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Silvano Tomasi – Gianfausto Rosoli
Migrazioni moderne

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PRIMA CONFERENZA  SULLA EMIGRAZIONE

Piacenza,  [1891-92] Istituto Cristoforo Colombo

 

Con la dizione “Prima conferenza sull’emigrazione”, adottata nella stampa ad uso interno della Congregazione, viene riprodotto il testo dell’intervento fatto da Scalabrini a Genova nel gennaio 1891 e ripetuto, senza sostanziali variazioni, in numerose città italiane fin verso la fine del 1892. Il successo ottenuto a Genova ha un’eco immediata in altre metropoli d’Italia. La parola del vescovo di Piacenza è richiesta a Torino e Roma per l’intervento non soltanto di eminenti personalità ecclesiastiche, come i cardinali Lucido Maria Parocchi e Gaetano Alimonda, ma anche di laici impegnati. La conferenza a Milano è promossa da Luisa Visconti Venosta, moglie del ministro degli Esteri in numerosi governi postunitari, una volta superate le incertezze dell’arcivescovo card. Luigi Nazari di Calabiana: nella chiesa di S. Alessandro l’oratore è atteso dall’amico barnabita P. Pietro Gazzola. Più spedito è l’iter a Firenze dove Adele, sorella di Luisa Visconti di Venosta, ottiene l’approvazione del card. Agostino Bausa.

Nelle conferenze l’oratore, parlando del problema emigratorio, intende sfatare l’accusa di antipatriottismo mossa al clero italiano: di chiudersi in un ascetismo egoistico disinteressandosi della “questione sociale” che, anche per l’Italia, è la grande sfida del secolo.

Scalabrini osserva che l’emigrazione è uno dei fenomeni più importanti della vita moderna, è una legge di natura e un diritto inalienabile. Purtroppo diventa un male se non è protetta. E questa è un’amara realtà per il paese. Gli emigrati italiani espatriano e vivono all’estero in condizioni peggiori dei migranti di tutte le altre nazioni. Sono sfruttati, privi di ogni assistenza religiosa e con scarse prospettive di fortuna. È un dovere civico oltre che morale l’aiuto a chi lascia la patria. Scalabrini accenna a quanto è riuscito a realizzare fondando la congregazione e promovendo negli Stati Uniti e in Brasile una intensa attività missionaria, e chiede solidarietà per le opere che ha avviato.

 

 


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Signori e signore,

Non per vano rumore, da cui rifuggo per principio e per indole, e neppure per seguire la moda, del resto lodevole, di intrattenere le varie classi sociali, spezzando il pane della scienza nella forma voluta dal Poeta: «utilia dulci», poiché non so «invidiati veri scientifici» rivelare al pubblico; ma è unicamente per obbedire ad un alto dovere, che io mi presento a voi.

Ho dei ringraziamenti da fare, ho dei conti da rendere ai molti generosi che al primo appello ch’io rivolsi loro tre anni or sono, in nome dei poveri emigrati italiani, concorsero all’opera mia con una fiducia che mi commosse e con una spontaneità che dimostrò quanto suoni potente e persuasiva la voce di chiunque in Italia sorga a favellare in nome della Religione e della Patria.

E rendendo conto di ciò che si è fatto, io intendo rinnovare l’appello al Clero italiano non per eccitarne lo zelo di Apostolato, che è noto al mondo quanto sia ardente, sublime, generoso, ma per dirgli che lungi da noi migliaia e migliaia di anime hanno bisogno dell’opera sua e ansiosamente la invocano; intendo rinnovare l’appello al laicato per dirgli che immenso è il campo aperto a lui e a tutti gli uomini di buon volere; per dire all’uno e all’altro che i mezzi necessari all’impresa sono grandi, come grandi sono i mali morali e materiali cui è uopo provvedere.

E un tale rendiconto mi parve tanto più un dovere, o signori, in quanto che, parlandosi di un’opera di redenzione non solo religiosa, ma economica e civile intrapresa dal Clero, fosse indiretta ma efficace risposta a quanti e non sono pochi ai dì nostri o per ignoranza, o per mala fede, o per oblio, accusano questo clero di chiudersi in un ascetismo egoistico, di non curar la Patria, di non interessarsi della grande malattia del secolo che si chiama: Questione sociale.

Mi è dolce, o signori, perorare dinanzi a voi, colti e gentili, una causa che ha bisogno di tutta la vostra simpatia, e mi è dolce parlarne in Roma; in questa Roma, onde Cristo è Romano; in questa Roma detta a ragione Madre del sapere e della civiltà, culla del genio, patria a tutti comune; in questa Roma, che per la sede di Pietro, stende lo scettro della potenza in tutte le nazioni cristiane ed abbraccia l’uno e l’altro emisfero; nel cui seno arde mai sempre vivo il fuoco di quella carità che fa di tutti i popoli un sol popolo, di tutte le famiglie una sola famiglia, che prima proclamò e vide attuata nel mondo la vera idea di libertà, uguaglianza, fraternità; in questa Roma finalmente donde muovono e dove hanno suggello tutte le grandi iniziative dirette ad assicurare, coi beni della patria terrena, l’acquisto della patria celeste.

 




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