera loro a dare schiarimenti sul modo e sul tempo degli imbarchi; e le agenzie non altro che semplici succursali degli uffici centrali di Navigazione, non ci sarebbe da impensierisene. La loro azione, quantunque superflua nel maggior numero dei casi (poiché quelle cognizioni si potrebbero apprendere, da chi ne avesse interesse, sul canto delle vie e nei pubblici spacci), pure non sarebbe dannosa. Potrebbe anzi alle volte riescir comoda agli emigranti. E anche se gli agenti facessero un po’ da tentatori per risolvere i dubbiosi, e mostrassero ai poveri assetati della miseria i ruscelletti americani freschi e molli, come quelli che nell’inferno dantesco facevano andare in visibilio maestro Adamo, via non sarebbe un finimondo, e si potrebbe chiudere un occhio e dir loro col Manzoni: va, va povero unterello, non sarai tu quello che spianterai Milano!
Ma la facoltà di fare arrolamenti è qualcosa di ben diverso da tutto ciò, e gli agenti, che ne usavano di già quando era vietato dalle circolari ministeriali, figurati se non vorranno valersene ancora più largamente quando sarà per legge un diritto! - Per naturale conseguenza le catastrofi, lamentate per il passato, aumenteranno a misura della libertà accordata poiché esperienza da una parte non sale contro la sete di guadagno insaziato, e ignoranza dall’altra, o non sa il fato di chi lo ha preceduto su quella via, o spera di essere più fortunata...
L’arrolamento in fatto di emigrazione è qualche cosa di intrinsecamente cattivo, che altera le funzioni di questo fenomeno sociale e lo fa deviare dal suo scopo e dalla sua meta naturale. - La emigrazione come tutte le selezioni, deve essere spontanea per riescire di qualche giovamento; nel caso contrario, invece di un sollievo dell’organismo sociale, e di un lavorio benefico
centrifugo e centripeto, che dà moto e tiene in equilibrio gli umori, diventa uno sforzo che fiacca, una febbre che lentamente consuma...
Che bisogno c’è di patentare arrolatori di emigrazione e di dare autorità coll’approvazione governativa ad un atto che, per essere lucroso, non può venir esercitato troppo scrupolosamente? che ufficio fa egli chi va attorno per arrolare, se non quello di stimolatore, di provocatore dei bisogni delle classi meno abbienti? E non sono già molte e reali le miserie che spingono i nostri contadini ed operai ad emigrare, senza che ci sia chi ne faccia sentir loro maggiormente il peso, mostrando altrove, per lo più con ragioni menzognere, una ricchezza di facile acquisto?
L’on. De Zerbi, nella sua dotta ed elegante relazione, fra le cause dell’allargarsi di questo fenomeno in Italia, pone, e giustamente, le illusioni fomentate dai lenocinii dell’impresario di braccia umane. Ma perché, aggiungo io, alle tante e lamentate cause di emigrazione, volerne aggiunger un’altra e per di più darle maggior efficacia coll’approvazione legale di questi lenocinii degli impresari di braccia umane?»
Pur troppo, o signori, queste mie brutte previsioni si verificarono, e in forma più grave del preveduto. La nuova legge peggiorò, che è tutto dire, la condizione degli emigranti e le agenzie e subagenzie all’ombra di quelle prosperarono e moltiplicarono, e seguitarono come prima e più di prima in quel traffico, che la legge intendeva reprimere!
Dopo quella legge infatti le agenzie di emigrazione salirono a 34, cifra non mai raggiunta per lo addietro, e i subagenti nel 1892 erano 5172; nel 1896, secondo le indagini fatte dal Ministero dell’Interno, 7169, e saranno certamente aumentati in questi due anni. È un vero esercito di arrolatori patentati, stavo per dire di parassiti della miseria.
Ora, o signori, è dovere di patrocinare la libertà di emigrare, ma è anche dovere di opporsi alla libertà di far emigrare: è dovere delle classi dirigenti di procurare alle masse de’ proletari un utile impiego delle loro forze, di aiutarli a cavarsi dalla miseria di indirizzarli alla ricerca di un lavoro proficuo, ma è del pari un dovere l’impedire che venga sorpresa la loro buona fede da ingordi speculatori. Del resto i difetti della presente legge sulla emigrazione furono riconosciuti e proclamati in diversi ordini del giorno ne’ Congressi geografici di Genova, di Roma e di Firenze, furono segnalati da Consoli e agenti diplomatici, e autorevolmente confermati dall’on. Visconti Venosta, nella sua qualità di Ministro degli Esteri, nella relazione che precede un pregevole disegno di legge.
«Dacché entrò in vigore - scrive l’illustre uomo - la legge del 30 Dicembre 1888 sulla emigrazione, e man mano che le sue disposizioni venivano applicate si rese manifesto, coi dati dell’esperienza, che in
essa erano numerose le lacune e gravi imperfezioni, per cui rimaneva aperta la via a deplorevoli abusi.
Sorse quindi vivo il desiderio nel Parlamento e nel Paese, di veder proposti ed approvati provvedimenti meglio in armonia coll’indole della nostra emigrazione, così temporanea come permanente, e tali da sopprimere, o almeno attenuare, i mali che ogni dì si rinnovano, mentre le nostre autorità trovansi sprovviste, o quasi, di rimedi per combatterli.»
Signori, facciamo voti e usiamo di tutta la nostra influenza, perché il nuovo disegno di legge sulla emigrazione presentato dall’on. Visconti Venosta e accettato dall’on. Canevaro, attuale Ministro degli Esteri, abbia presto l’approvazione del Parlamento. Si toglieranno così gravi abusi a danno degli emigranti e si colmerà una lacuna piena d’insidie della nostra legislazione.
Altro provvido disegno di legge, al quale non dovrebbe essere più a lungo ritardata la sanzione parlamentare, è quello presentato dall’on. Luzzati, già Ministro del Tesoro, di concerto co’ suoi colleghi Rudinì, Visconti Venosta, Sineo e Branca: Sulla tutela delle rimesse e dei risparmi degli emigrati italiani nelle due Americhe.
Nella copiosa relazione che precede quel disegno di legge, sono enumerati i fatti e i modi per cui i risparmi sudati e a lungo tesoreggiati dai nostri connazionali all’estero, sono sempre decimati dal cambio e dalla trasmissione, per opera di avidi e spesso disonesti pseudobanchieri. Pur troppo quei poveri risparmi non di rado vanno interamente perduti in uno di quegli atti di brigantaggio bancario non infrequenti laggiù ove chiunque può improvvisarsi banchiere, anche senza capitale effettivo, e che consistono nel vuotare la cassa e prendere il volo per altri paesi. In un solo anno, e in una sola città del Nord America, si verificarono quattro di tali fughe, e i risparmi perduti dai nostri poveri emigrati vi figuravano complessivamente per L. 200.000!
Basterebbero solo alcuni di questi fatti, e ve ne ha centinaia, per giustificare e dare carattere d’urgenza al provvedimento legislativo escogitato dall’insigne statista padovano, che taglia netto dalle radici tutto il parassitismo che vive e ingrassa dei risparmi altrui, speculando indegnamente sulla ignoranza e buona fede dei lavoratori.
Del pari manchevole e dannosa, se non più, è la legge sul reclutamento dell’esercito applicata ai nostri emigrati, ai loro figli e ai Missionari.
Colla legge sulla emigrazione noi non solo apriamo le porte a chiunque se ne voglia andare, ma lasciamo campo libero a coloro che arruolano la emigrazione stessa e la sollecitano e la spingono con ogni lusinga;
con questa sul reclutamento invece chiudiamo la porta in faccia a chiunque degli emigrati volesse far ritorno.
Su questo argomento faccio mie le seguenti considerazioni di un pregevole scrittore di cose coloniali.
È difficile valutare il male che ha fatto e fa la legge sul reclutamento applicata alla nostra emigrazione transoceanica.
Molte voci nel Parlamento e fuori si sono già levate contro di essa, ma finora furono voci nel deserto, perché la burocrazia tenace e conservatrice in tutti i rami di amministrazione, lo è anche più in quella militare.
Io credo, o signori, che una legge non dev’essere un dogma, né un’affermazione di principii assoluti, e che non è buona per sé e per il modo con cui viene applicata, se non provvede a un bisogno reale, se non reca utilità alcuna, se non è, in una parola, una legge del suo tempo.
La legge attuale sul reclutamento non ha niuna di queste qualità, e si ispira ancora al vecchio militarismo e al tempo in cui, per non pagare ai governi e alla patria il tributo di sangue, molti si rovinavano la salute, altri si mutilavano e altri ancora, ed erano i più, emigravano. Una tal legge non solo è un anacronismo, ma è anche ingiusta e dannosa e aggrava il male che si vorrebbe prevenire.
Oramai la renitenza, piaga della nostra vita sociale e triste eredità del passato, è scomparsa quasi interamente da ogni regione. Oramai più nessuno si mutila o si uccide per non fare il soldato, e neppure emigra. La regola di un tempo è diventata ora un’eccezione, ed assai rara. A che dunque mantenere una tal legge? Il ladro, il bancarottiere, il truffatore, fin l’omicida, dopo un periodo di anni più o meno lungo possono ritornare, e la legge riconosce che l’esiglio fu sufficiente espiazione del delitto. Per la renitenza invece non c’è prescrizione! E anche quando la solita amnistia schiude le porte della patria a quelli che hanno raggiunto i 40 anni o a quelli che si segnalarono per opere d’ingegno e di beneficenza, anche allora la legge impone al renitente che rimpatria la sua larva di processo, un vero perditempo, per non dir altro, e pel processato e pei giudici.
Eppure moltissimi non hanno di tale mancanza veruna colpa, e molti hanno tali attenuanti che basterebbero a detergere ben altri peccati. La massa infatti dei renitenti è formata dai figli degli italiani nati in America o portati colà bambini. Ora per costoro il ritorno o sarebbe impossibile o troppo duro. Equivarrebbe non di rado alla perdita di una posizione conseguita col lavoro paziente e difficile di anni ed anni. È così che la legge sul reclutamento, che si basa sul principio che l’uguaglianza perfetta di tutti di fronte al tributo di sangue dovuto alla Patria,
diventa ingiusta applicata rigorosamente alla nostra emigrazione, o ai figli degli italiani nati nelle lontane regioni americane o a coloro che nella loro giovinezza furono portati lontano dalla bufera della vita.
E non solo la legge è ingiusta, ma è anche, come dissi, dannosa, più di quanto può parere guardata così superficialmente.
Molti di que’ nostri emigrati tornerebbero volentieri - per finire la loro vita nell’agiatezza, dove l’avevano incominciata nello stento - portando così in patria capitali e tesori di esperienza e riallacciando i legami fra le terra natale e la famiglia lontana. Ma innanzi a loro si rizza il fantasma della prigione o semplicemente il processo, e si rassegnano a morire in terra straniera.
Molti nella piena attività delle loro forze e dei loro commerci visiterebbero di gran cuore il nostro Paese, per conoscerne la produzione, dai più ignorata, e per attivare nuovi scambi commerciali. Ma, trovandosi chiusa la porta in faccia, volgono i loro passi e i loro studi di esplorazione commerciale ad altre contrade.
Molti figli di italiani americanizzati farebbero volentieri viaggi nella patria dei loro padri, ma se ne guardano bene per paura delle penalità militari; paura esagerata, ma che c’è, e se qualcuno vi si avventura, lo fa con gran precauzione e girando lontano dai paesi, dove potrebbe essere riconosciuto pel figlio del tal dei tali su cui pesa quella specie di taglia della coscrizione.
In alcuni poi questa specie di ipoteca, che grava su loro, mantiene uno stato di irritazione contro la madre patria che li fa ostili a tutto ciò che è italiano e che certamente non giova né a’ buoni rapporti politici, né agli scambi commerciali, il primo e vero bene, per non dire l’unico, che noi possiamo aspettarci dalle nostre colonie d’America. Pei nostri commerci è meglio avere laggiù degli stranieri amici che dei presunti cittadini ostili.
Di più, questo stato di cose affretta quell’assorbimento dei nostri connazionali, da parte degli altri popoli, che si vorrebbe e si dovrebbe far di tutto per impedire.
Ma più dannosa ancora è la disposizione di legge che sottrae alle Missioni tanti giovani leviti. Le fiorenti Missioni Francescane, Domenicane, Carmelitane, per tacere di altre, hanno visto diradarsi le loro schiere e in molte regioni, segnatamente dell’Impero Ottomano e dell’estremo Oriente, hanno dovuto cedere il posto ai loro confratelli francesi, tedeschi, ed austriaci. Ed è cosa che stringe il cuore quando si pensi al danno che ebbero a soffrirne l’influenza e il prestigio del nome italiano in quelle regioni; imperocché voi lo sapete, o signori, la civiltà e l’influenza politica non si generano dal commercio, né s’impongono colle armi. Esse sono il frutto di una educazione morale pacifica,
santa, paziente, sagace, indefessa, laboriosa, impartita col sacrificio anche della vita da chi nulla vuole per sé, ma tutto pei fratelli e per Gesù Cristo.
Parlando a Torino, non è possibile dimenticare le belle parole, dettate al riguardo da uno de’ suoi scrittori più rinomati, il Gioberti: “Oh, esclama egli, se noi fossimo più intendenti di vera gloria, e non avessimo perduto insino i veri nomi delle cose, che campo avremmo aperto ai nostri trionfi! Ma la cecità da cui siamo pur troppo aggravati è tale che, mentre ammiriamo e leviamo al cielo quei grandi macelli napoleonici che chiamansi battaglie e vittorie, non facciam caso di quelle pacifiche imprese che sono di pro all’universo e il cui onore è di tutti i cattolici, ma specialmente di noi italiani, poiché la mano che le muove e le indirizza è in Italia, e mentre l’acquisto di un palmo di terreno, forse ottenuto a prezzo di molto sangue, fa trepidar di gioia governi e popoli, non cale a noi, figli ed eredi dell’antica Roma, di essere gli apostoli della civiltà cristiana, i legislatori dell’universo!”
Signori, chi ha visitato la nostra splendida Esposizione di Arte Sacra e ha veduto quei cinesi nel loro pittoresco costume, quei beduini, quei negri dell’Eritrea, quegli arabi di Terra Santa, quelle fanciulle dell’Africa e delle Indie, quei cari orfanelli e quelle povere orfanelle che rispondono così bene alle nostre domande nella bella lingua del sì e la leggono e la scrivono, come noi la leggiamo e scriviamo, intenderà facilmente quanto sieno vere le parole del filosofo torinese, e non può fare che non volga commosso un pensiero di ammirazione e di gratitudine a que’ generosi che, lungi dalla patria, dai parenti, dagli amici, tra mille disagi e pericoli, in un continuo olocausto di sé medesimi, evangelizzando barbare terre, mirano a formare di tutti i popoli un sol popolo, di tutte le famiglie una sola famiglia.
Tutti sono concordi, amici ed avversarii, nel rendere omaggio all’opera di civiltà e di patriottismo dei Missionari. Francia, Austria, Germania, Spagna, Inghilterra se la disputano, e ne fanno il fulcro della loro propaganda coloniale. La Francia, volterriana e scredente, mostra di apprezzarne sopratutti l’alto valore, e profonde per le Missioni tesori ed esenta dagli obblighi di leva i suoi Missionari e muove quistioni diplomatiche per mantenere un esclusivo diritto di protettorato su tutti i Missionari d’Oriente, anche non francesi. Tutto si muta vertiginosamente nel Governo di quel grande Paese, e i partiti che contendono per il potere si combattono con un accanimento, starei per dire, selvaggio: ciascun partito, nell’avvicendarsi al Governo, distrugge l’opera dell’altro con una specie di voluttà; ma nessun Ministero, per quanto radicale, per quanto all’interno osteggiatore di Ordini religiosi, toccò mai la vasta organizzazione delle Missioni cattoliche, anzi
tanto più le sussidia all’estero, quanto più viva è la lotta all’interno. Gli è, o signori, che in Francia da mezzo secolo si è potuto sperimentare la forza conquistatrice del Missionario cattolico, il quale fra i popoli barbari è un’avanguardia impareggiabile, fra i conquistati freno potentissimo; hanno visto, più d’una fiata che un drappello di Missionari armati del crocifisso può almeno quanto una falange di soldati agguerriti.
Fra le molte testimonianze in lode delle Missioni Italiane, una sola ne citerò: è uno splendido elogio, e fa parte di una relazione intorno a un disegno di legge presentato al Senato del Regno nella tornata del 28 maggio 1885 e porta la firma dei ministri Mancini, Pessina, Ricotti e Brin:
«Ed ora (così il documento ufficiale), convien parlare più particolarmente dei Missionari all’Estero e dell’opera che essi prestano non solo a beneficio della civiltà universale, ma altresì a vantaggio del nome nazionale e della nazionale cultura.
Abbondano negli Archivi del Ministero degli Affari Esteri i rapporti dei rappresentanti di S. M. nei quali, a cotesti coraggiosi e infaticabili apostoli dell’una e dell’altra causa, sante entrambe, si rende amplissimo omaggio di lode e di riconoscenza. Dove più inospite è la contrada, dove più restia e fiera è la popolazione, dove grandeggiano i pericoli, dove vano sarebbe sperare altro aiuto che non fosse quello della Provvidenza, là vive, opera, e spesso soccombe, martire oscuro ed ignorato, il Missionario, avvezzo fin dai primi tempi di durissimo tirocinio, a fare abbandono di sé e delle cose sue.
E poiché le Missioni irradiano da Roma, ben si concepisce come tra i Missionari avesse finora a predominare l’elemento italiano, e come, diffondendosi dal pergamo e dalle aule scolastiche l’idioma nostro, si facesse popolare in ogni più lontana regione, segnatamente nell’Impero Ottomano, ove ancor durano le gloriose tradizioni delle nostre repubbliche medioevali. Pochi lustri or sono, quasi solo la lingua italiana udivasi, accanto alla lingua del paese, negli scali di Levante e di Barberia e nella zona che dall’Adriatico si protende verso il Bosforo, attraverso la penisola balcanica.
Sennonché anche questo è piuttosto un ricordo che un vanto di grandezza Italiana.»
Fin qui il documento surricordato.
Anche l’attuale Presidente del Consiglio, on. Pelloux, presentò, quando era Ministro della Guerra, un disegno di legge sul reclutamento militare, inspirato a concetti di modernità e di utilità pratica. Tra le molte e savie disposizioni del medesimo, ve n’erano alcune riguardanti appunto il servizio militare degli italiani emigrati e dei Missionari. I giornali, or non è molto, annunziarono che il Ministero
della Guerra intende di ripresentare alla Camera, fra breve, quel disegno di legge. Sia pur esso il benvenuto. Non potrà certo mancare ad esso la sanzione del Parlamento, troppo essendo evidenti i vantaggi che ne deriveranno.
Del resto noi, pei giovani leviti, non domandiamo esenzioni e privilegi. Domandiamo soltanto che non sia interrotto il loro tirocinio di preparazione (come non è interrotto quello di nessun studente delle professioni liberali), e che, fatti sacerdoti, possano mutare i pochi mesi di caserma in un apostolato all’estero lungo, forse di tutta la vita, a beneficio della Religione e della Patria. Che danno sarebbe per il nostro esercito qualora si esentassero dal servizio di leva quei giovani chierici i quali volessero iscriversi fra i Missionari? Che strappo sarebbe mai all’eguaglianza di tutti i cittadini in faccia al tributo militare, se i giovani italiani aspiranti alla vita apostolica, invece di tre anni di caserma, si dedicassero alle Missioni, specie a quelle in servizio de’ nostri connazionali, cooperanti alla loro redenzione religiosa e morale, soldati a un tempo della Chiesa e dello Stato? Col vergine entusiasmo della loro giovane età, con quello zelo che non conosce ostacoli, colla gagliardia dei vent’anni che non sente fatica, quali apostoli ne avremmo! quali infaticabili maestri! quanta riconoscenza da parte loro! e quanta da parte degli stessi emigrati! i quali se oltremodo vivo sentono laggiù il desiderio del natio loco, ancor più vivo sentono il bisogno di quella religione che cullò i sogni della loro infanzia, che li ebbe confortati nella loro giovinezza e benedetti nei loro affetti più cari. Sì, il bisogno di esercitare le pratiche di pietà è così vivamente sentito dalla grandissima maggioranza de’ nostri emigrati, che spesso intraprendono veri viaggi fra quelle inospiti lande, pur di assistere ad una Messa, di udire da un prete italiano la parola di Dio.