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Silvano Tomasi – Gianfausto Rosoli
Migrazioni moderne

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II

 

E i pericoli morali e materiali degli Emigrati? Non starò a descriverli, o signori, si è detto tutto quando si è detto che essi vivono laggiù privi di ogni assistenza religiosa; abbandonati a se stessi o si danno all’indifferentismo più desolante, o disertano la religione dei loro padri. Smarriscono il sentimento della nazionalità e con esso, cosa che stringe il cuore a pensarvi, il sentimento della cattolica Fede, cadono vittime della propaganda protestante, vittime infelici delle sette, colà più che altrove attive e numerose. Ah! Signori, permettete a un Vescovo di piangere innanzi a voi tanta sventura! La privazione di quel pane spirituale che è la parola di Dio, l’impossibilità di riconciliarsi con Lui, la mancanza del culto e di ogni eccitamento al bene, esercita, o signori, un’influenza mortifera sul morale del popolo. Anche l’uomo istruito è soggetto a tale pericolo, ma in minor grado poiché la sua educazione, la sua cultura, la conoscenza teorica della religione, valgono in qualche modo a salvarlo dal gelo dell’indifferenza, potendo egli, se non altro, associarsi col pensiero ai divini Misteri, che si celebrano altrove, e nutrire la mente di letture morali. Ma il povero figlio della gleba come potrebbe assorgere a pensieri così elevati? Per lui, più che per altri, il concetto della religione è inseparabilmente unito a quello del Tempio e del Prete. Dove taccia ogni sensibile apparato religioso, egli a poco a poco dimentica i suoi doveri verso Dio, e la vita cristiana nel suo spirito illanguidisce e muore. Ma non muore in lui la sete del vero!  La brama dell’infinito! «L’uomo, dice un moderno filosofo incredulo, abbisogna naturalmente di Religione e di Culto. Egli è religioso per natura, come per natura è ragionevole, o meglio ancora egli è religioso perché ragionevole». Questo bisogno tanto più è sentito quanto meno è possibile soddisfarlo. Ciò si tocca con mano in mezzo ai nostri Emigrati, anche là dove per mancanza del prete regna sovrano il materialismo il più abbietto. Immaginate poi, o signori, quanto quel bisogno debba esser vivo tra coloro - e sono i più - i quali ancora sentono la dignità del proprio essere, odono ancora i reclami della loro coscienza.


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Dentro mi suona tuttora dolorosamente la voce di un povero contadino lombardo, venuto due anni or sono a Piacenza dalla estrema valle del Tibagy nel Brasile, per chiedermi a nome di quella numerosa colonia un missionario. «Ah!, Padre, mi diceva egli con voce commossa, se sapesse quanto abbiamo sofferto! quanto abbiamo pianto, al letto dei nostri cari moribondi, che ci chiedevano costernati un prete... e non poterlo avere! Oh Dio! noi, no, non si può più vivere, non si può più vivere cosi!» E continuava il poveretto, con rozzo ma eloquente linguaggio a narrarmi scene davvero strazianti! Lo confesso non mai come allora mi augurai la vigoria dei miei 20 anni, non mai rimpiansi come allora l’impossibilità di mutare la croce d’oro del Vescovo in quella di legno del Missionario, per volare in soccorso di quegli infelici, veramente infelici, perché agli altri pericoli si aggiunge per essi quello di cadere nell’abisso della disperazione.

Signori, il quadro non è lieto, ma non è colpa mia se la realtà delle cose è così triste! Tutto quanto vi dissi ora potrei documentarvelo con fatti e cifre ufficiali, con narrazioni di altri testimoni oculari di quei tristi fatti. Ma basta il fin qui detto a dimostrare quanto sia vera la sentenza del segretario fiorentino: «dove è Religione si presuppone ogni bene, ove ella manca: ogni male».

E le condizioni economiche della Emigrazione?

Da un rapporto alla Presidenza della Società di Protettorato da chi fu inviato appositamente per studiarle, tolgo i dati seguenti, desunti da pubblicazioni ufficiali di quei paesi.

Dopo aver parlato della valorizzazione della terra e delle cause per cui i primi coloni diventarono ricchi od agiati, parla delle condizioni presenti della emigrazione, principalmente agricola, in questi termini: «L’età dell’oro dell’emigrazione in America è passata, e pur troppo anche quella d’argento. L’emigrazione trova raramente la fortuna sognata, qualche volta un po’ di benessere; ma la maggior parte una vita dura, senza conforto e senza speranza. Ecco alcune cifre. Si é detto miracoli sulla fecondità e feracità di quelle terre, ma il prodotto medio non è superiore alle nostre terre mediocri, poiché la siccità, la pioggia, le cavallette ed altri malanni agricoli si mangiano troppo spesso in erba le speranze dei poveri agricoltori. Qui da noi su un novennio si calcola un anno perduto: colà bisogna calcolarne tre».

Dalla «Descripcion Geografica y estatistica» della provincia di S. Fé, opera premiata dal Governo Argentino, tolgo la prova di questa asserzione. E notate che la provincia di S. Fé è la meglio coltivata di tutta la Repubblica e si chiama colà: la regione del frumento. Nel quinquennio 1879-84 nella provincia di S. Fé si seminarono quadre quadrate - ogni quadra vale 10 pertiche metriche - 522.883 pari


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a pertiche metriche 5.228.506, e si raccolsero faneghe 4.052.530 ossia ettolitri 5.228 e 500. In quel quinquennio adunque la feracissima terra di S. Fé ha dato ai coloni un ettolitro alla pertica metrica, meno cioè delle mediocri terre di Lombardia, le meno frumentifere d’Italia.

Ecco ora altre cifre, non meno interessanti, tolte dalla statistica di Gaetano Ripol intitolata: «La provincia di Entre Rios bajo sus diversos aspectos». La colonia di Monte Caseros, che la statistica dice terre «immecorables», nel quinquennio 79-84 riscosse: per faneghe 33.799 di granoturco £. 254.150; per faneghe 71.194 di frumento £. 1.685.460; prodotto pollaio £. 90 mila; in tutto £. 1.924.460.

Ora sottraendo un terzo da questo prodotto per il fitto nella supposizione che quei coloni avessero tutti il miglior contratto colonico - due terzi al colono e un terzo al padrone avremo che i coloni poterono riscuotere per loro £. 283.390, le quali ripartite per ogni individuo, contandone in quel tempo la colonia 1.922, avremo che ogni colono nel quinquennio poté guadagnare £.  685 e per un anno £. 135.

Ecco, o signori, a che si riduce il sognato Eldorado! e dal meglio deducete il peggio, essendo l’Argentina il paese che offre alla nostra emigrazione maggiori garanzie.

Le condizioni dei nostri emigrati nel Brasile sono ancora peggiori. Le mercedi promesse loro nei libretti réclame e che ogni agenzia di emigrazione sparge in gran copia, sono così meschine, che se non trovassero un complice nel ridicolo sistema monetario di quel paese, basterebbe solo annunziarle perché nessun lavoratore si lasciasse mai più prendere all’amo delle lusinghe degli agenti. Un uomo robusto e nelle migliori condizioni, può coltivare 2.000 piante di caffè, che si zappa due o tre volte all’anno. Nella zappatura quindi, nella raccolta e nella politura quell’uomo può guadagnare da cento a cento venti mila reis, cifra che fa inarcare le ciglia alla povera gente, ignara di tutto, ma che tradotta in nostra moneta fanno da 300 a 350 lire. Con sì tenue guadagno, che potrebbe fare un povero uomo, un povero padre di famiglia? E che dirvi degli altri meno fortunati e dei coloni, che lavorano nelle fazendas? Più di ogni mia parola valga questo grido di indignazione del brasiliano Dr. Ennes Souza. «Non siamo preparati per la colonizzazione agricola ... Non possiamo collocare, nelle condizioni che esigono l’umanità e l’economia, dodici famiglie né due, se si vuole. Posto quindi fra la schiavitù bianca, che è di fatto l’unica condizione che pare vada ognor più aggravandosi per il riprovato sistema di seduzione al contratto, e il grido di protesta che avverta gli Europei del laccio che loro si prepara, io come figlio di una nazione che si è abbastanza imbrattata nella infamia universale della schiavitù, non esito a denunciare al mondo il triste fatto. Non potendo ancora il Brasile


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collocare immigrati agricoli nelle vere condizioni di lavoro, considero un delitto di lesa umanità consigliare la venuta di una sola famiglia di più, sino a tanto che non si modificano le condizioni del nostro Paese in modo da poter garantire una posizione autonoma all’immigrante spontaneo.»

E potrei continuare in queste citazioni di fatti e di parole che dimostrano di quante lagrime sia bagnato e quanto sappia di sale il povero pane dell’emigrato, di quegli infelici che tratti laggiù o da vane speranze o da false promesse, ove credettero trovare un paradiso, trovarono invece un’iliade di guai, l’abbandono, il dolore, la fame, e non di rado, la morte; che colorato dal miraggio del bisogno, videro l’Eldorado senza pensare che il simoun violento della realtà, sperde in un attimo quelle incantate città dei sogni: che estenuati dal clima, dalle fatiche, dagli insetti cadono sconsolati sulla gleba fecondata dai loro sudori, in margine alle vergini foreste, che seppero dissodare, ma non per sé, né per i figli; percossi da quel morbo fatale e gentile che è la nostalgia, sognando forse la patria, che non seppe dar loro nemmeno il pane, invocanti invano la Religione, la Religione santa dei loro vecchi, che lenisca i terrori dell’agonia con le immortali speranze dell’avvenire.

Ma ciò che più rattrista in tutto questo, è il pensiero che la maggior parte dei mali religiosi, morali, economici, ai quali si espone la nostra emigrazione potrebbero evitarsi o impicciolirsi d’assai, qualora le classi dirigenti in Italia fossero conscie dei doveri che li lega ai fratelli espatriati: poiché, o signori, le immense contrade d’America non sono così malsane da non poter offrire alla nostra emigrazione un angolo tranquillo, e non tutte le terre sono così possedute dalla speculazione, da non trovarne ancora di così fertili e a buon partito da assicurare un equo compenso ai lavoratori. Tutto sta saperle additare alla nostra emigrazione. Ma quando si è fatto questo in Italia. Quando si è detto all’emigrante: badate, questo e quest’altro contratto che vi si offre, queste e quest’altre regioni che vi si additano nascondono il tale e il tale agguato: sono malsicure, sono malsane, sono sterili; o pure essendo fertili, sono così fuori da ogni possibile mezzo di comunicazione, così segregate da ogni umano consorzio, che il frutto delle vostre fatiche giacerà invenduto, ricchi ad un tempo e poveri? Quando mai, ripeto, si è fatto questo in Italia? Tutto al più si grida un po’ e si geme sotto la sferza di qualche fatto, che in quei nostri fratelli offende il nostro amor proprio nazionale, si grida e si compassiona e si reclama anche, se si vuole, qualche misura dal Governo, e poi? Tutto tace, tutto si copre di oblio, tutto rientra nella calma; la calma infida dell’onda che nasconde la vittima e se ne preparano di nuove!

 




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