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Silvano Tomasi – Gianfausto Rosoli
Migrazioni moderne

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I

 

La emigrazione, o signori, è legge di natura. Il mondo fisico, come il mondo umano soggiacciono a questa forza arcana che agita e mescola,

 


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senza distruggere, gli elementi della vita, che trasporta gli organismi nati in un determinato punto e li dissemina per lo spazio, trasformandoli e perfezionandoli in modo da rinnovare in ogni istante il miracolo della creazione. Emigrano i semi sulle ali dei venti, emigrano le piante da continente a continente portate dalle correnti delle acque, emigrano gli uccelli e gli animali, e, più di tutti, emigra l’uomo, ora in forma collettiva, ora in forma isolata, ma sempre strumento di quella Provvidenza che presiede agli umani destini e li guida, anche attraverso le catastrofi, verso la meta ultima, che è il perfezionamento dell’uomo sulla terra e la gloria di Dio ne’ cieli.

Questo ci dice la divina Rivelazione, questo c’insegnano la storia e la biologia moderna, ed è solo attingendo a questa triplice fonte di verità che potremo desumere le leggi regolatrici del fenomeno migratorio e stabilire i precetti di sapienza pratica che lo debbono disciplinare in tutta la sua ricca varietà di forme.

Essi ci dicono, che la emigrazione è un diritto naturale, inalienabile, che è una valvola di sicurezza sociale che ristabilisce l’equilibrio tra la ricchezza e le potenza produttiva di un popolo, che è fonte di benessere per chi va e per chi resta, sgravando il suolo di una popolazione soverchia e avvalorando la mano d’opera di chi resta; che può essere insomma un bene o un male individuale o nazionale, a seconda del modo e delle condizioni in cui si compie, ma che è quasi sempre un bene umano, poiché apre nuove vie ai commerci, facilita la diffusione dei trovati della scienza e delle industrie, fonde e perfeziona le civiltà e allarga il concetto di patria oltre i confini materiali, facendo patria dell’uomo il mondo.

La emigrazione di un popolo civile può essere interna, politica e agricolo-commerciale o di infiltrazione.

Per emigrazione interna io non intendo di significare quel flusso e riflusso di popolazione che si muove periodicamente per i diversi bisogni della vita civile e individuale in un determinato territorio, ma intendo bensì una vera e propria colonizzazione, entro i confini della patria, di terre incolte che possono sovrabbondare in una regione e scarseggiare in un’altra.

Quello che significhi e come si attui la emigrazione e la colonizzazione politica è a tutti noto, cioè: dare alla patria più ampia estensione, allargandone i confini o aggiungendole terre lontane, ove gli emigrati possano vivere all’ombra della bandiera nazionale, sotto l’egida delle patrie leggi e dove la religione, la lingua, le tradizioni, i costumi, tutto ciò insomma che forma la coscienza religiosa, civile e patriottica di un popolo serva a tener vivo, anche ne’ più lontani nepoti, il pensiero e l’affetto verso la terra dei padri .


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Le colonie politiche furono il mezzo più potente di conquista e di espansione dei romani, e sarebbe modo veramente romano di compiere le funzioni migratorie.

Le colonie agricolo-commerciali e d’infiltrazione sono quelle che mirano a stabilire in paese altrui nuclei di popolazione di una data nazionalità che esercitino il commercio, l’industria e l’agricoltura e vivano fra popoli stranieri, senza perdere il proprio carattere nazionale. Fu il modo di emigrazione e di colonizzazione preferito dalle nostre gloriose repubbliche marinare.

Ora, come compie l’Italia nostra questa importante funzione della sua vita civile ed economica? o meglio, quale dei predetti modi di emigrazione può essa adottare?

La colonizzazione interna pare a molti la forma idealmente bella di emigrazione, utilissima e, per noi tutti, di attuazione facile.

Costoro non sanno comprendere come il Governo non siasi pur anco deciso ad adottare questo sistema che deve renderci ricchi e potenti, intensificando la nostra popolazione, dando al lavoratore il pane quotidiano abbondante.

I fautori della colonizzazione interna ragionano così: - Che l’Italia nostra possa ospitare maggior numero di abitanti è intuitivo: basta considerare la densità relativa della sua popolazione, che va da 165 per Kmq. in Liguria a 152 in Lombardia, per discendere via via ai 92 di Toscana, ai 77 delle Puglie e dell’Abruzzo, ai 60 dell’Umbria, ai 51 della Basilicata, ai 28 della fertilissima già popolosa Sardegna: basta fare una corsa per le terre d’Italia e osservare i greppi della Valtellina e della Liguria, i colli piemontesi e toscani, la valle del Po trasformati in giardini, e il deserto dell’agro romano e i piani fecondi delle provincie meridionali e della Sardegna che giacciono incolti o convertiti in centri di infezioni malariche.

Utilizziamo la errante miseria della patria, impieghiamo a nostro beneficio quell’attività sempre ricercata, ma non sempre apprezzata, che si sparge per il mondo, fiotto di viventi, simili alle acque di un fiume senz’alveo che, invece di fecondare le terre circostanti, si perdono nel greto e fra gli sterpi lontani.

E sia dunque; si colonizzi pure all’interno, si tolga alla malaria tanta parte di territorio italiano, si renda più intensa e quindi più rimunerativa l’agricoltura: tutto quanto si farà in questo senso sarà ottima cosa, ma non facciamoci illusioni; colonizziamo pure nei limiti del possibile ma, a scanso di disinganni, persuadiamoci che la cosa non è facile, come pare a prima vista, e che certamente non è possibile nella misura che richiederebbe il rapido aumento della nostra popolazione.


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Infatti, la densità media della popolazione in Italia è di 107 abitanti per Kil. q., mentre in Germania è di 97, di 80 in Austria e di soli 72 in Francia.

Di più, io credo che quelli che contano a milioni di ettari le terre incolte d’Italia, siano in errore. L’Italia ha una superficie di 28 milioni e mezzo di ettari, dei quali però 4 milioni e mezzo (dò la cifra tonda) sono occupati da strade, acque, greti, o sono cime di monti alti e sterili. Gli altri 4 milioni di ettari vengono più o meno adibiti a pascolo, e, anche di questi, secondo gli studi della Direzione generale di agricoltura, un milione di ettari potrebbe essere coltivato con profitto. Dunque, a parte le difficoltà dell’impresa e gli ingenti capitali occorrenti per la espropriazione e il risanamento, a parte la imperfezione dei catasti di molte Provincie, e segnatamente della Sardegna, che rende difficile, e quasi impossibile, l’assegnazione dei lotti, le terre utilmente coltivabili sono poche e affatto disformi ai bisogni della nostra popolazione.

Ma, nelle migliori delle ipotesi, supponendo il più largo bonificamento e la conseguente colonizzazione e un perfezionamento di sistemi agricoli, nel senso della maggior intensificazione possibile, e una larghissima produzione industriale, in modo da poter dare all’Italia intera la densità della popolazione della Lombardia (cioè portare a circa 50 milioni gli abitanti della Penisola) si sarebbe ben lontano dall’aver trovato posto al crescente numero della nostra popolazione, la quale, dato l’aumento medio di quest’ultimo ventennio, in un secolo diventerebbe di circa 100 milioni.

Nel secolo venturo adunque, anche nella migliore delle ipotesi, circa 50 milioni di Italiani dovranno necessariamente trovar posto fuori d’Italia!

Le colonie politiche, o signori, sono altro dei modi con cui i popoli civili compiono le loro funzioni migratorie, forse quello che involge maggior numero d’interessi e maggiormente solletica l’amor proprio nazionale. La grande attività e gelosa cura spiegate a’ dì nostri dalle varie Potenze nel difendere gli antichi possedimenti coloniali e nello acquistarne di nuovi, sono il commento più eloquente di questa mia affermazione. Ma pur troppo per il nostro Paese la speranza di una larga colonizzazione politica fu travolta e rimandata a chi sa quando dai disastri africani, il cui ricordo rattrista ogni cuore italiano.

Queste cifre e considerazioni ci portano a conchiudere, che all’Italia, per ora almeno, non resta che la terza forma di emigrazione; effondere cioè in altri popoli e in territori altrui il sovrabbondare della sua popolazione; forma più umile delle altre due, ma più conforme a’ suoi bisogni immediati. Le funzioni migratorie quindi, come si compiono


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da noi, rispondono alle necessità attuali politiche, territoriali ed economiche del nostro Paese e non superano la sua potenza riproduttiva e come tali hanno il carattere di fenomeni permanenti, e sono fonti di benessere individuale e collettivo.

Ma quali sono le garanzie che la legge accorda ad una emigrazione siffatta? Come esercita lo Stato il suo dovere di tutela morale e materiale dell’emigrante? Come l’esercitiamo noi, classi dirigenti?

 




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