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Silvano Tomasi – Gianfausto Rosoli
Migrazioni moderne

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I.Reminiscenze

 

 In Milano, parecchi anni or sono, fui spettatore di una scena che mi lasciò nell’animo un’impressione di tristezza profonda.

Di passaggio alla stazione vidi la vasta sala, i portici laterali e la piazza adiacente invasi da tre o quattro centinaia di individui poveramente vestiti, divisi in gruppi diversi. Sulle loro facce abbronzate dal sole, solcate dalle rughe precoci che suole imprimervi la privazione, traspariva il tumulto degli affetti che agitavano in quel momento il loro cuore. Erano vecchi curvati dall’età e dalle fatiche, uomini nel fiore della virilità, donne che si traevano dietro o portavano in collo i loro bambini, fanciulli e giovanette tutti affratellati da un solo pensiero, tutti indirizzati ad una meta comune.

Erano emigranti. Appartenevano alle varie provincie dell’Alta Italia ed aspettavano con trepidazione che la vaporiera li portasse sulle sponde del Mediterraneo e di nelle lontane Americhe, ove speravano di trovare meno avversa la fortuna, meno ingrata la terra ai loro sudori.

Partivano, quei poveretti, alcuni chiamati da parenti che li avevano preceduti nell’esodo volontario, altri senza sapere precisamente ove fossero diretti, tratti da quel potente istinto che fa migrare gli uccelli. Andavano nell’America, ove c’era, lo sentirono ripetere tante volte, lavoro ben retribuito per chiunque avesse braccia vigorose e buona volontà.

Non senza lagrime avevano essi detto addio al paesello natale, a cui li legavano tante dolci memorie; ma senza rimpianto si disponevano ad abbandonare la patria, poiché essi non la conoscevano che sotto due forme odiose, la leva e l’esattore, e perché pel diseredato la patria è la terra che gli il pane, e laggiù lontano lontano speravano di trovarlo il pane, meno scarso se non meno sudato.

Partii commosso. Un’onda di pensieri mesti mi faceva nodo al cuore. Chi sa qual cumulo di sciagure e di privazioni, pensai, fa loro parer


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dolce un passo tanto doloroso!.... Quanti disinganni, quanti nuovi dolori prepara loro l’incerto avvenire? quanti nella lotta per l’esistenza usciranno vittoriosi? quanti soccomberanno fra i tumulti cittadini o nel silenzio del piano inabitato? quanti, pur trovando il pane del corpo, verranno a mancare di quello dell’anima, non meno del primo necessario, e smarriranno, in una vita tutta materiale, la fede de’ loro padri?

Da quel giorno la mente mi andò spesso a quegl’infelici, e quella scena me ne richiama sempre un’altra non meno desolante, non veduta, ma intraveduta nelle lettere degli amici e nelle relazioni de’ viaggiatori. Io li veggo quei meschinelli sbarcati su terra straniera, in mezzo ad un popolo che parla una lingua da loro non intesa, facili vittime di speculazioni disumane: li veggo bagnare coi loro sudori e con le loro lagrime un solco ingrato, una terra che esala miasmi pestilenziali; rotti dalle fatiche, consunti dalla febbre sospirare invano il cielo della patria lontana e l’antica miseria del natio casolare, e soccombere finalmente senza che il rimpianto dei loro cari li consoli, senza che la parola della fede additi loro il premio che Iddio ha promesso ai buoni ed agli sventurati. E quelli che nella rude lotta per l’esistenza trionfano, eccoli, ohimè! laggiù nell’isolamento, dimenticare affatto ogni nozione soprannaturale, ogni precetto di morale cristiana, e perdere ogni più il sentimento religioso, non alimentato dalle pratiche di pietà, e lasciare che gli istinti brutali prendano il posto delle aspirazioni più elevate.

Di fronte ad uno stato di cose così lagrimevole, io mi sono fatto sovente la domanda: come poter rimediarvi? E tutte le volte che mi accade di leggere su pei giornali qualche circolare governativa che mette le autorità ed il pubblico in guardia contro le arti di certi speculatori, i quali fanno vere razzie di schiavi bianchi per ispingerli, ciechi strumenti di ingorde brame, lontano dalla terra natale col miraggio di facili e lauti guadagni; e quando da lettere di amici o da relazioni di viaggi rilevo che i paria degli emigranti sono gli italiani, che i mestieri più vili, seppure vi può essere viltà nel lavoro, sono da esso loro esercitati, che i più abbandonati, e quindi i meno rispettati, sono i nostri connazionali, che migliaia e migliaia de’ nostri fratelli vivono quasi senza difesa della patria lontana, oggetto di prepotenze troppo spesso impunite senza il conforto di una parola amica, allora, lo confesso, la vampa del rossore mi sale in volto, mi sento umiliato nella mia qualità di sacerdote e di italiano, e mi chieggo di nuovo: come venir loro in aiuto?

Anche pochi giorni or sono un distinto giovane viaggiatore mi portava il saluto di parecchie famiglie dei monti piacentini attendati sulle sponde dell’Orenoque: Dica al nostro Vescovo che ricordiamo sempre


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i suoi consigli, che preghi per noi e che ci mandi un prete, perché qui si vive e si muore come bestie...

Quel saluto dei figli lontani mi suonò quale un rimprovero, ed il quesito che io aveva posto sovente a me stesso si è manifestato in queste osservazioni che ora io pubblico, e che ho scritto così come il cuore me le veniva significando.

Chiamo sulle medesime l’attenzione del clero italiano, del laicato cattolico e di tutti gli uomini di buona volontà, poiché la carità, vera tregua di Dio, non conosce partito, ed il Sangue di Gesù Cristo tutti ne affratella in una fede e in una speranza, e ci fa debitori a tutti.

 




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