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Silvano Tomasi – Gianfausto Rosoli
Migrazioni moderne

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L’EMIGRAZIONE DEGLI OPERAI ITALIANI

 [Conferenza di Mons. G.B. Scalabrini al XVI Congresso Cattolico Italiano di Ferrara (1899), pubblicata in Atti e documenti del XVI Congresso Cattolico Italiano, Opera dei Congressi e dei Comitati Cattolici in Italia, Venezia, 1899, pp. 90-100.]

 

Scalabrini da tempo aspettava che l’Opera dei Congressi riconoscesse come iniziativa dei cattolici italiani la sua organizzazione in favore dei migranti, che di proposito egli non aveva voluto subordinare alla politica “intransigente” dell’Opera stessa, né di altri gruppi politici. Neppure la mediazione dell’amico Giuseppe Toniolo aveva avuto inizialmente successo. Nel 1899, però i tempi erano cambiati. Soprattutto il maggio del 1898 aveva fatto riflettere. Per ridare vita ai giornali e circoli cattolici, soppressi dalla furia di un governo che temeva i “neri” clericali non meno dei “rossi”, si era fatto ricorso a Scalabrini, come attesta il carteggio incrociato del vescovo di Piacenza con Luigi Pelloux e Giovanni Battista Paganuzzi, conservato nell’Archivio Generale scalabriniano di Roma. Nell’agosto 1898 Scalabrini scrisse al capo del governo chiedendo la ricostituzione dei comitati cattolici. Pelloux rispose che aveva autorizzato la riapertura di quelli che non si erano compromessi nei “tumulti”; Scalabrini comunicò la notizia a Paganuzzi. Il vescovo di Piacenza, a nome anche di molti altri vescovi, chiese poi che a don Davide Albertario, in carcere, fosse concesso di vestire l’abito ecclesiastico. Nel mese di giugno dell’anno successivo il sacerdote ringrazierà Scalabrini per avergli ottenuto di celebrare la S. Messa.

Con queste premesse si può comprendere l’invito a parlare dell’emigrazione al XVI Congresso dell’Opera dei Congressi di Ferrara del 1899. L’oratore osserva che si tratta di un diritto naturale, una  valvola di sicurezza che ristabilisce l’equilibrio tra le risorse e le capacità produttive delle nazioni. Per l’Italia è un fenomeno le cui proporzioni crescono sempre più,  con gravi pericoli materiali, morali e religiosi di chi espatria. Fortunatamente in Parlamento si dibattono dei progetti di legge intesi ad abolire gli agenti di emigrazione, tutelare le rimesse e sostituire con un servizio civile all’estero quello militare in patria per gli aspiranti missionari. Scalabrini chiede che anche i cattolici italiani si impegnino ufficialmente nell’assistenza ai connazionali migranti:


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i responsabili del movimento cattolico facciano entrare come elemento essenziale nell’azione dei comitati regionali, diocesani e parrocchiali, quanto riguarda il bene religioso, economico e civile di tanti fratelli costretti ad espatriare.

 

Ho sempre vivamente desiderato che i cattolici italiani si occupassero in queste solenni adunanze anche della nostra emigrazione, e perché nuova luce si farebbe intorno al grave problema, e perché ne avrebbero conforto ed aiuto i nostri fratelli espatriati, e perché nuove benedizioni pioverebbero sull’Opera, già tanto benemerita, dei Congressi Cattolici in Italia.

Pensate adunque, o Signori, con quanto piacere abbia accolto l’invito di parlarvi ora di questo argomento! Ve ne parlerò, come si suole tra amici, alla buona, invocando fin d’ora la vostra indulgenza.

Intendo darvi un’idea del vasto problema; quindi prego l’illustre Presidente a non guardar troppo l’orologio e a lasciare in riposo il campanello... Sarò ad ogni modo discreto, perché quantunque l’emigrazione meriti riguardo, siccome quella che entra per la prima volta nei nostri Congressi, non ha però il diritto di annoiare, e tanto meno di rubare il posto ad altre questioni non meno importanti... ed entro senza più in argomento.

L’emigrazione, o Signori, è legge di natura. Il mondo fisico come il mondo umano soggiacciono a questa forza arcana che agita e mescola, senza distruggere, gli elementi della vita, che trasporta gli organismi nati in un determinato punto e li dissemina per lo spazio, trasformandoli e perfezionandoli in modo da rinnovare in ogni istante il miracolo della creazione. Emigrano i semi sulle ali dei venti, emigrano le piante da continente a continente, portate dalle correnti delle acque, emigrano gli uccelli e gli animali, e, più di tutti, emigra l’uomo, ora in forma collettiva, ora in forma isolata, ma sempre strumento di quella Provvidenza che presiede agli umani destini e li guida, anche attraverso a catastrofi, verso la meta ultima, che è il perfezionamento dell’uomo sulla terra e la gloria di Dio ne’ cieli.

Questo ci dice la divina Rivelazione, questo ci insegnano la storia e la biologia moderna, ed è solo attingendo a questa triplice fonte di verità che potremo desumere le leggi regolatrici del fenomeno migratorio e stabilire i precetti di sapienza pratica che lo debbono disciplinare in tutta la sua ricca varietà di forme.

Essi ci dicono, che la emigrazione è un diritto naturale, inalienabile, che è una valvola di sicurezza che stabilisce l’equilibrio tra la


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ricchezza e la potenza produttiva di un popolo, che è fonte di benessere per chi va e per chi resta, sgravando il suolo di una popolazione soverchia e avvalorando la mano d’opera di chi resta; che può essere insomma un bene o un male individuale o nazionale, a seconda del modo e delle condizioni in cui si compie, ma che è quasi sempre un bene umano, poiché apre nuove vie ai commerci, facilita la diffusione dei trovati della scienza e delle industrie, fonde e perfeziona le civiltà e allarga il concetto di patria oltre i confini materiali, facendo patria dell’uomo il mondo; ma soprattutto perché a somiglianza dell’antica grandezza dell’impero romano, preparato dal cielo per la più facile e rapida diffusione del Cristianesimo, serve mirabilmente a propagare dovunque la cognizione di Dio e di Gesù Cristo... Gli Italiani sparsi nelle varie parti del mondo, nelle città del Mediterraneo, del Sud e del Nord della lontana Australia, negli adusti campi africani come nelle praterie sterminate della Pampa e degli Stati Uniti, sorpassano i tre milioni. E questo immenso esercito di lavoratori è alimentato di anno in anno da una grossa corrente migratoria che tocca i quattrocento mila. Sono circa duecento mila gli emigranti temporanei, vero flusso e riflusso di viventi, che danno ai lavori internazionali una mano d’opera attiva e intelligente e riportano in patria un sudato risparmio e lode meritata; e quasi altrettanti sono quelli che, sospinti dalla miseria, passano l’Oceano nella speranza di rapida fortuna, ma che finiscono, nell’immensa maggioranza, ad adagiarsi nel paese ospitale e formare, se non per se stessi, pei loro figlioli una patria nuova.

Le cifre esposte sono imponenti, ma il fenomeno migratorio, o Signori, pare non abbia raggiunto il suo apogeo, poiché malgrado le difficoltà frapposte dalla legge voluta due anni or sono, e che limita l’opera degli agenti di emigrazione; malgrado i disinganni e le grida di dolore, che di tanto in tanto attraversando l’Atlantico, ci fanno fremere ed arrossire, malgrado infine le proibizioni governative, l’esodo doloroso continua. Gli è, Signori, che l’emigrazione italiana, che fu ed è aumentata per le tristi condizioni nostre specialmente agrarie, che fu ed è stimolata fuor misura dagli agenti di emigrazione e dalla necessità di braccia da sostituire agli schiavi liberati del Brasile, risponde nel suo insieme ad un vero bisogno del popolo italiano, ed è in rapporto con l’aumento annuale della sua popolazione. Non si tratta quindi, o signori, di un fenomeno transeunte, ma di un fenomeno che ha tutti i caratteri di un fatto permanente. L’italiano è uno dei popoli che ha maggior aumento annuale di popolazione. Aumenta in ragione dell’11 e 12 per mille, in ciò superato solo dall’olandese che vanta una eccedenza dei nati sui morti del 13 per mille.


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Quindi è che malgrado la ingente emigrazione, la popolazione del Regno aumenta, e fra pochi anni, le nostre belle contrade avranno un massimo di densità.

Secondo calcoli esatti, aumentando la popolazione, come nello scorso ventennio, gli Italiani fra un secolo saranno 100 milioni dei quali, ammettendo pure, data una larga colonizzazione interna, di poterne ospitare tra i confini del regno altri 10 milioni e di raggiungere così i 45 o 50 milioni - che tanti potrebbe capirne l’Italia, se tutte le sue regioni avessero la densità della popolazione della Lombardia - avremo sempre un  immenso popolo di altri 50 milioni, che si spargerà, nel secolo venturo, pel mondo, sospinto da una forza a cui invano si resiste, la lotta per la vita; 50 milioni di italiani, o signori, dispersi sulla faccia della terra come foglie rapite da un turbine!

Ma dove si avvia questa gran massa di viventi, questa fiumana di sangue italiano?

La maggior parte di essa - è doloroso il dirlo - non sa dove vada. Per loro è l’America, il paese a cui si dirigono quelli che lasciano la patria in cerca di fortuna. Al Sud o al Nord, fra le zone temperate o le tropicali, in climi sani o pestilenti, su terre fertili o più sterili di quelle che abbandonano, in centri popolosi o in contrade deserte, essi non sanno. Vanno in America, e non di rado con l’aggravante di un contratto firmato in bianco che mette, se non la loro persona, il loro lavoro a disposizione di un padrone qualunque.

È così, che gli agenti di emigrazione hanno avviato un numero assai considerevole di emigranti al Brasile, a sostituire la mano d’opera già insufficiente ai bisogni dell’agricoltura, e resa affatto deficiente, come già dissi, dall’abolizione della schiavitù. È così che a New York il così detto sistema dei padroni, condannato con un bill del Senato degli Stati Uniti, agglomerò un numero sterminato di emigranti, attirati colà con mille promesse, sfruttati indegnamente e poi abbandonati, per lasciare il posto ai nuovi venuti, vittime nuove di turpi guadagni. È così, da ultimo, che nel Chili, per tacere di molti altri casi, trovano l’abbandono e la miseria più migliaia di nostri connazionali, allettati a recarvisi da ridenti menzogne. E come l’ignoranza e la povertà li rende qui in patria facili vittime degli agenti di emigrazione, cosi laggiù l’isolamento e la miseria li rendono preda facilissima della speculazione, sempre e dovunque senza viscere di pietà, e laggiù più che altrove. Per tal guisa, invece di lavoro adatto e largamente retribuito, invece di abbondante e sano nutrimento, trovano quegli infelici un rude lavoro - quando lo trovano - una retribuzione che, misurata alle fatiche, ai pericoli, al rincaro dei generi di prima necessità, è una vera irrisione, trovano poi il poco miglioramento dietetico pagato a


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largo prezzo, con la privazione bene spesso di quanto significa vita civile.

Ma chi potrebbe descrivere, o signori, i pericoli ai quali vanno incontro i nostri poveri emigrati in ordine alla vita religiosa? Si è detto tutto dicendo che nella immensa maggioranza essi vivono colà senza veder mai la faccia di un prete e la croce di un campanile. Abbandonati quindi a se stessi, o si danno all’indifferentismo più desolante o disertano la fede dei loro padri. Vi dirò cosa, o signori, che stringe il cuore a pensarvi: in sessant’anni, secondo calcoli ufficiali, emigrarono in una grande Repubblica Americana, 40 milioni di cattolici. Ora, supposto pure che 20 milioni, il che non si verificò mai, siano rimpatriati, i cattolici colà residenti, tenuto conto dei nati e dei morti, dovrebbero raggiungere la cifra di almeno 20 milioni; invece secondo l’ultimo censimento ecclesiastico, il loro numero non arriva, o certo non arrivava allora, agli 8 milioni. Dove se n’andarono gli altri 12 milioni?

Smarriscono il sentimento della nazionalità, e con esso, cosa che stringe il cuore, a pensarvi, il sentimento della cattolica Fede, cadono vittime della propaganda protestante, vittime infelici delle sette, colà, più che altrove attive e numerose. Ah! signori, permettete a un Vescovo di piangere innanzi a voi tanta sventura! La privazione di quel pane spirituale che è la parola di Dio, l’impossibilità di riconciliarsi con Lui, la mancanza del culto e di ogni eccitamento al bene, esercita, o signori, un’influenza mortifera sul morale del popolo. Anche l’uomo istruito è soggetto a tale pericolo, ma in minor grado poiché la sua educazione, la sua cultura, la conoscenza teorica della Religione, valgono in qualche modo a salvarlo dal gelo dell’indifferenza, potendo egli, se non altro, associarsi col pensiero ai divini Misteri, che si celebrano altrove, e nutrire la mente di letture morali. Ma il povero figlio della gleba, come potrebbe assurgere a pensieri così elevati? Per lui, più che per altri, il concetto della religione è inseparabilmente unito a quello del Tempio e del Prete. Dove taccia ogni sensibile apparato religioso, egli a poco a poco dimentica i suoi doveri verso Dio, e la vita cristiana nel suo spirito illanguidisce e muore. Ma non muore in lui la sete del vero, la brama dell’infinito! «L’uomo, dice un moderno filosofo incredulo, abbisogna naturalmente di Religione e di Culto. Egli è religioso per natura, come per natura è ragionevole, o meglio ancora egli è religioso perché ragionevole». Questo bisogno tanto più è sentito quanto meno è possibile soddisfarlo. Ciò si tocca con mano in mezzo ai nostri emigrati, anche là dove per mancanza del prete regna sovrano il materialismo il più abbietto. Immaginate poi, o signori, quanto quel bisogno debba essere vivo tra coloro - e sono i più –


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i quali ancora sentono la dignità del proprio essere, odono ancora i reclami della loro coscienza.

Dentro mi suona tuttora dolorosamente la voce di un povero contadino lombardo, venuto due anni or sono a Piacenza dalla estrema valle del Tibagy nel Brasile, per chiedermi a nome di quella numerosa colonia un Missionario. «Ah!, Padre, mi diceva egli con voce commossa, se sapesse quanto abbiamo sofferto! quanto abbiamo pianto, al letto dei nostri cari moribondi, che ci chiedevano costernati un prete... e non poterlo avere! Oh Dio, noi no, non si può più vivere, non si può più vivere così!». E continuava il poveretto, con rozzo ma eloquente linguaggio a narrarmi scene davvero strazianti. Lo confesso: non mai come allora mi augurai la vigoria dei miei 20 anni, non mai rimpiansi come allora l’impossibilità di mutare la croce d’oro del Vescovo in quella di legno del Missionario, per volare in soccorso di quegli infelici, veramente infelici, perché agli altri pericoli si aggiunge per essi quello di cadere nell’abisso della disperazione.

E sono parecchie ogni anno le deputazioni che con enorme dispendio mandano a Piacenza i nostri poveri espatriati per implorare l’assistenza religiosa; sono missionari e talvolta anche Consoli che reclamano aumento di personale...

È allora che prego Iddio si degni suscitare nei nostri giovani leviti l’antico spirito di Apostolato, gloria imperitura del clero italiano. Ma le vocazioni purtroppo non sono adeguate ai bisogni e i missionari è uopo formarli seriamente, sodamente.

Quando, dieci anni or sono, io raccolsi per la prima volta il grido dei nostri connazionali emigrati in un scritterello che ebbe tanta eco nel cuore di tutti i buoni e riscosse in ogni ceto di persone tanto consenso di parole e di fatti, ero ben lontano, o signori, dall’immaginare il cumulo di mali e tutti i pericoli ai quali va incontro il povero emigrante. Tutto, si può dire, o signori, cospira contro di lui, e i suoi mali spesso incominciano prima dell’esodo dall’umile casolare, sotto la forma di un agente di emigrazione che lo determina a partire, facendogli balenare innanzi la facile conquista della ricchezza e lo avvia dove a lui piace e conviene, non dove l’interesse dell’emigrante consiglierebbe; e lo seguitano quei mali lungo il viaggio, spesso disastroso, e lo accompagnano al suo arrivo in luoghi infestati da terribili malattie, ne’ lavori a’ quali si sente spesso disadatto, sotto padroni fatti disumani o dalla bramosia insaziata dell’oro, o dall’abitudine di considerare il lavoratore come un essere inferiore; e si aggravano quei mali sotto i mille agguati che la malvagità tende loro in paesi stranieri, di cui ignorano la lingua e i costumi, in un isolamento che è spesso la morte del corpo e dell’anima.


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E potrei citare fatti numerosi che dimostrano di quante lacrime sia bagnato e quanto sappia di sale il povero pane dell’emigrante, di quegli infelici che, tratti laggiù o da vane speranze o da false promesse, trovarono un’iliade di guai, l’abbandono, la fame e non di rado la morte, ove credettero trovare un paradiso; che, colorato dal miraggio del bisogno, videro l’Eldorado, senza pensare che il simoun violento della realtà sperde in un attimo le incantate città dei sogni! Infelici! estenuati dalle fatiche, dal clima, dagli insetti, cadono sconsolati sulla gleba fecondata dai loro sudori, sul margine delle vergini foreste, che seppero dissodare non per sé, né pei figli, percossi da quel morbo fatale e gentile che è la nostalgia, sognando forse la patria, che non seppe dar loro nemmeno il pane, invocanti invano il ministro della religione santa dei loro padri, che lenisca i terrori dell’agonia colle immortali speranze della fede.

Signori, il quadro non è lieto, ma è la storia verace di migliaia e migliaia di nostri connazionali emigrati, quale io l’ho raccolta dalle relazioni de’ miei Missionari, e quale mi venne scritta e raccontata da chi fu testimone e parte di quei tristissimi esodi.

Ma ciò che più rattrista in tutto questo, è il pensiero che la maggior parte dei mali religiosi, morali, economici, ai quali si espone la nostra emigrazione potrebbero evitarsi o impicciolirsi d’assai, qualora le classi dirigenti in Italia fossero consce dei doveri che li lega ai fratelli espatriati; poiché, o signori, le immense contrade d’America non sono così malsane da non poter offrire alla nostra emigrazione un angolo tranquillo, e non tutte le terre son così possedute dalla speculazione, da non trovarne ancora di così fertili e a buon patto da assicurare un equo compenso ai lavoratori. Tutto sta saperle additare alla nostra emigrazione. Ma quando si è fatto questo in Italia? quando si è detto all’emigrante: badate, questo e quest’altro contratto che vi si offre, queste e quest’altre regioni che vi si additano, nascondono il tale e il tale agguato: sono malsicure, sono malsane, sono sterili; o pure essendo fertili, sono così fuori da ogni possibile mezzo di comunicazione, così segregate da ogni umano consorzio, che il frutto delle vostre fatiche giacerà invenduto, ricchi ad un tempo e poveri? Quando mai, ripeto, si è fatto questo in Italia? Tutto al più si grida un po’ e si geme sotto la sferza di qualche fatto, che in quei nostri fratelli offende il nostro amor proprio nazionale, si grida e si compassiona e si reclama anche, se si vuole, qualche misura dal Governo, e poi? Tutto tace, tutto si copre di oblio, tutto rientra nella calma; la calma infida dell’onda che nasconde la vittima e se ne preparano di nuove!

Che fare pertanto?


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Le nazioni Europee che trassero dalla loro emigrazione potenza, ricchezza e gloria, come l’Inghilterra, la Francia e il Portogallo, e quelle che entrarono di recente a far parte delle nazioni colonizzatrici, come la Germania e il piccolo Belgio, debbono servirci in questo di sprone e di esempio.

Fra quei popoli è una nobile gara di governi e di società private, di sacerdoti e di laici nel pensare e mettere in opera novelli espedienti, non solo per dirigere gli emigranti, ma anche per venire in aiuto degli emigrati, dal momento che questi abbandonano il loro casolare fino a quando giungono alla meta, e anche dopo in ogni bisogno sentono la mano benefica della patria, sotto la triplice forma della religione, del potere e della carità, che li consiglia, li difende, li soccorre, e così mentre si disponevano a lasciare il paese nativo, forse colla maledizione in cuore, sotto il benefico influsso di quella pietà, mutano in parole di benedizione la bestemmia e portano con sé come visione di cielo quella grata memoria, si incoraggiano alle lotte della vita e intrepidi e fidenti guardano in faccia all’avvenire. Anche in mezzo ai pericoli, anche quando si sentono maggiormente soli tra gente nuova, essi sanno che attenta e provvida la gran Patria lontana vigila sopra di loro. Così le idee di patria e di nazionalità non si spengono al di là dell’oceano, ma si rafforzano per il contatto continuo con sacerdoti e maestri, che hanno comuni coi coloni i santi affetti verso Dio, verso la Chiesa e verso la Patria.

Algeri e Tunisi, o signori, sono una prova eloquente di ciò che possa la cattolica religione per lo sviluppo e l’incremento del benessere nazionale e per la santificazione delle anime nelle colonie, e nessuno ignora quanto merito vi abbia avuto quel grande che fu il Card. Lavigerie, il quale dalle risorte mura della gloriosa metropoli africana tutto dirigeva con sapienza ammirabile il movimento religioso delle colonie francesi. Là, ove nel luglio del 1830 non erano che pochi missionari, ristretti fra quattro mura e guardati a vista dalla sospettosa tirannide di un satrapo mussulmano, sorgono ora diocesi fiorenti, la cattedra di S. Agostino fu rialzata, e dalle rovine in cui l’avevano precipitata le migrazioni, sorgono chiese, conventi, scuole, orfanotrofi, ospedali. L’azione benefica della Croce di Cristo consola per tal guisa gli emigrati, e li rinfranca, mantenendo fermi i loro princìpi religiosi e preservandoli dalla corruzione, che a poco a poco li condurrebbe a rinnegare non solo la fede, ma i loro doveri altresì verso il paese di origine.

Anni fa ebbi una visita di un egregio membro del Parlamento Tedesco che si adoperò con grande attività pe’ suoi connazionali emigranti, e mi diceva che in Germania e nel Belgio sarebbe difficile trovare una parrocchia, dove non vi sia un comitato per la protezione degli


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emigrati tedeschi, che ogni anno in quella parrocchia si fanno raccolte di danaro nelle chiese unicamente per le scuole e per le chiese dei loro fratelli espatriati, e che tutte le famiglie anche più povere, si fanno un dovere di concorrervi col loro obolo. Il defunto Vescovo di Münster da solo in varie riprese mandò in America ben 92 preti della sua diocesi, li unì in congregazione e fece loro emettere i voti religiosi perché nessuno venisse tentato a lavorare per sé, ma tutti uniti lavorassero insieme pei connazionali all’estero. «La mia diocesi - mi diceva un dì quel santo vecchio - non ha perduto nulla, perché lo spirito apostolico si è rialzato nel mio clero e Iddio benedetto, per ogni prete che mando laggiù, mi invia due chierici degni veramente della loro missione».

E tra noi, o signori, in questi dieci o dodici anni, dacché si parla con tanta frequenza di emigrazione e di emigrati, che cosa si è fatto? Non sarebbe conforme a verità il dire che si è fatto quanto si poteva e si doveva.

Non mancano, grazie a Dio, società di protezione religiosa e civile che sorsero e si divisero per selezione spontanea questo nuovo campo di attività.

Taccio dell’opera mia, e perché a voi abbastanza nota e perché non voglio abusare più a lungo della vostra paziente bontà. Dirò solo che se, in Dio fidando e nella Sua Provvidenza, mi accinsi all’ardua impresa, fu appunto per eccitare i volonterosi a tentare anche in Italia qualche cosa nel campo specialmente religioso. Io pensavo: se il clero fornisce eroi che vanno ad evangelizzare popoli barbari, come non darà i generosi che con minor pericolo, se non con minor disagio, si rechino ad assistere i nostri connazionali specie nelle Americhe, fra i quali, avranno parenti ed amici forse, conterranei certamente? Se per asciugare le lacrime d’un’ora, i ricchi e i poveri d’Italia in più occasioni gareggiarono in opere di carità, dando gli uni largamente il superfluo, levandosi gli altri il pane di bocca, oh, che non faranno quando sappiano esservi là da tergere un pianto che dura da anni e durerà, se non si provvede, di generazione in generazione? Quando riflettano che c’è da togliere una vergogna, la quale ci mostra inetti agli occhi degli stranieri e ci rende in faccia a loro spregevoli ?

Ben presto mi accorsi che avevo preveduto giusto, poiché non solo trovai mani plaudenti e parole di lode, ma, ciò che più importa, cuori aperti, anime generose, volontà energiche, pronte all’azione fino al sacrificio.

Primo fra tutti mi è grato ricordare il Sommo Pontefice Leone XIII, nel cui cuore apostolico tutti si ripercuoterono i dolori dei suoi figli. Non solo Ei volle accordare all’Opera la Sua alta protezione, ma si


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degnò altresì encomiarla e benedirla, dandole così l’appoggio che per me si potesse desiderare maggiore. E col Sommo Pontefice la S.C. di Propaganda, l’Episcopato Italiano, l’Associazione Nazionale di Soccorso ai Missionari italiani, la pubblica stampa, i più insigni personaggi del laicato, innumerevoli sacerdoti, e non pochi di voi, o signori.

Tre progetti di legge stanno ora per essere presentati, se non sopravvengono crisi, al nostro Parlamento; uno sulla emigrazione, un altro sulla tutela dei risparmi dei nostri emigrati e un terzo sul reclutamento dell’esercito. Vi si contengono ottime disposizioni, e giova sperare abbiano presto ad ottenere l’approvazione governativa. Si toglieranno così gravi abusi a danno dei nostri emigranti e si colmerà una lacuna piena di insidie nella nostra legislazione.

Ma per sanare le piaghe che affliggono l’emigrazione italiana, le leggi, o Signori, non bastano, perché talune di queste piaghe sono alla natura stessa della emigrazione inerenti, altre derivano da cause remote che sfuggono al controllo delle leggi, e anche alle migliori leggi del mondo e cogli agenti di essa numerosi e perfetti, non si arriverebbe ad estirpare quei mali. Del resto tutti sanno che i governi e i loro agenti sono vincolati da consuetudini e da riguardi internazionali e certi provvedimenti o non possono usarli, o, usandoli, non farebbe che inasprire le piaghe che si voglion curare.

È qui, o Signori, che deve incominciare l’opera delle classi dirigenti, qui dove quella delle leggi e del governo finisce. In qual modo? Studiando dapprima e discutendo il gran problema dell’emigrazione, facendo entrare (ed è questa la preghiera che rivolgo ai capi del movimento cattolico) facendo entrare, come parte viva dell’azione dei comitati regionali, diocesani e parrocchiali, questa che riguarda il bene religioso economico e civile di tanti nostri sventurati fratelli raccogliendo a loro vantaggio sussidi anche materiali, dissuadendo energicamente l’emigrazione quando si riconosce disastrosa, difendendola dagli agguati e dai contratti dolosi, circondandola insomma di tutti quegli aiuti religiosi e civili che valgono a renderla contro i nemici forte, compatta e quasi dissi invincibile, poiché la sicurezza di ciascuno in questo caso diventa la sicurezza di tutti.

Seguiamo a tal riguardo l’impulso magnanimo del nostro glorioso Pontefice Leone XIII, che Iddio serbi lunghi anni ancora al nostro affetto, a gloria della chiesa, a bene della società; aiutiamo la chiesa in questa opera di redenzione e di salvezza...

La Chiesa di Gesù Cristo, che ha spinto gli operai evangelici tra le nazioni più barbare e nelle più inospiti lande, non ha dimenticato e non dimenticherà mai la missione che le venne da Dio affidata di evangelizzare i figli della miseria e del lavoro. Essa con trepido cuore


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guarderà sempre a tante anime poverelle che, in un forzato isolamento, vanno smarrendo la fede dei loro padri e, colla fede, ogni sentimento di cristiana e civile educazione. Sì, o signori, dov’è il popolo che lavora e che soffre, ivi è la chiesa, perché la chiesa è la madre, l’amica, la protettrice del popolo e per esso avrà sempre una parola di conforto, un sorriso, una benedizione (applausi).

All’opera dunque concordi e fidenti. Il Santo Padre ce ne ha dato il nobilissimo esempio, e colla sua sapiente enciclica ha segnato i confini del giusto e del vero nel campo sociale. Entro que’ limiti l’azione cattolica può e deve svolgersi, senza tema di errare.

In mezzo a tanto imperversare di passioni, di odii di classi, di bisogni fisici e morali, la parola pacificatrice del clero può essere di capitale importanza per il trionfo del bene e della verità e può far sì che il secolo XIX, che pare voglia spegnersi fra i sinistri bagliori di una procella, finisca invece in un placido tramonto foriero di un’alba più serena e tranquilla, in cui l’uomo posi da tanta guerra e tutte diriga le sue forze al pacifico svolgimento della vera civiltà e del vero progresso.

È utopia? È sogno? Dio non voglia! Ad ogni modo benedetti un’altra volta coloro che avranno lavorato per mandarlo ad effetto, poiché avranno ben meritato della religione e della patria». (Applausi vivissimi e prolungati).




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