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Silvano Tomasi – Gianfausto Rosoli Migrazioni moderne IntraText CT - Lettura del testo |
IL SOCIALISMO E L’AZIONE DEL CLERO
Osservazioni
[1a ed., Piacenza, Tip. G. Tedeschi, 1899, pp. 48]
Pur essendo il tema dell’emigrazione affrontato solo nella parte finale, questo opuscolo costituisce lo scritto sociale più conosciuto e fortunato di Scalabrini, che ebbe una seconda edizione, qui riprodotta (Torino, Libreria Salesiana Editrice, 1899, pp. 90).
L’opuscolo si inserisce nel dibattito sulla “questione sociale” di cui l’emigrazione è per l’Italia uno degli aspetti più significativi. È quasi un commento dell’enciclica Rerum Novarum a otto anni dalla sua pubblicazione. È interessante l’interpretazione data al documento pontificio alla luce delle encicliche precedenti. Leone XIII, come negli interventi dottrinali e politici sui governi, sulla libertà, la costituzione cristiana degli stati, così anche nel problema sociale, ha presentato ai cattolici l’autentica visione della Chiesa. Scalabrini non ritiene sia un progetto temporalistico, ma un discorso pastorale; il papa ha indicato ai fedeli, nel labirinto intricato e complesso di diverse dottrine sociali, le direttive che si ispirano al vangelo.
Il vescovo di Piacenza nel suo opuscolo, dopo aver enunciato i principi del socialismo, visto nelle forme estremistiche, ne confuta gli errori e fa una sintesi della Rerum Novarum. Il “taglio” pastorale, colto nel documento pontificio, lo convince che deve essere sollecitata l’azione del clero, come chiaramente è indicato dal titolo. L’intervento dei sacerdoti sarà più efficace se, scendendo dalle enunciazioni generali, si calerà nei problemi concreti che sostanzialmente riguardano il mondo agricolo in un’Italia che sta avviandosi verso lo sviluppo industriale. Scalabrini insiste sul dovere del clero di farsi promotore dell’associazionismo istituendo società di mutuo soccorso e, per combattere l’usura, dando vita a cooperative di produzione e di consumo e, soprattutto, a banche e a casse rurali. I sacerdoti devono fare opera di persuasione presso i padroni perché procedano alla revisione dei contratti colonici adottando, se possibile, la mezzadria e almeno eliminando consuetudini non sempre morali. È necessario che i sacerdoti si interpongano come mediatori
nei conflitti tra datori di lavoro e contadini e intervengano direttamente per far cadere oneri ormai anacronistici.
Scalabrini sollecita il clero anche a studiare le nuove tecniche intese a razionalizzare il lavoro agricolo (concimazione artificiale, coltivazione intensiva, rotazione triennale) e i rimedi contro la filossera e l’afta epizootica. Insiste perché si promuova la frequenza dei contadini ai corsi delle “Cattedre agricole ambulanti” che a Piacenza hanno una lunga tradizione di origine risorgimentale e dalle quali il vescovo ha ricevuto richiesta di collaborazione. Scalabrini comunica che ha istituito nei due seminari diocesani corsi analoghi chiamati “Cattedre agricole”.
... qualunque sia la fortuna dei tempi, seguirà serenamente il suo corso la Chiesa di Dio, beneficando sempre. La sua mira è il cielo, ma la sua azione abbraccia cielo e terra, perché furono unite in Cristo tutte le cose, e quelle che sono in cielo e quelle che sono in terra.
(Discorso tenuto al Sacro Collegio da S. S. Leone XIII il dì 11 Aprile 1899)
Gli avvenimenti della primavera scorsa ai quali assistemmo costernati e trepidanti, i feriti che lasciarono tante famiglie nel lutto, i prigionieri che, colpiti dal verdetto della giustizia, attendono ancora la parola del perdono, i disinganni del passato, le incertezze del presente, le paure dell’avvenire formano un cumulo di dolori e di guai, che riempiono ogni animo di infinita tristezza.
Da tempo la società è in preda a forze anarchiche. Scossa ogni autorità, rallentati i vincoli sociali e familiari, negati, derisi o negletti i principii religiosi, pervertiti i giudizi e i costumi, la vita sociale va diventando ogni dì più una selva selvaggia, nella quale ciascuno si muove per suo conto e per suo interesse e il bene dell’uno forma il male e la privazione dell’altro, esplicando così e attuando il ferino programma contenuto nella sentenza del filosofo scozzese: Homo homini lupus.
Di qui uno sterile armeggio di opinioni varie e cozzanti, di qui la febbre dei subiti guadagni, di qui l’affannosa conquista del potere, di qui appunto quell’invidia del bene altrui che diventa sprone al soppiantare, all’ingannare, al truffare, a quel rompere di ogni freno e
sopprimere di ogni ostacolo che si frapponga ai desiderii ed ai godimenti individuali, meta unica di una società atea e materialista.
E a questi mali grandissimi si è aggiunto, e li ha resi di anno in anno più gravi, l’aculeo del disagio economico, pungente per tutti, insopportabile per il popolo, al quale la perdita dei conforti della fede e della speranza cristiana, e la conquista di nuovi diritti e della coscienza della propria forza, fanno sentire più vivamente la inopia in cui vive e lo rendono credulo e ardente neofita di ogni novità.
A tanto disagio economico e abbassamento morale, aggiungete la potenza del grosso capitale, così forte e smisurata nella presente organizzazione sociale e industriale, da attrarre, senza rischio e senza fatica, una grandissima parte degli utili del lavoro, quasi albero gigantesco che ruba, co’ suoi mille tentacoli e colle sue folte ramificazioni, il nutrimento, l’aria e la luce alle piante minori che intristiscono a’ suoi piedi, e voi avrete le cause che fecero sorgere e rafforzarono il socialismo.
Reclutando i suoi proseliti nelle officine, nei campi, nelle università, fra la nobiltà e il popolo, segnatamente fra il popolo, esso in breve giro di anni ha formato un esercito imponente. Tutti gli umili, gli oppressi, i diseredati vi si sentono come attratti per la speranza del meglio, come tutte le anime ribelli e tutti gli impazienti che vogliono ad ogni costo mutare il presente ordine di cose. A loro poi si vanno aggiungendo, come alleati o come affiliati (e sono forse i più temibili, e certo i più stimabili), quelli che sentono più viva la pietà verso gl’infelici, più forte e più repellente la nausea della corruzione, che penetra e pervade gli organismi politici e ne attinge i fastigi; e mal possono tollerare, senza protesta, le ingiustizie sociali, l’ozio pasciuto dei pochi e l’inopia dei lavoratori, e, congiunte in un individuo, la ricchezza, la potenza e la indegnità.
In Germania il socialismo ha costituito un potente gruppo parlamentare; in Francia ha conquistato interi Comuni e aspira al supremo potere politico, e, a volta a volta, vi ha già esercitato un’influenza notevole; in Australia rumoreggia e obbliga il Governo a venire a patti; nel Belgio costituisce per numero e per compattezza una forza imponente; e in Italia, quantunque sorto in ritardo, ha già fatto la sua prova in parlamento e in piazza, e va diffondendosi rapidamente come vasto incendio portato dal turbine.
I complicati sistemi economici e filosofici modificati in mille guise, passando di mente in mente, di lingua in lingua, travasandosi nelle teste incolte degli operai e de’ contadini a brani, a frasi staccate, letti sul giornaletto propagandista o udite dalla viva voce dei tribuni, vestite di calde parole, subito sposati ai bisogni e alle passioni di ciascuno, hanno generato nelle menti il caos, ne’ cuori l’agitazione, l’ansia di
chi attende grandi cose e uno spirito di ribellione sempre pronto ad esplodere. Per costoro socialismo vuol dire la realizzazione di ciò che piace a ciascuno, una panacea per tutti i mali. E così il contadino attende la prossima divisione delle terre e adocchia il poderetto che sarà suo, il proletario la divisione del capitale, lo spostato il fine della tirannide borghese, l’ozioso la vicina cuccagna.
Il detto di Proudhon La proprietà è un furto ha formato via via una serie infinita di frasi, coniate sullo stesso stampo e nelle quali quelle intricate teorie del socialismo scientifico sono tradotte in moneta spicciola ad uso del volgo.
In tale stato degli animi, le sommosse della scorsa primavera sono fra loro in ragione di causa e di effetto, e se c’è meraviglia da fare ella è che la esplosione non sia stata più estesa e più violenta. Quelle turbe che inermi sfidavano con accanimento le truppe agguerrite, o fossero spinte dagli urgenti bisogni della fame, o da spirito di rivolta, o da teorie fascinatrici, sono pur sempre un monito che sarebbe follia lasciar andare perduto.
Il potere armato ebbe di loro facile vittoria, ma fino a quando resisterà questa forza di compressione? Qual è il suo grado di resistenza? E fino quando questa forza, che è nell’esercito, rimarrà immune dal morbo della ribellione, da cui la società tutta quanta è pervasa?
In cotesti quesiti sta appunto la minaccia dell’avvenire, che non sarà purtroppo lontano se chi ha l’obbligo di pensare e di provvedere, non penserà e provvederà a togliere con saviezza e giustizia i mali religiosi, morali ed economici, che tengono la società moderna agitata e divisa.
A sanare i presenti mali, e a prevenirne di maggiori, tutti debbono concorrere, ma sopratutto il clero, che ha fra le sue principali mansioni quella di pacificatore; pacificatore delle anime con loro stesse, degli individui colla società, delle coscienze con Dio, smussando le asperità della vita, reprimendo le cieche sopraffazioni degli egoismi, rendendo insomma, colla persuasione che viene dalla parola e più dall’esempio, accettevole e cara la divina legge di Cristo.
Dunque portiamo noi per i primi in mezzo agli spiriti agitati il rimedio della parola, dell’esempio e di tutta l’opera nostra.
Ed è appunto perché sia più sicuro e cosciente siffatto lavoro, ch’io m’indussi a dettare queste brevi considerazioni, le quali potranno servire di luce e di guida nell’azione del clero a vantaggio de’ popoli affidati alle sue cure.
In esse sta la risposta a’ dubbi espressimi da molti pii e zelanti sacerdoti, a’ casi di vita pratica occorrenti tanto nella più piccola parrocchia di montagna, quanto nelle grosse borgate e nelle città, e ai quali
la morale, insegnata nelle scuole, non dà sempre risposte adeguate, perché riguardano forme nuove della vita sociale, diritti e doveri nuovi.
Molti credono che La questione sociale, La questione operaia, La rivoluzione, Il socialismo, L’anarchismo, L’internazionale sieno una sola e orribile novità, una setta infernale nata nelle tenebre, rinforzata nel mistero, che viva di minacce in attesa di dar di piglio nel sangue e negli averi de’ buoni; il rombo di una bufera lontana e minacciosa; un castigo di Dio in punizione delle umane perversità; e, nella loro fede semplice, si contentano di piangere e di pregare, perché il buon Dio allontani questo flagello o ne temperi l’asprezza.
Ottima cosa piangere e pregare, poiché il pianto e la preghiera non solo placano Dio, ma vivificano altresì le anime nostre e le rendono alacri e pronte al lavoro, alla lotta e al sacrificio; tuttavia non basta. Bisogna scendere in campo, soldati impavidi della milizia di Gesù Cristo, e combattere l’errore a viso aperto, dimostrare la verità, consigliare, dirigere, illuminare le coscienze.
Quello che io dirò è frutto, più che altro, di esperienza personale. Prima che dai libri, l’ho imparato dalla vista di tante piaghe sociali e di tante miserie, sulle quali per debito sacrosanto versai il balsamo della fede e i soccorsi della carità.
Fino dai primi anni di sacerdozio, nei mesi liberi dalle cure dell’insegnamento, io esercitai il sacro ministero in varii paesi della mia diocesi nativa ed ebbi agio di osservare davvicino la vita dei campi nelle sue svariate forme e ne’ suoi diversi gradi di benessere, i patti colonici e i loro effetti economici e morali.
Passeggiavo fra que’ campi ubertosi (proprietà di un ricco signore, noto nei fasti della beneficenza cittadina), fecondati da una popolazione laboriosa, che però contava un tanto per cento di pellagrosi, ed entravo in quelle capanne umide e senza imposte con un vero stringimento di cuore.
Fui altresì parroco, per anni parecchi, in un sobborgo della mia Como. Contavo fra i miei parrocchiani alcune migliaia di operai in seta, tessitori, filatori, tintori. In quegli anni potei vedere pur davvicino la misera condizione degli operai, misera per sé e per le contingenze alle quali può andare soggetta. Come si ripercuoteva in loro ogni crisi politica o finanziaria, anche lontana, che arrestava o rallentava il movimento industriale! Come sentivano essi ogni più piccolo caso della vita! una malattia, per esempio, una disgrazia accidentale che diminuisse la loro attività giornaliera! E a queste piccole e forzate soste, che toglievano ciascuna un pezzo di pane al povero desco, sopravvenivano di tanto in tanto le grandi crisi industriali, che sospendevano ogni lavoro. In questi casi era la miseria, la fame nello stretto
senso della parola, appena mascherata per qualche tempo dal credito del bottegaio o da un anticipazione di salario dell’industriale. E allora era una corsa affannosa degli uomini in cerca di lavoro, delle donne ad invocare sussidii. Oh, le tristi giornate, quand’io, visitando gli infermi, non sentivo, salendo per quelle povere scale, il suono secco e quasi ritmico del telaio! Tristi sotto ogni rapporto, perché colla miseria entrava spesso il disordine e il disonore nelle famiglie.
E vedendo tutte quelle miserie, e sentendone i lamenti e conoscendo quegli infaticabili industriali, a torto accusati di sfruttare i poveri, e quel ricco proprietario buono e benefico, il quale aveva i suoi campi appestati dalla pellagra, mi pareva che il male non provenisse tanto dalla volontà degli uomini singoli, quanto dal modo con cui il lavoro era organizzato, e pensavo che sarebbe stato un bene per tutti il poter trovargli condizioni più eque.
Se il lavoro avvalora il capitale, perché non dovrà avere più larga compartecipazione agli utili, tanto almeno da assicurare al lavoratore vitto sufficiente e sano e sicuro?
Se il lavoro è una legge fisica e un dovere morale, perché non dovrà diventare un diritto legale?
Se l’istruzione è un dovere, perché non si lascia il tempo all’operaio di istruirsi, limitando l’età e le ore del lavoro?
Se l’igiene è un obbligo sociale, perché si permettono, senza le dovute cautele, lavori che avvelenano e accorciano la vita?
Se l’integrità personale e la previdenza sono due conquiste della civiltà moderna, perché non si assicura, contro le eventuali disgrazie, la vita del lavoratore, e non si provvede in maniera decorosa alla sua vecchiaia impotente?
Così pensavo io, e così penseranno molti alla vista e al contatto delle miserie sociali.
Orbene, quelle domande, in piccola parte già tradotte in leggi, contengono appunto alcuni postulati del socialismo.
Vi è dunque in quei postulati una parte di vero e di giusto, che tutti i buoni debbono accettare e adoperarsi, quanto loro è dato, di attuare, non solo perché il buono e il giusto non mutano natura per esser propugnati pure dai cattivi e accoppiati al male, ma anche per togliere al male stesso e al falso la loro maggior forza di espansione, la quale consiste nell’essere propinati unitamente alla verità e nell’assumere per ciò solo l’aspetto della giustizia.
Non lasciamoci adunque imporre dai nomi e dalle apparenze delle cose. Esaminiamo con serenità i postulati del socialismo; opponiamo all’azione sua, colla certezza che ci viene dal possesso della verità, l’azione sociale cattolica, e sia dessa il farmaco ricostituente del consorzio
civile. Socialismo e Questione sociale sono parole comprensive, e le teorie che significano è più facile confutarle che definirle.
A scanso di equivoci intendiamoci dunque fin dalle prime sul valore di tali parole.
Alcuni danno loro un significato larghissimo, e chiamano socialismo e socialistiche le speculazioni filosofiche e tutte le aspirazioni e le lotte degli individui e dei popoli, tendenti a conquistare un miglioramento sociale e a conguagliare le varie classi di una società.
Preso in questo senso il socialismo deriverebbe da una certa tendenza livellatrice che è nel fondo della natura umana, per cui tutti gli uomini si sentono intimamente uguali fra loro, aventi lo stesso diritto alla vita e al benessere, e comprenderebbe gran parte della storia de’ popoli, segnatamente de’ Greci e de’ Romani, le lotte de’ quali, anche quando avevano carattere spiccatamente politico, erano in fondo determinate da un desiderato rinnovamento e miglioramento sociale. Ma quelli che danno al vocabolo Socialismo tale estensione, lo confondono evidentemente con la Questione sociale, cosa ben differente.
Per Socialismo io intendo significare solo quei sistemi economico-politici che tendono a dare alla società un assetto essenzialmente diverso dal presente, mutandola ne’ suoi elementi fondamentali, che sono: la libertà, la proprietà individuale e la famiglia.
Anche circoscritto così il socialismo non è da ieri, e noi ne troviamo tracce e sistemi completi tanto nelle istituzioni quanto nel pensiero speculativo degli antichi.
I Cinesi ebbero nella remota antichità filosofi e istituzioni comunistiche, e presso diversi popoli di Oriente hanno pure esistito, come stato di fatto (all’infuori di qualunque teoria filosofica), società comunistiche, nelle quali una sola casta dominatrice possedeva in comune la proprietà della terra e viveva del lavoro di caste inferiori.
Fra i Greci l’antichissima costituzione di Creta, citata dai filosofi come una perfezione e imitata da altri legislatori, era comunistica: e tale fu quella che Licurgo diede a Sparta, la quale, secondo Platone e Aristotile, ebbe la forma di governo più rispondente alle vecchie tradizioni elleniche.
Si può affermare che, anche in questo campo, la pratica precedette la teorica, la quale ebbe pure nell’antichità filosofica rappresentanti numerosi. Più illustre di tutti, per altezza di pensiero e splendore di forma, il sommo Platone; poi via via, di secolo in secolo, di gente in gente, ora come imitazione filosofico-letteraria della Repubblica di Platone, ora come aspirazione utopistica o sociale di individui e di masse, tenne il campo con Tommaso Moro nella Utopia, con Campanella nella Civitas solis, con Harrington nell’Oceana, arrivando così
alla moltiforme efflorescenza moderna e contemporanea di teorie e di scritti socialisti, che ebbe per progenitori Rousseau, Mably, Saint-Simon, Morelly, Baboeuf, Fourier, Owen, Marx e Lassalle, per tacere d’altri moltissimi.
Significanti non meno di tali scritti furono i fatti che seguirono qua e là, contemporanei a’ medesimi, specie per opera di sette religiose, le quali in tutti i tempi si valsero di quello spirito di soave fraternità, che fu portato da Cristo in terra, per mascherare la loro empietà e far accettare le loro matte idee. Intinti di socialismo siffatto, che non era se non una stolta e perversa parodia della società primitiva cristiana, furono le sette degli Esseni, dei Pelagiani, dei Valdesi, degli Albigesi, degli Ussiti, dei Viclefiti, degli Anabattisti, dei Calistini, dei Taboristi; sette che sorsero in tempi e luoghi diversi e che furono causa di perturbazioni sociali e qualche volta di ferocissime lotte. Tommaso Münzer, che fu uno dei capi delle guerre di religione nei primi tempi del luteranesimo, così riassumeva le sue dottrine socialistiche: «Noi siamo tutti fratelli e non abbiamo che un comun padre, Adamo. Donde viene dunque questa differenza di beni che la tirannia ha introdotto fra noi e i brandi della terra? Perché gemere noi nella povertà, essere oppressi da fatiche, mentre essi nuotano nelle delizie? Non abbiamo noi diritto alla uguaglianza dei beni che, per natura loro, sono fatti per essere equipartiti, senza distinzione, fra gli uomini tutti? La terra è un retaggio comune del quale ci è stata rubata la nostra parte. Quando mai noi abbiamo ceduto questa porzione della paterna eredità? Ci si mostri il contratto che abbiamo stipulato!.... Rendeteci, o ricchi del secolo, o avari usurpatori, sì, rendeteci i beni che ingiustamente ritenete !...»
Ma l’epoca classica del socialismo, sia considerato come produzione intellettuale, sia come associazione di individui, è il nostro secolo, principalmente questa fine di secolo.
Poche idee si sono mostrate più feconde e più ispiratrici della economico-sociale, e in nessun altro tempo lo spirito di propaganda fu più intenso e più risoluto a proseguire il suo fine. La sovranità popolare esercitata ne’ comizi, ne’ voti, nelle manifestazioni politiche, negli scioperi, rivelando al popolo il gran potere del numero e dell’associazione, ha fatto considerare la uguaglianza economica come una derivazione logica della uguaglianza politica e civile.
Una esposizione obbiettiva e sommaria delle dottrine socialistiche contemporanee sarebbe certo di grande utilità e ammaestramento, e forse mi vi accingerò io stesso in altra occasione. Per ora circoscrivo il mio dire ad alcune obbiezioni ed osservazioni di indole generale, intrinseche ed estrinseche, le quali, nel loro insieme, dimostrano per
una parte quanto di vacuo, di irreligioso e di antisociale contengano in sé quelle dottrine, e dall’altra quanto di vero e di giusto.
Lasciando da parte quelle teorie che fanno appello al pugnale, alla dinamite, o comunque alla violenza e allo spirito di distruzione, e che per il loro eccesso si confutano da sé, restringerò ora le mie osservazioni a quelle che, valendosi abilmente del sentimento e della ragione, affermano di parlare in nome della giustizia sociale.
La prima obbiezione che si può muovere a teorie siffatte è, che malgrado il lusso di calcoli aritmetici o matematici, malgrado tutto l’apparato di logica e di dialettica, il socialismo è ben lontano da quel rigore scientifico a cui pretende, e non può dire, se non per mala fede o ignoranza, di aver trovato la formola scientifica della società dell’avvenire. Infatti la varietà e molteplicità delle teorie e la infinità delle opinioni fra loro cozzanti, se sono una prova della alacrità e del tenace proposito con cui i socialisti si affaticano intorno al grande quesito, provano altresì che ancora si è nel campo dell’opinabile e che nulla o ben poco si è conchiuso di positivo.
Così pure le polemiche dei socialisti cogli avversari e tra loro, e i meeting, ove fraternamente socialisti di diverse scuole contendono a parole, a pugni, a randellate, e non di rado a revolverate, se sono una prova dell’ardore delle opinioni, sono anche una smentita della fraternità predicata teoricamente. Poiché siffatto procedere giustifica questa domanda: se ora, combattenti in uno stesso campo, soldati della stessa idea, tutti uniti dall’odio del presente, si trovano così irreconciliabilmente disuniti, allorché si tratta dell’avvenire a parole, che farebbero quando fossero padroni delle situazioni e dovessero discendere dalla sfera dell’astratto per dare forma concreta alla società da essi vagheggiata?
Finora dunque ciò che vi ha di veramente concorde nel socialismo scientifico o piazzaiuolo è l’odio implacabile contro la società in tutte le sue forme presenti. Ma l’odio non fu, né sarà mai fonte di bene.
Dato pertanto un simile stato di cose, non è addirittura stolto, per non dire delittuoso, il pretendere, come fanno i socialisti, di demolire l’attuale società ne’ suoi diversi ordinamenti, in nome di una società avvenire che non sanno nemmeno eglino stessi come foggiare? Chi nol dirà un sogno di menti forsennate e chimerizzanti? Demolire la casa prima di avere preparata quella che deve sostituirla è un colmo di imprevidenza, com’è una vera crudeltà far balenare alla mente degli operai e de’ contadini un bene cui non potranno conseguire giammai, senz’altro scopo che quello di un proselitismo che può appagare, se si vuole, l’amor proprio dei capi, ma non la coscienza di chi sente e misura la responsabilità de’ proprii atti, sia pubblica, sia privata.
Queste osservazioni estrinseche riguardano, più che le dottrine, i metodi di lotta e di propaganda socialistica.
Addentriamoci ora nel vivo della questione, nella sostanza di quelle dottrine.
Il socialismo moderno, è, in sé stesso considerato, una questione economica; pero, com’è di tutte le questioni che debbono applicarsi all’uomo individuo o alla sua collettività, si intreccia con altre e muta natura e forma, poiché l’uomo è una unità, e tutto quanto riguarda tale unità inscindibile, si intreccia, si fonde e si complica in modo da riflettere i moltiformi aspetti sotto cui l’uomo stesso si può presentare.
Così è della questione sociale. Economica nella sua essenza, si trasforma in morale, politica e religiosa nelle sue immediate conseguenze.
E di vero, la formola comune del socialismo, del comunismo e del collettivismo, le tre principali sette nelle quali si dividono i socialisti, suona così: tutto ciò che produce la ricchezza (cioè capitale, terre, istrumenti di lavoro) è proprietà dello Stato il quale ne distribuisce i frutti, secondo gli uni con perfetta uguaglianza, secondo altri a norma de’ bisogni di ciascuno.
Ora questa formola sociale, per essere attuata, deve ferire l’umanità ne’ suoi più intimi e sostanziali costitutivi e ne’ suoi affetti più cari, quali sono appunto la religione, la famiglia e la libertà individuale.
Il socialismo moderno infatti, tuttoché essenzialmente economico, per quella stretta connessione, più su notata, che vi è tra tutte le questioni teorico-pratiche riguardanti l’uomo, non può dalla religione prescindere.
I socialisti, nella loro propaganda, sia per indifferenza, sia per tattica, non parlano di religione mai o quasi mai, e non di rado invocano l’esempio di Gesù Cristo e de’ primi cristiani come precursore il primo e praticanti i secondi delle loro dottrine. Ma tutto questo non deve lasciarci trarre in inganno sui loro sentimenti verso la religione. La loro provenienza rivoluzionaria, il loro fondamento scientifico affatto materialista, i loro fini essenzialmente sovvertitori d’ogni autorità e d’ogni legge, li fanno intrinsecamente irreligiosi.
Ni Dieu ni maître, aveva scritto Blanqui in testa al suo giornale, e questi due concetti informano di sé tutto il socialismo.
Chi volesse spigolare da autori e da congressi internazionali e socialisti frasi simili a quella citata, potrebbe farne di leggieri un volume.
Ne citerò alcune: «Dio e l’umanità sono due nemici irreconciliabili; dunque il primo dovere dell’uomo illuminato e intelligente è di scacciare senza posa l’idea di Dio dallo spirito e dalla coscienza. L’ateismo dev’essere ormai la legge del costume e della intelligenza. Addio
Papa, addio Re, addio Imperatore! D’ora in poi non più autorità né temporale né spirituale.. Il nostro principio è: l’ateismo in religione, l’anarchia in politica, l’espropriazione nell’ordine economico» (Proudhon). - «In fatto di religione noi siamo atei» (Dep. Babeuf). «Dio è il nemico, Dio è la menzogna, Dio è la pietra angolare della ciarlataneria religiosa, delle religiose mitologie, inventate da quei mostruosi vampiri che si chiamano preti» (Congr. di Gand). - «Sì, guerra a Dio: le donne devono anch’esse prender parte a questa guerra. Eva fu la prima a levare contro Dio il grido di rivolta. La lotta è tra Dio e l’uomo. Il trionfo dell’uomo su Dio, ecco la rivoluzione» (Congr. int. di Liège). - «La morale evangelica è falsa, dannosa, depravatrice delle anime. Ogni religione deve essere abolita. Il solo culto deve essere quello dell’ateismo» (ivi). - «Ci dicono che v’è il paradiso: ma che cosa è il paradiso? La scienza ha dimostrato che è un sogno. Il paradiso che cerchiamo noi è qui sulla terra. Che dico il paradiso? Il paradiso noi non lo vogliamo: vogliamo l’inferno con tutte le voluttà che lo precedono, e il paradiso dell’altro mondo lo lasciamo al Dio dei papisti e de’ suoi infami beati» (Congr. di Gand). - «Abbasso Dio! abbasso la patria, i governi, i borghesi!» (Confer. inter. di Ginevra). - «I liberali saranno vinti e piegati da noi; i cattolici, la Chiesa non mai. Convien dunque abbatterli, conviene sterminarli, bisogna sul conto loro seguire le tradizioni del novantatré di cui siamo figli e quelli della Comune di cui siamo fratelli» (Congr. di Gand). - «Perché il socialismo prosperi bisogna che siensi estirpati dalla testa del popolo i vecchi pregiudizi e principalmente i misteri e dogmi che chiamansi religione» (Vorwarts). - «Non bisogna dissimularcelo. Bisogna distruggere con accanimento la Chiesa e i confessionali che sono i macelli delle intelligenze» (Congr. di Lione). - «Bisogna uscire in massa dalle chiese riconosciute dallo Stato, farla finita con tutte le religioni positive e dimostrare così ai non socialisti che i socialisti non temono la divina Provvidenza, per quanto i loro avversarii la invochino» (Voighterr al Cong. di Berlino). - «La rivoluzione sociale sarà come uno scoppio che colla rapidità del lampo attraverserà il mondo civile e desterà tutti i cuori e chiamerà tutti alla lotta» (Bebel). - «È una materia in fusione simile a lava di vulcano; folgore che, scoppiando, illuminerà coloro che saranno colpiti. Se la proprietà esiste, si annienti a decreto di popolo la proprietà; se la borghesia resiste, si scanni la borghesia. Se occorre il patibolo, la nostra mano non tremerà. Noi non vogliamo che rovesciare gli ostacoli; se centomila teste ci si attraversino, quelle centomila teste debbono cadere: sì, debbono cadere; noi non amiamo che l’umanità collettiva» (Congr. cit. di Liège). - «Noi saremo schiavi finché vivrà un solo prete, noi dichiariamo guerra a morte alla reazione trionfante,
al diritto divino, alla repubblica borghese, al capitale, alla Chiesa, allo Stato» (L’ami du peuple). - «Il giorno che il nostro governo sarà proclamato, in ogni città italiana si rizzerà la forca.... e, in mezzo alla sinistra luce degli incendi, il popolo giulivo festeggerà la caduta de’ suoi oppressori, divenuti schiavi di lui» (Rinn. di Venezia). - «In quel giorno di trionfo e di festa, noi avremo il piacere di contemplare le agonie dei preti... Coricati nei fossi, distesi lungo le vie, essi morranno di fame lentamente, inesorabilmente sotto i nostri occhi. Questa sarà la nostra vendetta, e per il piacere di questa vendetta noi venderemo volentieri il nostro posto in cielo!» (Congr. di Gand).
Da queste brevi citazioni, o, dirò meglio, esecrande bestemmie, appare quanto odio religioso covino cotesti settari; odio profondo, illimitato, di tutti i momenti, di tutti i luoghi, sotto tutte le forme.
Vediamo ora ciò che logicamente deriva dalla formola socialistica in ordine alla libertà umana e alla famiglia.
La formola citata (in apparenza puramente economica), in sostanza, nelle sue conseguenze necessarie, viene ad abolire insieme colla proprietà individuale, la libertà appunto e la famiglia, e non si può sopprimere l’una, senza sopprimere nel tempo stesso le altre due, essendo intimamente connesse fra loro in ragione di causa e di effetto, poiché il diritto di proprietà è una conseguenza necessaria della libertà, come è condizione pure necessaria della famiglia.
L’uomo è libero, moralmente libero, cioè si determina ad operare per impulso interiore, e può fare o non fare una cosa a sua voglia. I filosofi parlano da secoli sulla libertà umana e sulla sua natura, e le definizioni che ne danno sono discordi e spesso contraddittorie; i teologi pure discussero sul grado e sulla estensione della libertà. Ma la umanità poco curando la discordia teoretica dei filosofi e dei teologi, ha vivissima la coscienza di questa sua nobilissima prerogativa, e la vede a caratteri indelebili nella sua storia collettiva, e ciascuno la sente in sé; la sente nella lotta interiore tra il bene e il male; la sente nel retto giudizio e male operare, giusta la nota sentenza: video meliora proboque deteriora sequor; la sente infine nella soddisfazione intima o nel rimorso che accompagna ogni nostra azione. La Chiesa ha sanzionato questo vivo sentimento umano e lo ha reso intangibile agli assalti della sofistica filosofica e della sottigliezza teologica meglio definendolo come domma.
Ora, la proprietà è una conseguenza della libertà, anzi è la libertà sotto una delle sue forme e in una delle sue condizioni più essenziali: è la libertà che riversandosi sul mondo esteriore, diventa lavoro che produce, modifica, aumenta, assimila le forze della natura e imprime loro il suo segno. L’oggetto modificato, aumentato, assimilato diventa
mio, come è mio il pensiero, mia l’intelligenza, come miei sono gli atti interni della volontà, miei gli organi che producono la modificazione e l’assimilazione dell’oggetto esteriore. È come una proiezione, un prolungamento dell’io nel mondo esterno, che aumenta la mia persona di quanto fu conquistato dalla mia previdenza, dalla mia industria, dal mio coraggio, in una parola, dalla mia libera attività interiore. L’uomo ritrova se stesso con tutti i suoi diritti in tutto ciò che esce dalle sue mani o dalla sua intelligenza, e l’essere impedito di usarne, come di operare a suo piacimento, o, peggio, essere obbligato a produrre o ad usare de’ prodotti in un modo piuttosto che in un altro, vuol dire essere in potere altrui. Infatti, esser libero vuol dire: avere il possesso di sé stesso e l’uso di tutte le facoltà corporali e spirituali e di impiegarle nell’opera che si preferisce, colla sola limitazione di non offendere l’altrui diritto. Ora, se tutte le energie individuali appartengono agli individui, è naturale che gli appartengono pure i frutti di cotesta energia: e l’uomo che non può esercitare le proprie facoltà a proprio modo, o, peggio, che è costretto di impiegarle a modo altrui, o che non può usare liberamente di ciò che produce, non appartiene più a se stesso, è schiavo.
Tutti i generi di proprietà inanimata o vivente, mobile o fondiaria sono giustificati dalla libertà fatta lavoro. Anche il diritto di primo occupante deriva da un atto volontario che fa prendere possesso di una cosa sulla quale non sia caduto l’atto volontario di un altro uomo, poiché se uno si è determinato di stabilirsi in un dato posto o di raccogliere un dato oggetto, chi può scacciarnelo o privarnelo, senza violentare la sua volontà? Quindi, anche ammesso che la proprietà derivi dal lavoro, rimane pur sempre una conseguenza della libertà, perché anche il lavoro è una forma della libertà, o almeno è quella qualità che lo rende sacro e gli infonde la virtù di assimilare l’opera all’artefice e di rendere inviolabile per tutti ciò che fu il prodotto di un solo.
Così l’abolizione della proprietà individuale, propugnata dal socialismo, ha per primo effetto l’abolizione della libertà.
Anche la famiglia è ferita a morte dalla soppressione della proprietà individuale.
La famiglia emana dall’intima natura dell’uomo, è nata con lui ed è necessaria al suo sviluppo materiale e morale, quanto l’aria, la luce e il nutrimento. Nella famiglia l’uomo svolge tutte le qualità che lo fanno diverso dai bruti: affetti, sentimenti, pensieri; in lei si conciliano tutte le apparenti antinomie che formano il fondo della vita; il passato e l’avvenire si fondono nel presente con una rete, spesso inavvertita, ma sempre tenace, di memorie e di speranze che sorridono dalle tombe e dalle culle.
I vincoli della famiglia non si spezzano mai, e, anche quando sembrano più rilassati, basta una parola, un’immagine per farli vibrare in tutta la loro forza, per riempiere l’anima di conforti, per temperare le amarezze, per smussare le punte, per ritornarci alla dolce infanzia e ricoverarci sotto le ali dell’affetto materno.
Abolendo la famiglia si tolgono alla umanità i sentimenti più soavi che fanno bella la vita. Sostituite al matrimonio un accoppiamento temporaneo, togliete al padre i figli e questi a quello, fate sì che i cari nomi di fratello e sorella diventino vocaboli senza significato, e voi avrete di un sol colpo soppresso e la grande poesia dell’affetto e la molla più potente della umana attività.
Non mai come a’ dì nostri la famiglia fu oggetto di così persistenti assalti. Poeti, romanzieri e filosofi l’hanno aggredita coll’arma del ridicolo e del sofisma, i legislatori l’hanno tolta dal nobile piedestallo su cui l’aveva elevata la religione, riducendo il matrimonio a un semplice contratto che si può annullare a volontà de’ contraenti, e da ultimo il socialismo la insidia nella sua intima essenza, abolendo e sottraendole i mezzi che la fanno sussistere.
Così, giova ripeterlo, la formola socialistica, in apparenza puramente economica, ferisce l’uomo nell’intimo del suo essere individuale e sociale, la libertà e la famiglia.
Com’è facile vedere, alcune di queste conseguenze toccano punti essenziali della fede e della morale cristiana, e ciò per ogni buon cattolico deve bastare senz’altro per farle respingere come false. Siccome però sono questioni che ponno dalla ragione risolversi, così ho preferito di attenermi alle argomentazioni di questa.
E ora non mi dilungherò in maggiori osservazioni: ciascuno lo potrà fare, leggendo le opere che hanno confutato largamente il socialismo rivoluzionario sotto l’aspetto religioso, economico e morale. Limiterò il mio dire agli argomenti più ovvii e perentorii contro il medesimo, argomenti che si ponno riassumere così:
1. Essendo il collettivismo contrario alla natura umana, non può essere il portato di una evoluzione pacifica e spontanea, ma dovrà essere imposto da una rivoluzione violenta la quale, invece di migliorare, aggraverebbe per tutti le condizioni della presente società e ne arresterebbe il progresso morale e civile.
2. Dato il trionfo delle idee collettiviste, non è detto che si raggiungerebbe la equa distribuzione delle ricchezze, perché, una volta conquistato il potere politico, i proletari che avranno abbattuto il presente ordine di cose, potranno nel loro interesse rifiutarsi di fare quella ripartizione, e nessuna forza potrebbe obbligarveli.
3. Non sarebbe dunque, l’avvenimento del socialismo, il trionfo della giustizia e della equità sociale, ma una surrogazione nel potere politico di una classe meno colta della dominante, la quale produrrebbe gli stessi effetti dei barbari nella società romana del secolo IV e anche peggiore, poiché nei barbari vi era un grado di moralità superiore a quello delle plebi moderne.
4. In una società collettivista sparirebbero gli istituti di beneficenza creati via via ne’ secoli a sollievo delle umane miserie, sia perché in tale società i non lavoratori sarebbero considerati come veri parassiti, sia perché nella gente rozza ed incolta l’istinto della pietà e della sensibilità ha minore sviluppo.
A queste obbiezioni, che si fanno comunemente contro le teorie socialistiche in generale, si possono aggiungere quelle riguardanti in modo speciale le dottrine di Carlo Marx, il padre e il grande maestro del socialismo moderno.
Il Capitale di Marx fu sino a ieri il vangelo dei socialisti, i quali credevano di avere in quell’opera il libro dei libri, l’ultima parola della scienza economica e politica.
Discutere un dogma scientifico di Marx equivaleva a tirarsi addosso un sacco di male parole la più gentile delle quali era quella di ignorante: e quando poi i marsisti erano messi alle strette da avversari che non si lasciavano intimidire né dalla fama scientifica di Marx né dalla polemica insolente, allora i discepoli più valorosi rispondevano: attendete la pubblicazione dell’opera intera (Marx aveva pubblicato un solo volume) e tutte queste vostre difficoltà dilegueranno come nebbia al sole. Vennero finalmente anche i due volumi postumi, ma i dubbi furono confermati, e la inanità pratica di quella teoria rifulse di piena luce. Il socialismo, anche nell’opera del Marx, apparve quello che è di fatto, potente ed efficace nella critica e nella demolizione, impotente e vacuo nella ricostruzione positiva.
È proprio il caso di ripetere: Ex ore tuo te judico. Insigni economisti avevano sì attaccato vivamente il Marsismo, e, tra gli altri, con molta evidenza, il Leroy Beaulieu. Nella sua opera Le collectivisme egli aveva dimostrato che «La critique de Marx contre la société capitalistique et contre l’économie politique repose sur une définition toute fantaisiste qu’il a élaborée de la valeur». Nessuno però fu più potente confutatore delle teorie di Marx del Marx stesso nell’ultimo volume della sua opera pubblicato non è molto dal suo discepolo Engels e da sua figlia Eleonora.
Il prof. Loria, ammiratore di Carlo Marx, in un’importante recensione di quel volume postumo, dopo di aver riassunto e analizzato finamente la teorica del valore (che è l’essenza di tutto il Marsismo),
dà il seguente giudizio: «Se, dalla pubblicazione dell’opera postuma, la figura del Marx esce (ove ciò sia possibile) più fulgente e più grande, il suo sistema o la teoria che ne è l’anima, riceve appunto da quest’opera un terribile colpo, da cui non potrà risollevarsi più mai. Ciò che poteva presagirsi è avvenuto; la logica inflessibile colla quale il Marx traeva dalle proprie premesse lo estreme conclusioni, questa logica onnipotente che procedeva di sillogismo in sillogismo, senza arrestarsi giammai, doveva arrivare all’assurdo della premessa erronea, ond’egli era partito. E la riduzione all’assurdo è venuta, colossale, immensurabile, enorme, come la mente che l’aveva preparata. Su tale riguardo non è possibile farsi illusioni.»
«Se la parte storica del sistema del Marx e la sua stupenda fisiologia della industria moderna rimarranno conquista durevole della scienza, la sua teoria economica vera e propria, quella matematica sociale che egli era venuto creando sulla base della teoria del valore, deve, dopo la pubblicazione della sua opera postuma, considerarsi come distrutta per sempre e scendere d’ora innanzi nel novero delle più fantastiche per quanto più luminose utopie.»
È uno splendido epitaffio del Marsismo, ma sempre epitaffio.
Tutte queste osservazioni dimostrano che la così detta dottrina socialistica è ben lungi dall’avere, come dissi, la vantata evidenza scientifica, e che i suoi sistemi o non sono applicabili, o, se disgraziatamente lo fossero, giungerebbero allo scopo non di ripartire meglio la ricchezza, ma di distruggerla, disseccandone le fonti più vive che sono nella proprietà e nella iniziativa individuale. La forza attrattiva del socialismo dunque non risiede nelle dimostrazioni di Marx o di Lassalle o di altri, ma nella credenza, accettata dai più senza esame, che in esso risieda la verità scientifica e la giustizia sociale, e nel cumulo di mali che affliggono presentemente gran parte della umanità e danno a quella credenza l’aspetto di verità indiscutibile.
È per queste ragioni, che, malgrado la notata manchevolezza di forma e di sostanza, malgrado le discordie dei capi e i mille mezzi ond’è combattuto, il socialismo si è diffuso e va diffondendosi in forma così minacciosa.
Il male che affligge la società sotto il nome di socialismo è grave per sé stesso e per la sua potenza epidemica, ma forse più per i dispareri dei medici che lo hanno in cura.
Molti considerano il socialismo come il portato del fatalismo storico; una ananke sociale, contro cui è inutile dar di cozzo; una sociale bufera che, appunto come le bufere atmosferiche, bisogna lasciar sfogare.
Altri invece vorrebbero bandirgli una guerra senza riposo e senza quartiere. Per costoro il Governo non è mai abbastanza pronto ed energico nel reprimere. Lo vorrebbero, come un domatore di belve, sempre coll’occhio fisso e intento sul nemico, sempre armato di staffile e di barra, sempre pronto a percuotere su ogni accenno di ribellione, sia esso di azione o di pensiero.
Queste due specie di conservatori (uso questa parola nel suo significato più ampio, perché di fronte al partito socialista tutti gli altri vengono ad essere conservatori) sono, a loro insaputa, efficaci collaboratori dei socialisti; i primi colla loro colpevole inerzia, i secondi colla loro irragionevole paura: i primi, dando al socialismo il carattere di un avvenimento determinato da leggi storiche, gli riconoscono quello che appunto gli manca nella forma e nella sostanza, il rispetto cioè della natura umana e della giustizia; i secondi, cogli eccessi della repressione, non fanno che creare dei martiri a buon mercato, e aumentare verso di essi le simpatie anche di chi, non dividendo le loro idee, non ama neppure la violenza fatta governo. E poi la cronistoria politica del nostro paese e di altri dovrebbe ammonirli del loro errore: la repressione, scompagnata da saggi provvedimenti, non ha fatto che aumentare i proseliti del socialismo e schiudere la prigione ai perseguiti per improvvisarli legislatori.
Dunque tanto l’apatia, quanto la repressione applicate al socialismo non raggiungono lo scopo di arrestarne l’azione dissolvente.
Gli è che anche nella cura de’ mali sociali l’empirismo è dannoso, come nelle altre malattie, e que’ due rimedii sono affatto empirici e, pur limitandone il danno, non ne sopprimono le cause.
Quale pertanto dovrà essere la cura di questo morbo sociale? E quale all’uopo l’azione specialmente del clero?
Fu detto che il socialismo demagogico non si vince, se non contrapponendogli altro socialismo, come l’azione distruggitrice di un veleno non può essere arrestata che da un antidoto.
Data la verità di questa osservazione, noi cattolici abbiamo ne’ precetti del Vangelo, nella dottrina de’ santi Padri, nella tradizione nella Chiesa, nella sua stessa costituzione eminentemente democratica, nella parola eloquente e ispirata del Sommo Pontefice, una sociologia cristiana che può guarire la società della presente sua malattia; un rimedio a base di amore e di carità, il contravveleno potente, senza dubbio il più efficace, contro il socialismo demagogico e rivoluzionario. È proprio qui il caso di ripetere col poeta:
Avete il vecchio e il nuovo Testamento
E il Pastor della Chiesa che vi guida,
Questo vi basti a vostro salvamento.
Nel vecchio Testamento sono sparse esortazioni precetti e discipline giuridico-sociali ispirate ad una benevolenza umana che raramente, e solo per eccezione, s’incontra ne’ libri della pagana sapienza.
Tale benevolenza è comandata non solo per la moltitudine de’ lavoratori, ma per tutti i sofferenti e i diseredati di beni e di affetti: gli orfani, le vedove, i malati, i viandanti, i solitari; a sollievo insomma di tutte le miserie e impotenze fisiche e morali della umanità.
E la tutela dei diritti de’ lavoratori è imposta con severa energia di parola e di pensiero.
La oppressione del povero, la negata mercede agli operai sono qualificati come peccati che gridano vendetta al cospetto del Signore. L’indugio al pagamento, e più la sottrazione al salario pattuito, è pure mancanza gravissima, poiché il lavoratore deve esser retribuito integralmente prima che tramonti il sole.
E a questi precetti s’innestano altre disposizioni che formano un vero sistema economico-sociale, tutto inteso a contenere e a limitare i diritti de’ ricchi e de’ padroni di fronte ai lavoratori e ai dipendenti.
I relitti della mietitura, i frutti caduti dagli alberi, i grappoli dimenticati, in una parola la spigolatura, nel suo più largo significato, era un diritto di tutti.
Il sabato assicurava ai lavoratori un riposo settimanale così necessario al corpo come allo spirito; il settennato, proibendo ogni coltivazione e concedendo a chi li volesse raccogliere i frutti spontanei della terra, sospendeva ogni 6 anni il diritto di proprietà, e, interrompendo i contratti di lavoro e togliendo il potere di ripetere i crediti, difendeva il lavoratore contro la prepotenza del capitale e ne garantiva la personale indipendenza.
Il Giubileo, per cui ogni cinquant’anni la proprietà tornava ai primi possessori, assicurava la continuità de’ piccoli proprietari contro l’azione invadente ed assorbente dei ricchi e de’ potenti.
Questi germi di una legislazione sociale, intesa nel senso di difendere i diseredati e di rendere meno dura la loro condizione, sbocciarono rigogliosi per opera del Redentore divino, Cristo Gesù.
Nessun filosofo ha mai pensato, né alcun filantropo mai potrà attuare una società più idealmente e genialmente comunistica di quella de’ primitivi cristiani. Dio ne aveva dato l’esempio vestendo questa povera umana argilla, accomunandosi a’ miseri ed a’ reietti, dando se stesso in olocausto al mondo. Chiunque avesse ricorso a Lui, immediatamente aveva conforto di parole e di opere; il pubblicano, l’adultera, la traviata, lo schiavo, il fariseo.
Tutte le miserie che formano le lagrime delle cose sono state da Lui terse, benedette, redente.
La società pagana era stata in preda alla forza e alla violenza, la cristiana fu soggiogata dall’amore. La fratellanza universale e la uguaglianza umana, appena intuite da qualche filosofo dell’antichità, diventano i cardini del Vangelo, della buona novella che redense il mondo e avviò l’umanità a’ suoi alti destini. L’amore di Cristo affratellò tutti gli uomini, ricchi e poveri, schiavi e liberi, padroni e servi, sovrani e sudditi, perché i felici del mondo erano, al pari de’ miseri, figli di Dio, fratelli nella fede e nell’amore.
E conforme a queste massime noi troviamo i sentimenti e le opere.
Nel consenso spontaneo de’ cuori ognuno offriva quanto possedeva e ciascuno aveva dalla comunità, non in ragione di quanto dava, ma de’ suoi bisogni.
Il cristianesimo fu come una luce d’amore che penetrò i cuori, li ravvivò, li trasformò. Il violento, il superbo, l’avaro, il persecutore di ieri, diventano il mansueto, l’umile, il generoso, il martire dell’oggi. E in forza di questa luce d’amore, quello che parve impossibile a’ filosofi, dannoso a’ politici, l’uguaglianza cioè degli uomini e l’abolizione della schiavitù, diventò un fatto, contro cui invano contrastarono tutte le forze della società conservatrice e gaudente.
La rigenerazione della società, voluta da Cristo, comincia in terra per finire in cielo: è rigenerazione morale per i ricchi, i potenti, i forti, i sapienti; è redenzione morale e materiale per i diseredati. Ai ricchi il dovere di difendere, di soccorrere, di onorare i poveri; difenderli e soccorrerli, perché in essi devono scorgere l’immagine di Cristo umiliato e sofferente; onorarli, perché la povertà conferisce una dignità che dà loro il primo posto al cospetto dell’Altissimo.
La missione del ricco è grave di responsabilità, irta di pericoli; guai a lui se non ascolta la voce della pietà! Egli sarà gettato nell’inferno, come l’epulone gaudente ed egoista, mentre al Lazzaro mendico son riserbate la gloria più fulgente e le gioie più pure de’ predestinati.
Pei fortunati Gesù non ha che precetti: chi è sapiente non taccia, chi è potente non ritiri la sua mano, chi è ricco non nieghi i suoi averi: laddove per i poveri non ha che consolazioni e promesse. Già, mediante il Profeta, aveva annunziato che appunto questa sarebbe stata la sua missione: «Lo spirito del Signore sopra di me, perché il Signore mi ha unto, affinché io annunziassi ai mansueti la buona novella: mi ha mandato a curare quelli che hanno il cuore spezzato, a predicare la franchigia agli schiavi, ai carcerati la libertà, a tutti la pace di Dio, e a consolare quelli che piangono»1 Ed egli stesso lo conferma, ripetendo di propria bocca: «Venite a me voi tutti che siete stanchi ed affranti e io vi
consolerò» 2. «Beati i poveri; beati quelli che piangono; beati quelli che soffrono; beati quelli che sono perseguitati, perché saranno consolati, e grande sarà la loro ricompensa»3. Ad essi in modo particolare è riserbata la gioia infinita del cielo, ove gli ultimi saranno i primi.4
E conformando le sue azioni alle parole, egli, il divino maestro, povero così che non ha dove posare il capo, si aggira sempre fra le turbe più misere e rivolge di preferenza tesoro de’ suoi insegnamenti divini e il beneficio de’ suoi miracoli alle donne in lagrime, ai lebbrosi abbandonati, ai miseri, ai fanciulli derelitti, a’ quali spetta il regno celeste, e dà la preferenza al povero obolo della vedova sulla offerta opulenta del fariseo.
Egli è il padre che sta ne’ cieli, padre di tutti di uomini, degli ebrei come dei gentili; che fa splendere il sole sui buoni ugualmente che sui malvagi; che manda la pioggia sul campo de’ giusti, come su quello de’ peccatori; padre imparziale, ma severo pei fortunati; padre pieno di tenerezza per i miseri pei quali profonde in terra i tesori di una pietà infinita e a’ quali serba le delizie immortali del Paradiso. E come egli ama noi, così vuole che noi amiamo i suoi fratelli, cioè a dire tutti gli uomini, senza distinzione e senza eccezione di sorta; che li amiamo non a parole, ma a fatti; che li amiamo d’un amor puro, sincero, forte, generoso, costante, universale «In questo, egli dice, conosceranno tutti che siete miei discepoli, se vi amerete l’un l’altro come io ho amato voi».5
Gli uomini furono vinti dalla soavità di questa dottrina. La terra apparve una scala per salire al cielo e i patimenti di questa vita una promessa di glorificazione nell’altra. L’amore di Cristo che li aveva redenti, che aveva amicato la terra al cielo, gli uomini a Dio, era la luce che li guidava in ogni pensiero, in ogni parola. La vita di Cristo divinamente umana e umanamente divina, era il loro modello. Camminavano in terra cogli occhi e il pensiero rivolti al cielo dov’era il padre e dove tutti sarebbero andati un giorno a fruire del premio che avanza ogni desiderio.
Questa l’essenza del cristianesimo, e non disforme da essa gli insegnamenti che troviamo profusi negli scritti de’ santi Padri e dei Dottori della Chiesa.
Alcuni di essi, è vero, usano tal fiata espressioni che sembrano accorciare con le teoriche dei socialisti. I termini di cui si valgono gli uni
e gli altri sono al tutto affini, ma ben diverso è il fine che gli uni e gli altri si propongono.
Quelle sentenze de’ Padri, delle quali tanto si abusa, è facile ridurle entro i giusti confini, ove si prenda ad esaminarle, non già separatamente, ma nel loro contesto; ove si ponga mente ai tempi e alle circostanze nelle quali i loro autori parlavano e scrivevano, e ove si rifletta ch’essi parlavano e scrivevano, abbandonandosi le più volte alla foga della eloquenza. Più che dettati della ragione fredda e calcolatrice le loro sentenze, in questo caso, vogliono essere considerate come lo sforzo di cuori infiammati della carità più ardente, come un grido di dolore e una protesta contro i crudeli eccessi di orgoglio, di egoismo e di rapacità de’ quali essi, que’ magnanimi, avevano del continuo sotto gli occhi lo spettacolo triste e raccapricciante.
Il linguaggio loro, come osserva benissimo un insigne scrittore moderno, prova solamente a qual segno l’antichità cristiana era penetrata da questa verità fondamentale che, se i beni della terra non sono punto comuni, se la proprietà riposa su basi sacre e intangibili, se i poveri non hanno alcun diritto legale sulle sostanze de’ ricchi, questi d’altra parte sono stretti dall’obbligo morale di usare delle loro sostanze, giusta le mire della Provvidenza e a sollievo degl’indigenti.
Ciò che predicano i santi Padri non è una rivoluzione, ma una virtù; essi non armano il povero contro del ricco, ma eccitano il ricco a favore del povero.
Essi vogliono che tutto sia spontaneo, affinché tutto sia meritorio e fruttuoso per il cielo.
Udite S. Basilio il grande: «O ricco, fa di intendere la tua missione. Tu sei il ministro di Dio, il tesoriere comune. Amministra dunque, come beni altrui, i beni che sono nelle tue mani»6.
Udite il Crisostomo: «Sei tu ricco? È questo senza dubbio un titolo di gloria. Per questo la pubblica opinione ti colloca in alto; ma ciò è nulla di fronte al posto che ti assegna la fede, poiché tu sei il ministro di Dio, l’economo della Provvidenza, il servo del popolo. Casa, averi, denari ti ha dato Iddio, non perché li possegga da solo, ma perché ne faccia parte ai poveri»7.
Udite inoltre S. Ambrogio: «Togliere a chi possiede e negare l’elemosina al mendico, quando lo si può aiutare, sono due delitti ugualmente gravi»8.
Udite in fine S. Gerolamo: «Quello che ti sopravvanza donalo al povero, e sappi che a questi sei debitore»9.
Né meno esplicito su questo punto è S. Agostino: «Il superfluo del ricco (egli dice) appartiene al povero, e chi lo ritiene, ritiene l’altrui. - La ricchezza e la povertà sono due cose opposte sì, ma l’una all’altra necessaria.
Niun bisogno sentirebbe il ricco, niun bisogno sentirebbe il povero se a vicenda si aiutassero. Il ricco è fatto per il povero e il povero per il ricco. Il dovere del povero sta nel pregare e soffrire con rassegnazione, il dovere del ricco consiste nello stendere al povero la mano. Dio è là per rimunerare entrambi»10.
La Chiesa cattolica a’ dì nostri, in mezzo a tanto ardore di discussioni e di lotte, non poteva disinteressarsi della questione sociale, senza venir meno a quell’alta funzione direttrice e moderatrice della società che esercita da secoli a vantaggio del vero progresso e della umanità.
E di vero, fino dal primo levarsi del socialismo, prelati e laici illustri ed operosi nel campo del pensiero e dell’azione, trattarono la questione da pari loro e, colla scorta del Vangelo, misero in guardia i fedeli contro le insidie settarie e propugnarono que’ miglioramenti sociali a beneficio delle classi diseredate che erano evidenti doveri di giustizia.
Che dirò poi dell’opera del Santo Padre Leone XIII a questo riguardo? Ispirandosi egli alle gloriose tradizioni della Chiesa, seppe dare all’azione cattolica, anche nel campo sociale, quell’unità di concetti e di intenti senza cui non v’ha successo, e indirizzò al mondo cattolico la sua mirabile enciclica Sulla condizione degli operai.
Come nelle altre encicliche, di indole dottrinale e politica, Sui poteri pubblici, Sulla libertà umana, Sulla costituzione cristiana degli Stati e altri siffatti argomenti, il sommo Gerarca volle dire, anche sulla questione sociale, la sua alta ed ispirata parola, volle segnare ai cattolici, in quel labirinto intricato e complesso, la via da seguire, e, fra le tante opinioni e dottrine, quelle più consone agli insegnamenti della Chiesa e degne quindi di essere proseguite.
Il grande Pontefice riassume gli elementi dottrinali e filosofici del Vangelo e della patristica che contengono in germe la soluzione della questione sociale, e con sapiente dialettica li fonde e li svolge formando un tutto organico nuovo e moderno, nel quale la perspicuità ed eleganza della forma e l’armonia dell’insieme concorrono, unitamente alla sapienza pratica del contenuto, a formare del documento pontificio un capolavoro di filosofia sociale.
I cattolici ben possono lanciarsi nell’arringo ridenti, dietro la scorta amorosa e sapiente di tanto maestro, dicendo con Geremia: Et ego non sum turbatus, te pastorem sequens.11
Riassumo qui nelle sue linee generali quel documento oltre ogni dire importante.
Contro il socialismo che pretende doversi attribuire ogni proprietà, come anche il diritto di ripartirne l’uso, alla collettività sola, cioè allo Stato, il Sommo Pontefice chiaramente dimostra che la proprietà privata è la prima base dell’ordine sociale. Essa è diritto di natura dell’individuo e per la famiglia, i quali essendo anteriori allo Stato, hanno diritti e obbligazioni dallo Stato affatto indipendenti. Per l’individuo, perché esso ha il diritto di disporre del salario o frutto del suo lavoro, e, lasciando come impressa un’impronta della sua personalità nell’oggetto lavorato, giustamente lo fa suo; per la famiglia, perché per la legge inviolabile di natura il padre deve pensare al mantenimento della prole, e, per impulso della natura medesima, che gli fa scorgere ne’ figli una immagine e quasi un’emanazione di sé, egli è mosso a provvederli in modo che nel difficile corso della vita possano onestamente far fronte a’ propri bisogni, cosa non possibile ad ottenersi senza beni proprii.
Volere che lo Stato possa intervenire a suo talento nel santuario della famiglia, è grande e pernicioso errore. La patria potestà non può, lo Stato, né annientarla né assorbirla; e i socialisti sostituendo alla provvidenza dei genitori quella dello Stato vanno contro la naturale giustizia e disciolgono la compagine domestica. Lo Stato non ha che il dovere di assicurare e tutelare i diritti di ciascuna famiglia contro chi osasse violarli.
Le conseguenze del principio socialistico sono chiare; la confusione e lo scompiglio di tutti gli ordini della cittadinanza, un insopportabile servaggio per tutti; astii, recriminazioni, discordie; le fonti stesse della ricchezza (tolto all’ingegno e all’industria individuale ogni stimolo) inaridite: quindi al posto della sognata eguaglianza, abbiezione e miseria.
Adunque la comunanza de’ beni proposta dal socialismo va del tutto rigettata.
Donde il rimedio? Dalla religione, personificata nella Chiesa. Ove si prescinda dall’azione di lei, tutti gli sforzi torneranno vani. Solo la Chiesa co’ suoi insegnamenti, con efficacia de’ mezzi che tiene Dio, colle istituzioni che ha saputo creare può risolvere il grande e formidabile problema.
Co’ suoi insegnamenti. Il primo si è, che ciascuno deve sopportare la condizione propria dell’umanità. Impossibile che tutti sieno uguali. Vi hanno tra di uomini disparità profonde di indole, d’ingegno, di attività, di talento, di forze, donde naturalmente la disparità delle condizioni. E ciò torna a vantaggio di tutti, perché la vita sociale abbisogna di attitudini varie e di uffici diversi, e l’impulso principale che muove gli uomini ad esercitare tali uffici è appunto la disparità dello stato.
Il lavoro è necessario; inseparabile da esso la fatica, espiazione del peccato. Patire e sopportare è il retaggio dell’uomo. Checché si faccia o si tenti, il dolore quaggiù è inevitabile. Quelli che promettono alle misere plebi una vita scevra di affanni, una vita tutta pace e diletto, illudono il popolo e lo trascinano per una via che riesce a dolori più grandi dei presenti.
Altro grave sconcio è questo, supporre antagonismo fra ricchi e poveri. La verità invece si è che, siccome nel corpo umano le varie membra si accordano insieme e formano quell’armonico temperamento che chiamasi simmetria, così volle natura che nel civile consorzio armonizzassero fra loro quelle due classi e ne risultasse l’equilibrio. L’una ha bisogno assoluto dell’altra, né il capitale senza il lavoro, né il lavoro può stare senza il capitale.
Tutto l’insegnamento cristiano è potentissimo a conciliare fra loro i ricchi e i poveri, ricordando agli uni e agli altri i mutui doveri, primi fra i quali quelli della giustizia.
Obblighi di giustizia, quanto al proletario e all’operaio, sono questi: prestare intieramente e fedelmente l’opera che liberamente e secondo equità fu pattuita; non recar danno alla roba, né offesa alla persona dei padroni; nella difesa stessa de’ proprii diritti astenersi da atti violenti né mai trasformarla in ammutinamento, non mescolarsi con uomini malvagi promettitori di cose grandi, senz’altro frutto che di inutili pentimenti e di perdite rovinose.
Dei capitalisti poi e dei padroni sono questi i doveri: non trattare gli operai come schiavi, ma rispettare in essi la dignità dell’uomo e quella del cristiano. Il lavoro, lungi dall’avvilire l’uomo, lo nobilita. Ciò che veramente è indegno si è, abusarne come d’un vile strumento.
È obbligo dei padroni di aver riguardo agl’interessi spirituali dell’operaio e al bene dell’anima sua: lasciargli perciò agio e tempo che basti a compiere i doveri religiosi, non esporlo a seduzioni corrompitrici e a pericoli di scandalo, non alienarlo dallo spirito di famiglia e dall’amore del risparmio, non imporgli lavori superiori alle forze o mal confacenti coll’età e col sesso. Principalissimo poi tra i loro doveri è, dare a ciascuno la giusta mercede. Il determinarla secondo giustizia
dipende da molte considerazioni; ma in generale si ricordino i capitalisti e i padroni che né le divine, né le umane leggi permettono di opprimere per utile proprio i bisognosi e gl’infelici e trafficare sulla miseria del prossimo. Da ultimo è dovere dei ricchi di non danneggiare il piccolo risparmio dell’operaio né con violenza, né con frodi, né con usure manifeste o palliate, perché quel risparmio, appunto per essere misero, riveste un carattere più sacro.
Ma la Chiesa mira più alto: a riavvicinare il più possibile le due classi e a farle amiche. Le cose del tempo non è possibile intenderle e valutarle a dovere, senza il pensiero della vita futura. Togliete questo, e la vera nozione del bene morale necessariamente dileguasi, anzi l’universo intero diventa un mistero inesplicabile. La vera vita dell’uomo è quella del mondo avvenire. Su questo domma riposa tutta la religione. Iddio non ci ha creati per questi fragili e caduchi beni, ma pei celesti ed eterni. Le tribolazioni di quaggiù furono da Cristo convertite in sorgenti di merito. Nessuno può giungere al cielo, se non cammina sulle orme sanguinose di lui.
I possidenti sono dunque ammoniti che le ricchezze non li francano dal dolore, che, anziché di vantaggio per la vita avvenire sono di ostacolo, e che dell’uso de’ loro beni dovranno rendere a Dio strettissimo conto.
E qui bisogna distinguere il diritto legittimo di proprietà dall’uso legittimo. Il diritto di proprietà, fondato com’è sulla legge naturale, vuol essere rispettato; ma quanto all’uso la Chiesa non esita a dichiarare che l’uomo deve avere i beni esterni come comuni e farne parte agli altri ne’ loro bisogni. Niuno è tenuto a sovvenire gli altri di quello che è necessario a sé ed a’ suoi, anzi neppur di quello che è necessario alla convenienza e al decoro del proprio stato; ma, soddisfatto alla necessità e alla convenienza, è dovere di ciascuno dare il superfluo ai poveri; dovere non di stretta giustizia, il cui adempimento si possa pretendere per vie giuridiche, ma di carità imposta dalla legge di Cristo. Chiunque ha ricevuto copia maggiore di beni sia esteriori e corporali, sia spirituali, a questo fine li ha ricevuti di servirsene al perfezionamento proprio e, come ministro della divina provvidenza, a vantaggio altrui.
Ai poveri poi la Chiesa insegna che innanzi a Dio non è cosa che faccia vergogna né la povertà, né il dover vivere di lavoro. Gesù Cristo confermò questa verità con l’esempio suo, mentre, a salute degli uomini, essendo ricco si fece povero, ed essendo figlio di Dio e Dio egli stesso, volle comparire ed esser creduto figlio di un falegname, anzi non disdegnò di passare lavorando la massima parte della vita.
La vera dignità e grandezza dell’uomo è nella virtù, patrimonio comune, a cui solo è serbato l’eterno premio.
La Chiesa insegna finalmente che tutti abbiamo origine da un padre comune; che tutti tendiamo a Dio, fine supremo; che Dio, solo Dio può renderci perfettamente felici; che tutti siamo stati ugualmente redenti da Gesù Cristo e chiamati alla dignità della figliuolanza divina, per guisa che non solo tra noi, ma con Cristo Signore primogenito tra molti fratelli siamo congiunti col vincolo di una santa fraternità.
Tali sono gl’insegnamenti della Chiesa. Chi non vede come subito cesserebbe ogni dissidio e tornerebbe la pace se prevalessero nel mondo?
E non solo la Chiesa addita il rimedio, ma lo applica. Ella studiasi di penetrare negli animi e di piegare le volontà. In questo la Chiesa sola ha vera efficacia, perché i mezzi di cui essa dispone hanno una virtù divina. La storia lo conferma. La società fu trasformata da capo a fondo dal cristianesimo. È solenne principio che, per riformare una società in decadenza, è necessario ricondurla alla sua origine. Orbene la società moderna non si salverà che mediante il ritorno alla vita cristiana.
La Chiesa, mentre si applica alla cura delle anime, non trascura ciò che appartiene alla vita terrena. Gli operai segnatamente ella vuole e procura sieno tolti alla miseria. E questo essa fa prima indirettamente col ritrarre gli uomini dal vizio e informarli a virtù, poi direttamente col creare e promuovere mille benefiche istituzioni che non lasciano, si può dire, alcuna specie di miseria, senza aiuto e conforto, ispirandosi a quella carità che non può da umana industria sostituirsi, perché è virtù che sgorga solamente dal Cuore santissimo di Gesù Cristo, e si allontana da Gesù Cristo chi si allontana dalla Chiesa.
A risolvere per altro la questione operaia si richiede il concorso di ciascuno e di tutti, e soprattutto dei governanti. Essi debbono concorrervi prima in generale col promuovere la pubblica e privata proprietà, che deriva specialmente dai buoni costumi, dal buon assetto della famiglia, dall’osservanza della religione e della giustizia, dall’imposizione moderata e dall’equa distribuzione delle pubbliche gravezze, dal progresso delle industrie e del commercio, dal fiorire dell’agricoltura e da altre simili cose.
Deve lo Stato provvedere ugualmente ad ogni ordine di cittadini, ricchi e poveri, osservando con inviolabile imparzialità la giustizia distributiva.
Ma quantunque il bene sociale sia da collocarsi principalmente nella virtù, nondimeno in ogni società ben ordinata occorrono altresì i beni materiali. Ora essi provengono dal lavoro dell’operaio, dai campi o dall'officina.
Il lavoro degli operai è quello che forma la ricchezza nazionale. È quindi giusto che il governo si interessi dell’operaio, facendo sì che egli partecipi in alcuna misura di quella ricchezza che esso medesimo produce, cosicché abbia vitto e vestito e viva meno miseramente la vita.
Quando gl’interessi privati o pubblici siano lesi o minacciati, in guisa da non potersi altrimenti riparare o impedire, adoperi lo Stato entro i debiti confini, la forza e l’autorità delle leggi. Ma esso deve farsi la provvidenza specialmente dei deboli e degl’indigenti, abbisognando essi, più che i ricchi, di sostegno e di tutela.
E venendo ai particolari di maggiore importanza, deve lo Stato assicurare la proprietà privata, e, posto freno ai sommovitori, preservare i buoni operai dal pericolo della seduzione, i legittimi padroni da quello dello spogliamento. Deve studiarsi di prevenire gli scioperi tanto dannosi a tutti, rimovendo a tempo le cause dalle quali si prevede che possa nascere tra operai e padroni il conflitto. Deve proteggere nell’operaio in prima i beni dell’anima, e quindi assicurargli il riposo festivo, che, unito alla religione, toglie l’uomo ai lavori e alle faccende della vita ordinaria per richiamarlo al pensiero de’ beni celesti e al culto dovuto alla Maestà divina. Deve poi assicurargli i beni del corpo coll’impedire l’esigenza di un lavoro eccessivo. Non deve il lavoro prolungarsi più che le forze non comportino, e gl’intervalli di riposo hanno da essere proporzionati alla natura del lavoro stesso e alla salute dell’operaio, e regolati secondo i tempi e i luoghi. I fanciulli non debbono ammettersi nell’officina prima che l’età ne abbia sufficientemente sviluppate le forze fisiche, intellettuali e morali. La donna, fatta da natura per i lavori domestici, in corrispondenza con l’educazione dei figli e il benessere della casa, non deve impiegarsi in lavori che non le si confanno.
Quanto alla importante questione del salario si stabilisca per norma (oltre il libero consenso delle parti) che il quantitativo della mercede non sia inferiore al sostentamento dell’operaio, frugale, s’intende, e ben costumato. Se questi, per necessità, o altro, accetta patti più duri, subisce una violenza contraria alla giustizia.
Indispensabile per la soluzione pratica della questione operaia è l’inviolabilità del diritto di proprietà. Debbono pertanto le leggi favorire questo diritto e far sì che cresca più che si possa il numero dei proprietarii. La proprietà individuale è la molla più efficace del lavoro e della produzione. Altri grandi vantaggi da tale proprietà deriverebbero, a patto però che la stessa non venga stremata da imposte eccessive.
Finalmente allo scioglimento dell’ardua questione possono molto contribuire le associazioni private, e specialmente le corporazioni d’arti e mestieri. È desiderabile che le medesime crescano di operosità e di numero. Il diritto di unirsi in società l’uomo l’ha da natura, e i
diritti naturali lo Stato deve tutelarli, non distruggerli. Si danno però casi che vedono legittimo e doveroso il divieto, ed è quando società particolari si prefiggono un fine apertamente contrario all’onestà, alla giustizia e alla sicurezza del civile consorzio. È necessario tuttavia andare in questo assai cauti per non invadere i diritti dei cittadini e non fare il male sotto pretesto del pubblico bene. Vanno poi rispettati, conservati e, ove occorra, difesi i sodalizi e collegi e Ordini religiosi di loro natura evidentemente legittimi, e sommamente vantaggiosi al pubblico bene. Del pari legittime e vantaggiose sono le cattoliche associazioni e i Congressi cattolici, e vanno anch’essi favoriti e sostenuti in ogni miglior modo.
Ogni società abbia i proprii statuti e questi informati sempre allo spirito della cristiana religione, fondamento di tutto. Fine delle associazioni operaie ha da essere il maggior aumento possibile di benessere fisico, economico, morale degli associati. È poi evidente che conviene avere di mira, come scopo precipuo, il perfezionamento religioso e morale e che questo perfezionamento vuolsi indirizzare tutta la sociale disciplina. Adattate ai nuovi bisogni le società eserciteranno come in passato, non piccola influenza sul prospero andamento della stesa società civile.
Tale la sintesi delle dottrine sociali, insegnate e praticate via via ne’ secoli dalla Chiesa di Dio.
Mirabile concordia di pensiero, di parola, di sentimenti dei seguaci di Cristo, anche in ciò che non è rigorosamente di fede! Il Papa felicemente regnante parla il linguaggio degli Apostoli e de’ loro immediati successori, e gli insegnamenti de’ grandi maestri della cristianità, vissuti in diversi secoli, diversi di nazionalità e di educazione, non differiscono punto da quelli impartiti da un sapiente Pontefice alla fine del secolo XIX! Mirabile e significantissimo fatto per se stesso, e molto più se paragona alle voci discordi e contendenti delle varie scuole socialiste che, pur proseguendo lo stesso fine, si combattono a tutta oltranza, senza pietà, sui mezzi onde raggiungere la meta agognata. Né potrebbe essere diversamente, poiché il socialismo rivoluzionario è figlio dell’anarchia del pensiero e del sentimento, il cristiano (se così posso chiamarlo), di un pensiero divino umanizzato, e quindi il primo mantiene l’impronta della violenza e del disordine che lo ha prodotto, il secondo partecipa della immutabilità della verità eterna dalla quale deriva.
Dal sin qui detto è facile desumere la differenza essenziale tra il socialismo rivoluzionario e la sociologia cristiana.
Le discrepanze formali ed essenziali delle due dottrine sono tante e così evidenti che ben potrei dire col poeta: Messo t’ho innanzi: ormai per te ti ciba.
Non sarà tuttavia fuor di luogo aggiungere alcune osservazioni per porle ancora in maggior luce e rilievo.
Il socialismo rivoluzionario si ispira a principii prettamente materialistici, parla soltanto in nome de’ godimenti materiali, fomenta disordini, attizza l’odio di classe, vuole distrutta la proprietà privata, e quindi la famiglia, vuol ottenere quelle che egli chiama rivendicazioni sociali colla violenza.
Ora tutto questo, nella forma e nella sostanza, ripugna all’intima essenza del cristianesimo che è religione di pace, di amore, di fraternità universale. Solo in nome di questi tre sentimenti la religione di Cristo spetrò i cuori, addolcì i costumi e stabilì in terra una fratellanza umana così perfetta da non potersi pensare una più intima fusione di anime, e consacrò la famiglia e, di conseguenza, riconobbe come indispensabile la proprietà privata, frutto legittimo della libertà e dell’attività dell’uomo.
Come abbiamo già notato, molti socialisti si affermano continuatori dell’opera redentrice del cristianesimo, proclamando Cristo loro precursore, e praticanti delle loro dottrine i primi cristiani.
I brani surriferiti non permettono alcun dubbio sulle idee irreligiose del socialismo, e chi afferma il contrario o è ingannato o inganna.
Il silenzio di molti socialisti in materia di religione non è che tattica di propaganda per non spaventare le anime credenti e ingenue colla enormità ed empietà di certe affermazioni. L’invocare che fanno altri il nome santissimo di Gesù Cristo, spogliandolo della sua divinità, non è rispetto e molto meno fede, ma una empietà sacrilega che sorpassa tutte le altre.
Nulla può esservi di comune tra coloro che vogliono le cosidette rivendicazioni sociali attraverso le rovine e le stragi, e Cristo benedetto che conquistò e rinnovellò il mondo colla mansuetudine e la verità. «Ecco il mio servo (diceva Isaia, parlando in nome di Dio e vaticinando appunto il Cristo), ecco l’eletto mio, l’oggetto delle mie compiacenze: io ho messo il mio spirito in lui ed egli annunzierà ai popoli la mia legge. Egli non contenderà, né griderà e la sua voce non sarà udita di fuori. Egli non triterà la canna fessa, non ispegnerà il lucignolo fumante: la sua forza sarà la verità. Egli si è lasciato offrire in sacrificio senza mandare un gemito, per puro amore: è stato menato alla morte come un agnello, e quasi pecorella mansuetissima davanti a quei che la tosano, non ha aperto bocca»12. Che cosa mai può avere di comune questo ritratto del Martire divino cogli energumeni del socialismo?
Nulla di comune tra Cristo Redentore che morì povero in croce
per la salute di tutti, che portò la pace a tutti gli uomini di buona volontà, e questi foschi apostoli del nichilismo sociale che predicano la virtù a parole, l’amore a base di antagonismo e odio di classi, che in fondo non per altro inveiscono contro le ricchezze individuali, se non per la cupida e intensa brama dei beni materiali, che oppongono la umanità alla patria e le insidiano entrambe, abolendo la famiglia che dell’una e dell’altra è la radice.
No, nulla di comune tra chi infiltra ne’ cuori con mille arti la ribellione a tutta oltranza verso le autorità religiose e civili, e le dottrine di Cristo le quali altro non sono che un insieme armonico di precetti e di atti ispirati dalla fede e dall’amore, che insinuano nei cuori il desiderio del bene, senza aspirazioni smodate o violenti imposizioni e senza rivolte contro le legittime autorità, anche ingiustamente operanti.
Noi abbiamo visto che le cause più attive del rapido propagarsi del socialismo sono: il disagio economico che stende le sue ali mortifere su tutti, ma più specialmente su quelli che vivono di salario, e l’affievolimento del senso religioso che teneva in freno l’irrompere delle passioni e confortava nelle angustie de’ mali presenti colle immortali speranze della vita futura.
I rimedi quindi, perché sieno positivi ed efficaci, debbono essere tali da distruggere e paralizzare queste due cause. Stanteché il male deriva da cause economiche e morali, del pari economico e morale dev’essere il rimedio.
Si tolga pertanto o almeno si temperi il disagio economico con savie leggi economico-sociali, si rinvigoriscano in tutti, e più nelle classi dirigenti, con una sana educazione, le forze spirituali e il sentimento del dovere religioso e civile, e noi avremo sottratto al socialismo ogni base di operazione, riducendolo a quello che è: un pensiero utopistico o una vuota declamazione tribunizia che non possono fare effetto su una società cristiana ove regni la giustizia nell’ordine e nell’agiatezza13.
Ma perché questi rimedi ottengano l’effetto desiderato fa d’uopo che sieno applicati simultaneamente, poiché, dissociati, riescono del pari impotenti a frenare tanto irrompere di passioni e a soddisfare bisogni molteplici. Impotente la riforma economica, essendoché la natura umana è così fatta che, se non è contenuta e guidata da un alto sentimento, desidera e vuole ciò che non ha, e quindi, nel caso concreto, ogni concessione non sarebbe che alimento a speranze e a desiderii di concessioni maggiori. Impotente la educazione religiosa e civile, poiché mal comprende la parola della fede chi ha la disperazione nel cuore, e il pane dell’anima deve essere compartito unitamente a quello del corpo.
Io non saprei meglio, né più autorevolmente esprimere questo concetto, che citando le parole del sapientissimo regnante Pontefice: «Che ciascuno faccia (egli dice) la parte che gli conviene; e non s’indugi, perché il ritardo potrebbe rendere più malagevole la cura di un male già tanto grave. - I Governi vi si adoperino con buone leggi e savi provvedimenti; i capitalisti e i padroni abbiano sempre presenti i loro doveri; facciano quanto possono, nei limiti del giusto, i proletarii, che vi sono direttamente interessati, e poiché, come abbiam detto da principio, il vero e radicale rimedio non può venire che dalla religione, si persuadano tutti quanti della necessità di tornare alla vita cristiana, senza la quale gli stessi accorgimenti reputati più efficaci saranno scarsi al bisogno. Quanto alla Chiesa essa non lascerà mancare mai l’opera sua, la quale tornerà tanto più efficace quanto sarà più libera, e di
questo devono massimamente persuadersi coloro che hanno per debito di provvedere al bene dei popoli.»
Ora, quali devono essere i doveri particolari del clero, di fronte a tale stato di cose? Come deve svolgersi l’azione sua, perché possa efficacemente contrastare il terreno al male invadente ed essere conforme ai precetti e alle dottrine del Vangelo?
Il primo de’ suoi doveri nella presente condizione di cose è di ravvivare nel popolo la coscienza cristiana e di far scorrere, mediante questo ravvivamento, vita e vigore novello nelle membra dell’intiero corpo sociale; vivificare, mediante l’alito della fede e della carità, il sentimento religioso in molti cuori ammortito, in moltissimi sopraffatto dalle vicissitudini della vita, dalla lotta disperante per il pane quotidiano, da quello sfrenato spirito di godere e dalla ripugnanza di soffrire che sono i primi frutti deleterii di quel materialismo teoretico e pratico che ha pervasa la società e che consuma in lei ogni spirito cristiano.
«Pongano tutta la forza dell’anima (ripiglia il Sommo Pontefice) e la generosità dello zelo in tale apostolato i ministri del santuario, e, guidati dall’autorità e dall’esempio dei Vescovi, non si stanchino di inculcare a tutte le classi della società le massime del Vangelo; facciano ogni loro possa a salvezza dei popoli e sopra tutto alimentino in sé e accendano negli altri, nei grandi e nei piccoli, la carità signora e regina di tutte le virtù. Poiché la desiderata salvezza deve essere principalmente frutto di una grande effusione di carità: intendiamo di quella carità cristiana che compendia in sé tutto il Vangelo, e che pronta sempre a sacrificarsi per il prossimo, è il più sicuro antidoto contro l’orgoglio e l’egoismo del secolo.»
Sacerdoti di Dio, imprimetevi bene addentro queste gravi e solenni parole del Maestro supremo; insegnate ai diseredati, coi precetti del Vangelo e coll’esempio de’ santi, che la povertà, all’occhio della fede, è tutt’altro che un disonore ed un male; aiutateli a sopportarla colla parola, coll’esempio e coi soccorsi opportuni, dimostrando (e la dimostrazione non è difficile) che spesso vi è più felicità nel tugurio del povero che nel palagio del ricco, se la felicità consiste nella pace e serenità dello spirito. Ai facoltosi insegnate che la ricchezza è un dono di Dio, un sacro deposito che dev’essere impiegato utilmente per tutti. Dite loro che la ricchezza non è sempre il piacere e non è mai la felicità, dacché il piacere abusato o sopprime le fonti del godere o si muta in noia disperante, e la felicità non è cosa terrena e non può consistere nelle soddisfazioni materiali; e che comunque non v’ha piacere più intimo, più vivace, più puro di quello che deriva dal soccorrere le miserie de’ nostri fratelli, di porgere la mano soccorrevole a tutte
le sofferenze della umanità, alla infanzia che langue, senza pane, senza istruzione, senza carezze; alla vecchiaia che declina verso la tomba, senza conforti; a tutte le umane miserie che consumano solitarie nel dolore. In questa missione di carità a pro degli infelici, sia il clero instancabile, sia insistente fino alla importunità, non dimenticando mai che la carità, come dice l’Apostolo, è longanime, è benigna, non ingelosisce, non è procace, non si gonfia, non cerca il fatto suo, non si inasprisce, non pensa male, tutto spera, tutto soffre, tutto sostiene. Ravvivando il sentimento e lo spirito di carità, noi faremo ad un tempo opera religiosa e civile, poiché la carità, sollevando e abolendo per quanto è in lei le sofferenze e, più ancora, avvicinando individui e classi e avvincendoli coi vincoli dolcissimi della riconoscenza, della benevolenza e della fraternità, diventa il più possente spegnitoio di quell’odio di classe che è il fomite principale di tutte le ribellioni e che le rende tenaci, accanite e qualche volta feroci.
Dicasi il medesimo dell’ubbidienza e del rispetto verso le civili autorità. Il praticarle, queste due cose, è dovere di ogni buon cristiano; ma il clero deve inoltre predicarle.
La ribellione è una malattia del secolo; e un resto del mal germe inoculato ne’ popoli dalla rivoluzione francese, e per curarlo non c’è che un antidoto, la religione. E il clero, insistendo anche su questo punto, compirà (come ho detto parlando della carità) opera patriottica, civile, e insieme religiosa, poiché lo spirito di ribellione non avendo per sua natura un oggetto determinato, investe di sé e informa per così dire tutto lo spirito, e il ribelle alle leggi dello Stato lo è sempre e accanitamente più a quelle della Chiesa.
La ribellione non è mai permessa sotto qualsiasi pretesto. È lecita altresì la disubbidienza agli uomini, quando comandino le cose apertamente contrarie alla legge di Dio; lecita altresì la resistenza quando, impediti o menomati nei nostri diritti, la legge non ci accordi i suoi mezzi di difesa; ma ribellione mai e poi mai! Il cattolico muore, ma non si ribella, ché il cattolico pensa, vivendo, operando e morendo, a mantenere il regno di Gesù Cristo sulla terra, non a distruggere qualsiasi regno del mondo.
Sono questi gli insegnamenti che scaturiscono, come da fonte viva, dal Vangelo e dalla storia della Chiesa.
Io non insisterò maggiormente su questi principii di indole generale, che, se toccano da un lato la società, dall’altra si innestano e si fondono coi doveri religiosi del clero. Infatti, ravvivare il sentimento cristiano, inculcare negli animi lo spirito di ubbidienza, predicare o praticare un ragionevole ossequio alle leggi ed alle autorità civili
è quello che il clero va facendo nella sfera della propria azione e come sa il meglio.
Ma lo stato presente della questione sociale e il progressivo diffondersi nelle città, nelle borgate, e fra i campi delle idee o prettamente socialistiche o affini, deve rendere più attiva e più adeguata al bisogno l’opera del clero stesso anche nel campo sociale.
Ora un tale lavoro, perché riesca veramente efficace e non inasprisca il male che si vuol curare, richiede più che altro prudenza, serenità di spirito, equanimità di giudizio, e misurata conoscenza e coscienza di ciò che si deve combattere, come di quello che è giusto concedere.
Ringiovaniscano pertanto i loro studi i sacerdoti e si mettano in grado di confutare (parlando il loro stesso linguaggio) i sofismi di cui libri, giornali e conferenzieri di propaganda socialista vanno imbevendo le menti degli operai e de’ contadini.
Io volli darne l’esempio con questi ammonimenti che vogliono essere considerati come un incitamento e un indice.
Ma siccome non è tutto male quello che dicono i socialisti, e io l’ho dimostrato, e l’efficacia della loro propaganda sta appunto nella constatazione di un fatto doloroso, cioè nella invadente miseria de’ più, in mezzo un vero rigoglio di produzioni agrarie e industriali che farebbero supporre un’aumentata ricchezza, così deve il clero porre ogni opera nel rilevare le cause di questo fatto e nel trovare gli opportuni rimedi, accettando e consigliando i più pratici, senza por mente da chi escogitati o propugnati.
Si dimostrerà così in effetto, che quel tanto di veramente bene che c’è nel socialismo è conforme alle massime evangeliche ed attuabile, anche senza la distruzione della società, o veramente è inutile, o dannoso, o sproporzionato al fine che si propone.
Postulati del socialismo moderno sono pure i seguenti: limitazione della giornata di lavoro, il minimo delle mercedi ai lavoratori fissato per legge, il diritto di lavoro, il diritto di sciopero, e andate dicendo. Ora tutti questi postulati, presi in sé astrattamente, sono buoni e non contraddicono punto né alle leggi divine, né alle umane. Sono della stessa natura di quelli sui probiviri, sulla pensione agli operai impotenti, sul riordinamento del lavoro per le donne e i fanciulli, sull’igiene negli opifici, che furono già tradotti in leggi anche da noi e che non mancheranno di dare ottimi frutti.
Ben vengano dunque, e al più tosto, questi provvedimenti e altri di simil fatta che diradino le spine sulla via de’ poveri, e benedetti sieno coloro che porranno l’opera dell’ingegno a risolvere le pratiche
difficoltà che quei postulati involgono; ma pur troppo, stando le cose come stanno, le difficoltà permangono e gravi.
La riduzione infatti delle ore di lavoro a otto ore giornaliere, a parte che offende la libertà dei lavoratori e dei capitalisti, non potrebbe essere applicata da un’industria isolatamente, o anche da un’intera nazione, senza il pericolo di vedersi sopraffatte dalle altre industrie e nazioni concorrenti. Il perché è manifesto: limitare le ore di lavoro significa aumento di salari e quindi aumento del costo del prodotto industriale. Una tale applicazione perciò equivarrebbe ad uccidere le nostre industrie a beneficio di quelle di altri paesi.
La legge de’ salarii stabilita così che il minimo sia il sufficiente per vivere, è pure un altro quesito che pare di una limpidezza e facilità assoluta di applicazione, ma che invece trovò difficoltà, finora insuperate, di ordine diverso nelle diversissime attitudini e potenzialità fisica e intellettuale dei lavoratori e nello stato di fatto delle industrie e delle cose stesse.
In conclusione, una tal legge si risolverebbe in un beneficio degli operai abili e forti, a detrimento de’ poco abili e dei deboli, poiché ne’ padroni sarebbe una gara di accapparrarsi operai che portassero il maggior frutto possibile. Accadrebbe per questo provvedimento, come per l’altro del lavoro de’ carcerati, che fu salutato, qual era infatti, come una innovazione moralmente salutare e rigeneratrice, ma che all’atto pratico si dovette limitare e quasi comprimere, per non danneggiare gli interessi dei lavoratori liberi.
Né diversamente si deve dire del diritto al lavoro e allo sciopero.
Se il lavoro è un dovere morale, perché non dovrà essere un diritto legale? Nulla di più logico e più giusto questa domanda. Ma come trovare l’applicazione di un tale diritto? Come dare lavoro a tutti, quando le braccia sovrabbondino e i mezzi sieno scarsi? Come obbligare il capitale a far lavorare in pura perdita, durante una crisi, senza obbligarlo a distruggersi o a rendersi impotente a riprendere, in tempo opportuno, un lavoro proficuo per tutti?
Il diritto di sciopero è un corollario della libertà; ma cessa di essere un diritto per diventare un reato, quando al diritto di scioperare si vuol aggiungere, limitando la libertà altrui, quello di imporre lo sciopero, anche con la violenza. E poi è veramente e sempre un bene lo sciopero? O non è piuttosto una di quelle armi a doppio taglio che spesso ferisce maggiormente chi l’usa, anziché colui contro il quale è usata?
Il male dunque non è nei postulati in se stessi, ma nel modo con cui i socialisti li presentano, facendoli parere agli ignari, per semplice scopo di propaganda, provvedimenti di facile e sicura applicazione,
contrariati soltanto dalla insaziata brama di guadagno de’ capitalisti sfruttatori. L’opera quindi del clero in tali questioni e consimili, deve ridursi a mettere in guardia gli ingenui contro le facili seduzioni delle troppo fallaci promesse.
E l’azione sua sarà più utile e più pratica, applicata non ai quesiti economici di indole generale, ma ai particolari e locali che ha giornalmente sott’occhi; dando cioè l’opera sua e il suo consiglio in sollievo della miseria, cooperando a togliere abusi e ingiustizie, insegnando agli ignari molte cose utili e belle, senza stancarsi mai.
Si dedichi quindi ogni cura alle società varie di forma e di intenti che fioriscono fra noi, poiché lo spirito di associazione aumenta e stringe i vincoli di fratellanza umana, supplisce alla debolezza degli individui e ripara i colpi improvvisi della sventura: Il fratello aiutato dal fratello è come una città fortificata. Lungi pertanto dal contrariare questo nuovo spirito di associazione che si spande e penetra ovunque, si continui a secondarlo, e si faccia il possibile per indirizzarlo sulla retta via, quando la inesperienza o i cattivi consiglieri tentino di deviarlo.
Benedica il clero altresì tutte le opere di previdenza e di mutuo soccorso, e se ne faccia propugnatore. Il soccorso mutuo e la previdenza sono due forme moderne di fare il bene al prossimo, che riuniscono ad un’ora i vantaggi della carità e quelli della educazione, in quanto che facendo partecipi dell’atto benefico i beneficandi, li avvezza a pensare all’avvenire, ad essere provvidenti e previdenti.
Una delle piaghe delle campagne è l’usura esercitata sotto forma di anticipazioni di generi alimentari, di sementi, di denaro per la compera del bestiame, e andate dicendo. Il sovventore viene retribuito o con interesse fisso molto largo, o in forma per lui più proficua con una data quantità di prodotti.
Ora il buono e il meglio dei profitti de’ poveri coloni va ad impinguare tali sovventori, e chi è costretto dalla necessità o da una disgrazia di ricorrere ad essi, vede in poco d’ora sfumare i suoi magri proventi e difficilmente si mette in condizioni di rifarsi e di equilibrare il suo povero bilancio.
Contro un tale stato di cose sono efficace rimedio le società cooperative di produzione, di consumo e di mutua assicurazione, sperimentate già con felice risultato in Italia e fuori, e più di tutto le Banche cattoliche e le Casse rurali che forniscono ai piccoli agricoltori il capitaletto occorrente ad un equo interesse.
Tali istituzioni sono da consigliarsi e da favorirsi a più potere ove esistono, incoraggiando a dedicarvisi le persone intelligenti e dabbene, poiché, come osservò con giustezza l’illustre vescovo di Magonza
Mons. Ketteler, che primo studiò, dal punto di vista cattolico, la questione operaia, «in altri tempi i signori dotavano la Chiesa di conventi e di pubbliche istituzioni di carità, oggi farebbero cosa a Dio più gradita, mettendosi a capo di associazioni operaie, di produzioni, di cooperazioni e di consumo per migliorare le condizioni degli operai, poiché in sostanza l’opera di beneficenza è opera di carità.»
Cotesta necessità di un’azione cattolica novella, rispondente a nuovi bisogni, forma il substrato dell’enciclica Rerum novarum, forma oggi il tema delle istruzioni de’ sacri Pastori, l’oggetto dell’insegnamento della teologia morale. Il dotto padre Lehmkull fra gli altri scrive: «I mutamenti avvenuti nella situazione sociale e nelle disposizioni degli uomini portano di necessità un mutamento di tattica nella cura delle anime. Un pastore che non stabilisse e sviluppasse vigorosamente associazioni nella sua parrocchia dimenticherebbe interamente il suo dovere».
Un altro modo di giovare a’ nostri poveri contadini, migliorando le loro condizioni economiche, sarebbe quello di persuadere i padroni a ritoccare i contratti colonici, adottando possibilmente il sistema della mezzadria o almeno togliendo certe condizioni ed usi non equi e, purtroppo, non sempre morali.
In più di un luogo il clero è già intervenuto appunto per appianare le divergenze non infrequenti tra padroni e contadini, e si è adoperato per far sparire usi e oneri di altri tempi.
Bisogna continuare su quella via con prudente fermezza e non permettere, per quanto è dato, che abusi e immoralità vengano a rendere più grave e dolorosa la vita dei lavoratori e dei poveri.
Altri vantaggi si possono procurare ai coloni, studiando per loro conto i nuovi ritrovati e sistemi agricoli che aumentano di molto, quasi senza spesa e senza maggior fatica, i prodotti dei campi.
Così la concimazione artificiale, la coltivazione intensiva, la opportuna rotazione delle semine, il rimedio contro la filossera e l’afta epizootica del bestiame, hanno dato notevoli risultati in molti luoghi, per opera di uomini egregi.14
In questo ventennio ho visto in questa mia diocesi molte proprietà parrocchiali, per l’addietro quasi incolte, trasformate in vigneti e campi ubertosi per lodevole iniziativa de’ parroci, e, sul loro esempio, intieri territorii vivificati e fecondati da un lavoro più intenso e più razionale.
Vorrei che quello che fu opera di pochi, fosse per l’avvenire di tutti. Io, a questo fine, ho istituito ne’ miei Seminari cattedre agricole, perché il giovane clero possa avere quelle cognizioni che li metterà in grado di impartire alle popolazioni, che gli verranno un dì affidate, insieme al pane dell’anima quello del corpo. Intanto non sarà difficile, per chiunque il voglia, di apprendere da’ libri quelle poche cognizioni che occorrono per dare ai contadini, troppo spesso attaccati alle vecchie abitudini, gli opportuni suggerimenti e le indicazioni pratiche, facili a intendersi e ad applicarsi, e che pure sono il risultato di lunghi studi e di esperienze costose. Utilissime a tale scopo anche le Conferenze agrarie, ed io vivamente le raccomando.
Vengo ad un altro punto rilevantissimo.
Dalle varie regioni d’Italia emigra di anno in anno un numero considerevole di contadini e operai che si spargono nel mondo in cerca di lavoro, alcuni per un periodo di tempo limitato, altri per stabilirsi definitivamente fra genti straniere, diverse di religione, di lingua e di costumi.
Questo esodo (effetto qualche volta di vere necessità economiche) è spesso opera di agenti d’emigrazione che si danno a speculare sulla miseria e credulità altrui.
I pericoli materiali e morali di un tale esodo, sono, quasi direi, infiniti, ed è noto quali conseguenze tristissime ne derivano.
Spetta al clero sopratutto l’adoperarsi per impedire un tanto disordine, o attenuarne almeno la gravità.
La emigrazione si deve dissuaderla a più potere, quando non la si vegga determinata da assoluta necessità; deve essere illuminata e diretta, quando è inevitabile, dando al povero emigrante tutti quei suggerimenti e conforti morali che gli servano come di viatico nel doloroso tragitto, e valgano a premunirlo contro i guai e le insidie che lo attendono lungi dal focolare domestico. I parrochi specialmente, prima di lasciar partire i loro figli spirituali debbono esaminare i loro contratti, assumere le informazioni necessarie presso le civili autorità e il Patronato della Emigrazione, munirli delle tessere che questo distribuisce, raccomandarli a persone amiche, fare insomma di tutto, perché, anche lungi, abbiano da conservarsi buoni cristiani e onesti cittadini.
Ho accennato così sommariamente alcuni de’ bisogni economici delle nostre campagne e i rimedi relativi, sperimentati buoni in più di un luogo; ma il male è multiforme e i rimedii debbono essere adattati e modificati a seconda de’ tempi, de’ luoghi, delle persone e applicati sempre con grande prudenza, né mai con fini partigiani. Il sacerdote non deve dimenticare mai di essere il padre spirituale di tutte
le anime affidate alla sua cura, e l’intervento suo in affari fuori di chiesa, e di pubblica utilità, non deve rinfocolare ire o partiti, ma unire tutti nel santo pensiero di operare il bene a pro de’ miseri, passerà così per le terricciuole, che di sono affidate, beneficando, e sarà de’ suoi parrocchiani vero padre e pastore, massime se, come dissi, a queste opere pensate e poste in pratica da una scienza saggia, unirà l’azione e la parola sua autorevole, ravvivando ne’ cuori quello spirito di carità cristiana che vale più di qualunque materiale rimedio, perché essa sola può curare i presenti mali sociali e dare la pazienza di sopportarli, ed essa sola può infondere quel delicato sentimento altruistico che fa considerare i mali altrui come proprii e muove ad alleviarli.
Raccogliendo il fin qui detto, e tornando al punto di partenza di questo mio scritto il male che affligge la società odierna non è, come dicono i socialisti, puramente economico, ma è anche morale, anzi sopratutto morale, e non consiste soltanto nella organizzazione sociale, ma anche e più negli individui.
Il clero pertanto, richiamando, come fa, gli individui alla osservanza della carità evangelica e dei precetti della religione, fa opera di rivendicazione sociale, poiché la salute della società sta in prima nella rigenerazione religiosa e morale degli individui; il resto verrà da sé.
Avanti dunque concordi e fidenti. Il Santo Padre ce ne ha dato il nobilissimo esempio, e colla sua sapiente enciclica ha segnato i confini del giusto e del vero nel campo sociale. Entro que’ limiti l’azione cattolica può e deve svolgersi, senza tema di errare.
In mezzo a tanto imperversare di passioni e di odii di classi, fra tanto moltiplicarsi di bisogni fisici e morali, la parola pacificatrice del clero può essere di capitale importanza per il trionfo del bene e della verità e può far sì che il secolo XIX, che pare voglia spegnersi fra i sinistri bagliori di una procella, finisca invece in un placido tramonto, foriero di un’alba più serena e tranquilla, in cui l’uomo posi da tanta guerra e tutte diriga le sue forze al pacifico svolgimento della vera civiltà e del vero progresso.
È utopia? È sogno? Dio nol voglia! Ad ogni modo benedetti un’altra volta coloro che avranno lavorato per mandarlo ad effetto, poiché avranno ben meritato della religione e della patria.
«L’essenza reale - egli dice - la sostanza vera e viva del socialismo, come della rivoluzione, è l’anticristianesimo. Dunque se non vuole correre il rischio di perire, la società deve rifarsi cristiana. Non c’è altra via di scampo e di salute. Tutti i ripieghi che le offrono e possono offrirle i suoi economisti, moralisti, i suoi politici e pedagoghi, sono inutili o nocivi, non attenuano, o aggravano il suo male. A ridarle vita e sanità è necessaria una fede, che porti a vivere l’uomo in Dio e Dio nell’uomo; è necessaria una speranza, che sollevi gli animi e i cuori dalla terra al cielo; è necessaria una legge, che imponga alla coscienza di adempiere tutti i doveri, rispettare tutti i diritti; una legge, che sancisca ed assicuri il suo premio ad ogni virtù, e la sua pena ad ogni vizio: è necessaria una forza, che metta l’uomo in grado di domare tutte le sue passioni, mostrare tutti i suoi appetiti, e mantenere costantemente subordinata la vita del senso alla vita dello spirito. Ora questa fede, questa speranza, questa legge, questa forza non può darla all’uomo, alla società umana, fuorché una sola ed unica religione: il cristianesimo»
«Egli solo ha il segreto di una carità che non lascia senza conforti nessuna miseria; e di una giustizia, che non viene a transazioni con nessuna iniquità. Un popolo in cui, governanti e governati osservassero fedelmente tutti i precetti dell’Evangelio e della Chiesa, sarebbe, quanto si possa essere quaggiù, felice. Non saprebbe che cos’è tirannia né anarchia; non conoscerebbe oppressione né rivoluzione; non avrebbe da trambasciare né per superbia ed avarizia del ricco, né per invidia e cupidigia del povero. Sarebbe una gran famiglia, che con offici e gradi e stati diversi, con professioni e condizioni diverse avrebbe pur sempre un solo cuore, un’anima sola. E tutto quel gran cumulo di miserie reali e immaginarie, di bisogni reali e artificiali, di querimonie legittime o illegittime, che è divenuto la causa o l’occasione o il pretesto del socialismo, si vedrebbe ridotto in quella somma di mali, che nella vita mortale son retaggio di tutti, ma non sono colpa di nessuno; e che mitigati, consolati dall’amore de’ fratelli, dalla pietà della Chiesa, dalla fiducia in Dio, non potrebbero mai dar luogo né anche alla tentazione di violare, né in pubblico né in privato, nessun diritto e nessun dovere» (Ultima Critica, Vol. I p. 525).