INTRODUZIONE
1.
- Subito dopo la morte di Cristo (avvenuta l'anno 29, 15esimo dell'impero di
Tiberio), la sua religione si propagò rapidamente fuori della Giudea, per tutte
le parti dell'Impero romano. L'anno 64, in cui ebbe luogo la famosa
persecuzione di Nerone contro i Cristiani, essa aveva da un pezzo, come dice
Tacito (Annali 15,44,5), fatto irruzione anche nell'Urbe. Cristiani esistevano
in Roma al tempo di Claudio (41-54), secondo che attesta Svetonio (Claud.
25,2), il quale parla di misure repressive prese da questo imperatore contro di
loro; e secondo che attestano gli Atti degli Apostoli (18,2), dove si narra di
un incontro di Paolo, nel 52, a Corinto con i Cristiani Aquila e la moglie sua
Priscilla, dovuti uscir di Roma in seguito all'editto dell'imperatore. Inoltre
dall'epistola di Paolo ai Romani (15,24), che è del 58, si ricava che da
parecchi anni esisteva in Roma una Comunità di Cristiani. Come questa Comunità
sorgesse e per opera di chi, è ignoto. Quando Paolo venne a Roma nel 61, trovò
Cristiani a Pozzuoli, e Cristiani dall'urbe vennero a incontrarlo a Foro Appio
(Atti degli Apost. 28,14 seguenti): durante la dimora in Roma di Paolo, venne a
stabilirvisi Pietro. La tradizione congiunse la morte dei due Apostoli durante
la persecuzione di Nerone (DUCHESNE, Hist. ancien. de l'église, Paris, 1923,
1-64).
2. - Nei riguardi della
nuova religione, che conquistò nel giro di poche generazioni tutto il mondo
conosciuto, si presenta subito un problema. Come si spiega che i Romani, i
quali si dimostrarono tollerantissimi sempre verso tutte le religioni dei
popoli sottomessi (Apol. 24,7 seguenti), furono, invece, tanto severi
unicamente verso la nuova religione, da esercitare contro i suoi seguaci le più
feroci persecuzioni? Gli è che nessun'altra religione, all'infuori del
Giudaismo e del Cristianesimo, professò un'intolleranza irriducibile verso la
religione pagana. Senonché, mentre i Giudei limitavano la loro intolleranza a
una passiva e pacifica resistenza, i Cristiani, invece, in obbedienza al
precetto del Maestro divino, erano animati da un ardente intento proselitistico
e battagliero e conquistatore, attentando direttamente all'esistenza stessa
della religione romana nelle sue pratiche esplicazioni, e, indirettamente,
nella interpretazione dei loro persecutori, all'esistenza stessa dell'Impero.
E invero, per i Romani la pratica religiosa
s'identificava con la res publica. è nota la spregiudicatezza con cui i più
intelligenti e dotti fra di essi giudicavano delle loro credenze e dei loro
riti. Con tutto ciò ne erano osservantissimi, in quanto quelle credenze e quei
riti costituivano la parte più venerabile della loro tradizione, fino a un
certo punto, della loro stessa storia. è nota, anche, la severità con cui
perseguivano i reati contro la religione; e come alla mancata osservanza delle
prescrizioni rituali imputassero i più gravi disastri. Pertanto i Cristiani
venivano riguardati quali nemici publici dell'Impero: e nemici personali pure
degl'imperatori, da quando si era cominciato a onorare questi quali divinità,
con forme prescritte, a cui non era lecito rifiutarsi senza incorrere in grave
reato. Si aggiunga poi che, oltre che di essere ostili alla religione (Apol.
10-15) e agl'imperatori (ibid. 29-36) e causa di tutte le sciagure inviate
dagli dèi (ibid. 40-41), i Cristiani erano accusati di delitti mostruosi e
inverosimili: d'infanticidio (ibid. 2, 5, 20; 4, 11, 7;8;9) e cannibalismo
(ibid. 7,1; 9,9), d'incesto (ibid. 2,20; 4,11; 7,1; 8,3,7), di adorare una
testa d'asino (ibid. 16, 1-4;12), di tutti i delitti (ibid. 2,16).
Persecutori dei Cristiani furono
gl'imperatori Nerone (nel 64), Domiziano (nel 95), Marco Aurelio (nel 177),
Decio (nel 250), Valeriano (nel 257) e Diocleziano (nel 303). Particolarmente
feroci furono le persecuzioni di Nerone, Decio, Diocleziano. è noto come nel
101 Plinio minore, trovandosi a governare la Bitinia, con una sua lettera
(10,96) chiedesse all'imperatore Traiano istruzioni sul modo di procedere
contro i Cristiani. " Eran soliti radunarsi in un giorno convenuto prima
del sole, per recitare alternatamente un carme in onore di Cristo, come di un
dio; si obligavano con giuramento a non commettere furti, latrocii, adultèri, a
non tradir la fede, a non rifiutarsi di restituire il deposito. Fatto ciò avean
costume di separarsi e poi di nuovo riunirsi per consumare un cibo comune e
innocente ". Plinio aveva voluto andare a fondo, sottoponendo a
"tormento due ancelle, chiamate ministre, e non aveva trovato altro che
una superstizione storta, smodata. La cosa gli era sembrata degna di
consultazione, in quanto correvan pericolo molte persone di ogni età, di ogni
condizione, di entrambi i sessi: ché non solo per le città, ma per i villaggi e
i campi si era diffuso il contagio di quella superstizione, che sembrava
potersi arrestare ". La risposta di Traiano era stata categorica (se non
logica): " I Cristiani non si devono cercare: ma se denunziati e accusati,
si devono punire, a meno che non neghino di essere Cristiani, provandolo col
fatto, vale a dire, supplicando gli dèi dei Romani. Però le denunzie anonime
non devono essere accolte: sarebbe un pessimo esempio e contrario allo spirito
del secolo".
Inoltre i Cristiani parevano rinnegare
effettivamente la vita, rinunciando a tutto quanto, per unanime consenso, la
faceva bella (Apol. 38,3 seguenti; 39,14 seguenti; 42,4 seguenti eccetera).
Tutta l'arte greco-romana andava congiunta con quanto essi aborrivano, sia per
ciò che contrastava recisamente con la loro fede (rappresentazioni letterarie e
plastiche e, in generale, mitiche), sia per ciò che era in assoluta opposizione
con il loro costume (oscenità del teatro, crudeltà dei ludi gladiatori
eccetera). Il che era indivisibile dalla vita pagana. Onde il giudizio dato su
di loro: " odiatori del genere umano " (TACITO, Ann. 15,44,6).
3. - Una procedura
determinata e stabile contro i Cristiani non c'era. Come la loro colpa era
stata fatta rientrare nel delitto di "lesa maestà" (28,2), così il
procedimento punitivo e la gravità dipendeva dal temperamento del persecutore,
sopra tutto nelle province più lontane da Roma, e dal grado di resistenza opposta
dai perseguitati. Di solito i Cristiani, che cedevano davanti agli orrori dei
supplizi comminati, rinnegando la loro religione e adempiendo, a conferma
dell'apostasia, a qualche rito, erano risparmiati, ottenendo l'impunità.
Coloro, invece, che resistevano (e il martirologio degli eroi di questa Fede
autorizza a credere fossero i più), venivano spietatamente fatti morire.
Dall'Apologetico apprendiamo che le forme di violentamento e di punizione
adoperate contro i Cristiani erano le seguenti: lavori forzati nelle miniere,
relegazione nelle isole (12,5), torture e lacerazioni (2,15; 21,28), ungulae,
croci, fiamme, decapitazioni, bestie feroci (12,3; 30,7; 49,4; 50,3),
lapidazioni, incendi (37,2; De spect. 27).
4. - Per comprendere le
difficili condizioni in cui venivano a trovarsi i nuovi convertiti alla
religione di Cristo, conviene ancora riflettere sullo stato sociale dei
convertiti. Tutta una classe di lavoratori attingeva la vita a risorse
intimamente legate alla religione pagana: operai addetti a costruzione di
templi, di statuette ed emblemi religiosi, funzionari publici, magistrati,
senatori, soldati, la cui vita la religione pagana, sia pure con manifestazioni
di puro formalismo, aveva tutta pervasa, talché era impossibile svincolarsi da
atti e cerimonie imposti alla carica. Fino a qual punto poteva essere concesso
a costoro, una volta convertiti, di continuare senza colpa nella consueta
attività? Aggiungasi (più importante ancora) la classe delle persone colte, in
cui ben presto la novella religione cercò e annoverò in bella quantità i suoi
seguaci. Costoro avevano acquistata la loro cultura nelle scuole di grammatica
e di retorica pagane, che erano rimaste le stesse (e le stesse continuarono ad
essere per parecchie generazioni): dove si erano letti e studiati i poeti più
famosi (scuola di grammatica), e coltivata, con lo studio dei prosatori più
celebri, l'arte retorica, intesa a dare il possesso dell'eloquenza di parata e,
specialmente, giudiziaria (scuola di retorica). è vero, quei poeti erano
impregnati di voluttuarismo e mitologia, quanto mai contrastante con la purezza
di fede e di vita imposta dalla nuova religione; ma erano pur anche i
rappresentanti di un'arte e di una bellezza non sempre sconcia e riprovevole. è
vero, la filosofia pagana era spesso in antitesi assoluta con la nuova Parola,
affermante l'esistenza di un Dio unico, puro Spirito, il cui Figliuolo erasi
incarnato ed era morto per la salvezza degli uomini: ma conteneva anche quanto
di più vero e di più alto aveva l'umano pensiero potuto attingere con le sole
sue forze, prima che l'ali ne impennasse una nuova, divina inspirazione. Era
dunque necessario, per essere veri seguaci del nuovo Verbo, rigettare in pieno
tutta l'arte pagana, tutto il pensiero pagano? spogliarsi in pieno di tutta una
cultura, che pure aveva i suoi pregi? Era essa proprio inconciliabile con la
dottrina del Cristo e con la vita da essa predicata e imposta? D'altro lato,
una rinunzia del genere, chi anche avesse voluto attuarla, era essa possibile?.
Molto interessante torna a questo proposito anche quello che si legge in una
lettera di San Girolamo diretta a Eustochio (XXII 30 Hilberg: CSE 54, p. 189
sg.), la figliuola della nobilissima matrona romana, Paola, e sua figliuola
spirituale: "Anni fa (nel 374)... avviandomi a Gerusalemme, non potevo
privarmi della biblioteca, che mi ero formata a Roma con grandissimo zelo e
fatica. Pertanto io, misero, digiunavo col pensiero di leggermi Tullio. Dopo
frequenti notti passate vegliando, dopo le lagrime, che il ricordo dei passati
trascorsi mi traeva dall'ime viscere, prendevo in mano Plauto. Se talora,
ritornando in me stesso, prendevo a leggere un profeta, quel linguaggio incolto
mi metteva orrore; e poiché con gli occhi accecati la luce non vedevo, pensavo
che la colpa fosse, non degli occhi, ma del sole. Or mentre per tal modo
l'antico serpente si prendeva gioco di me, circa a metà quaresima, una febbre,
entrandomi nelle ossa, il corpo esausto invase; e senza requie alcuna... così
le misere membra consumò, che appena aderivo alle ossa. Frattanto si
preparavano le esequie e, ormai freddo tutto quanto il corpo, il calore vitale
dell'anima nel povero petto, esso solo tiepido, palpitava. Allorquando, rapito
improvvisamente in spirito, vengo tratto al tribunale del Giudice; dove tanto
lume e tanto splendore v'era per la chiarità dei circostanti, che, abbattutomi
in terra, guardare in su non osavo. Interrogato della mia condizione, di essere
cristiano risposi. E quello, che, stava seduto: - Tu menti - disse; - tu un
ciceroniano sei, non un cristiano: dov'è il tuo tesoro, ivi ~ il tuo cuore
(MATTEO, 6,21). - Immediatamente ammutolii e tra le staffilate (ché aveva
ordinato che io venissi battuto), dal bruciore della coscienza più che di
queste mi sentivo tormentato... Tuttavia cominciai a gridare e a dire piangendo
forte: Abbi pietà di me, o Signore, abbi pietà di me (Ps. 50,1). Questa voce
risuonava tra le staffilate. Finalmente, prosternandosi alle ginocchia del
presidente, gli astanti pregavano che perdono concedesse egli alla giovinezza,
che possibilità di pentimento all'errore accordasse: avrebbe applicato la
tortura, se libri appartenenti alla letteratura dei Gentili avessi io quando
che fosse letti. - Io che, in così grave congiuntura costretto, avrei voluto
promettere ben altro, cominciai a giurare e a dire (il suo nome chiamando in
testimonio): O Signore, se mai possederò libri mondani, se li leggerò, ti avrò
rinnegato. - Messo in libertà su questo giuramento, ritorno fra gli uomini; e,
con meraviglia di tutti, apro gli occhi inondati di tanto profluvio di lagrime,
da persuadere anche gli increduli che da dolore provenivano. Né in verità era
stato assopimento quello o sogno vano, onde siamo spesso illusi. N'è testimonio
il tribunale, davanti al quale giacqui, n'è testimonio il giudizio, che mi
riempì di paura... l'avere avute le spalle livide, l'essermi dei colpi
risentito dopo il sonno; e l'avere in seguito letto le cose divine con tanto
ardore, con quanto non avevo le cose mortali lette ".
Più tardi il suo fiero avversario, Rufino,
moveva al Santo accusa di spergiuro, per non aver tenuto fede al giuramento
fatto da lui nel sogno di cui sopra, di non toccare più libri di Gentili: il
che Rufino ricavava dal fatto che Girolamo citava sovente da quei libri. "
Ho promesso - questo risponde - che non avrei per l'avvenire letto libri
mondani: si tratta di una promessa riguardante il futuro, non di un'abolizione
dei ricordi passati. 'Come fai - dici tu - a ritenere quello che da tanto tempo
non rileggi?'... - Chi di noi non si ricorda della sua infanzia? Io almeno...
mi ricordo di avere, fanciullo, scorrazzato per le cellette dei servi, di avere
trascorso in giochi i giorni di vacanza... per farti stupire anche più, ora che
ho i capelli bianchi e la fronte calva, spesso mi vedo, in sogno, con la mia
brava chioma e vestito di toga, declamare davanti al maestro di retorica la mia
povera controversia. Svegliato, mi congratulo con me stesso di essere liberato
dal pericolo del declamare. Credimi, molto ricorda con esattezza l'infanzia. Se
tu avessi appreso le lettere, odorerebbe l'anfora del tuo ingegnuccio di ciò di
cui fu una volta imbevuta> (ORAZIO, Epist. 1,2, 69 sg.) eccetera (Adv.
Rufin. 1,29; 485 sg. MIGNE).
Con ciò San Girolamo parrebbe affermare di
non avere letto più, dopo quel sogno, libri profani, di non aver toccato più il
suo Cicerone, il suo Plauto. Dovremo credergli in tutto e per tutto?
5. - Orbene, nella vita
cristiana si determinarono, a proposito della cultura pagana, ben presto due
tendenze, l'una intransigente, l'altra conciliante, che riconobbe il buono, che
pur nell'arte e nel pensiero antico aveva diritto alla conservazione, e lo
conservò e, come diremo, se ne giovò per la sua stessa propaganda. Fu
riconosciuto lecito fare, nei riguardi della cultura antica, quello che gli
Ebrei avevano fatto nell'uscire dall'Egitto. " Come... gli Egiziani non
solo avevano idoli... che il popolo d'Israele detestava... ma anche vasi e
ornamenti d'oro e d'argento e vesti, che quel popoìo, uscendo dall'Egitto
rivendicò a sé... per un utile migliore... così le dottrine tutte dei Gentili
non solo contengono false e superstiziose finzioni... che ciascuno di noi,
nell'atto di uscire, guidato da Cristo, dalla società dei Gentili, deve
abominare... ma anche discipline liberali, assai vantaggiose alla verità, e
precetti di costumi, utilissimi... Ora codesto, quasi loro oro e argento...
nell'atto in cui si separa dalla loro miserabile società, deve il Cristiano
portar loro via " (Sant'AGOSTINO, De doctr. chr. 2,60).
6. - Il Cristianesimo,
nato in Oriente, si diffuse da prima fra gente di parlata greca. Anche in
Occidente i primi Cristiani furono reclutati tra immigrati orientali, che
parlavano greco. Del resto la lingua greca era da per tutto compresa e adoperata
accanto al linguaggio nazionale. Si comprende, pertanto, come questa lingua sia
stata la lingua prima della nuova religione e de' suoi primi documenti. In
greco leggevasi la Bibbia tradotta dai Settanta. In greco leggevasi il Nuovo
Testamento, in greco Paolo aveva scritto le sue Epistole. Anche in Africa, dove
la Letteratura latina cristiana primamente si sviluppò, q uesta fu nelle sue
origini di lingua greca. E quando la lingua latina si affermò (verso la fine
del secondo secolo), opere cristiane scritte in questa lingua venivano
contemporaneamente (come dimostra Tertulliano) composte anche in greco. Del
resto ben presto le principali produzioni dell'Oriente greco vennero tradotte
in latino: l'Epistola ai Corinti di Papa Clemente, il Pastore di Erma (fine
primo o inizio secondo secolo), la Didaché (fine primo o inizio secondo
secolo), il trattato d'Ireneo Contro l'eresie (secondo secolo) eccetera.
7. - Senonché, a mano a
mano che la nuova religione si estendeva e guadagnava proseliti, per coloro
che, meno dotti, non erano in grado di comprendere il greco, si resero
necessarie traduzioni della Bibbia in latino (il che avvenne nel corso del
secondo secolo). Se i traduttori dall'ebraico in greco erano numerabili, i
traduttori dal greco in latino diventarono ben presto innumerevoli
(Sant'AGOSTINO, De doctr. chr. 2,16). Ogni Comunità o gruppo di Comunità
possedeva versioni proprie, di vario valore: che durarono in uso anche dopo la
riforma geronimiana. Si trattava di versioni letterali, condotte per uno scopo
meramente pratico, senza ombra di preconcetto letterario. Tra le numerosissime
versioni latine della Bibbia, speciale importanza ebbe quella denominata Itala.
La conobbe Agostino durante il suo soggiorno in Italia, e l'adottò, ritenendola
superiore ai testi congeneri africani (De doctr. chr. 2,15). Ai primi monumenti
letterari cristiani latini sono ancora da aggiungere libri liturgici, il
Simbolo degli Apostoli, gli Atti dei Martiri (o Processi verbali del martirio,
redatti per uso e ricordo della Comunità).
A dare un'idea di questi Processi verbali
(non tutti di uguale valore), non sarà fuori di proposito riprodurre quello
riguardante i Martiri Scillitani, vale a dire il martirio incontrato il 17
luglio del 180 dai sei di Scilli, in Africa, sotto l'imperatore Commodo (Marco
Aurelio, l'imperatore filosofo, che quella persecuzione aveva iniziata, era
morto giusto quattro mesi prima). Chi codesta scrittura stese, lo fece senza la
più lontana ombra d'intento apologetico, per il solo scopo di conservare, nella
tradizione della Comunità, il ricordo dei Santi. La forma n'è al tutto
semplice, scarna, anzi monotona.
"Consoli Presente (questo per la
seconda volta) e Claudiano, il 17 luglio, a Cartagine, tradotti nella sala
delle udienze, Sperato, Nartzalo e Cittino, Donata, Seconda, Vestia, il
proconsole Saturnino disse: Voi potete meritarvi l'indulgenza dell'imperatore,
nostro signore, qualora mettiate giudizio.
Sperato disse: Non abbiamo fatto del male
mai; mai ci siamo prestati a ingiustizia; mai abbiamo detto parole ingiuriose,
anzi, maltrattati, abbiamo ringraziato: perciò noi rispettiamo il nostro
imperatore.
Il proconsole Saturnino disse: Noi anche
siamo religiosi e semplice è la nostra religione e giuriamo per il Genio del
nostro signore, l'imperatore, e facciamo suppliche per la sua salvezza: cotesto
dovete fare voi pure.
Sperato disse: Se mi presterai orecchio
paziente, ti espongo io il mistero della semplicità.
Saturnino disse: Tu ti accingi a dir male dei
nostri riti: non ti presterò orecchio. Giura piuttosto per il Genio del signor
nostro, l'imperatore.
Sperato disse: Io l'impero di questo mondo
non riconosco, ma servo piuttosto a quel Dio, che nessuno degli uomini vide, né
vedere può con questi occhi. Non ho commesso furto, ma, se compro qualche cosa,
pago la tassa, poiché riconosco il signor mio, il re dei re, l'imperatore di
tutte le genti.
Il proconsole Saturnino disse agli altri:
Smettete di essere dell'opinione di costui.
Sperato disse: Mala opinione è commettere
omicidio, dire falso testimonio.
Il proconsole Saturnino disse: Rinunziate
a partecipare alla pazzia di costui.
Cittino disse: Noi non abbiamo altri cui
temiamo, all'infuori del Signore Dio nostro, che è nei cieli.
Donata disse: Onore a Cesare come Cesare,
ma timore a Dio.
Vestia disse: Sono cristiana.
Seconda disse: Quello che sono, quello
voglio essere.
Il proconsole Saturnino disse a Sperato:
Persisti ad essere cristiano?
Sperato disse: Sono cristiano. - E tutti
consentirono con lui.
Il proconsole Saturnino disse: Volete
tempo a deliberare?
Sperato disse: In una cosa così giusta,
non vi è da deliberare.
Il proconsole Saturnino disse: Che cosa
c'è nella vostra cassa?
Sperato disse: I libri e le Epistole di
Paolo, uomo giusto.
Il proconsole Saturnino disse: Abbiatevi
trenta giorni di tempo; ricordatevene.
Sperato di nuovo disse: Sono cristiano. -
E con lui tutti consentirono.
Il proconsole Saturnino lesse dalla
tavoletta la - sentenza:
Sperato, Nartzalo, Cittino, Donata, Vestia,
Seconda, rei confessi di vivere secondo il rito cristiano, poiché offerta loro
la possibilità di ritornare al costume romano, hanno persistito nella loro
ostinazione, ordino che siano puniti di spada.
Sperato disse: Rendiamo grazie a Dio.
Nartzalo disse: Oggi, martiri, siamo in
cielo. Rendiamo grazie a Dio.
Il proconsole Saturnino fece annunziare
per mezzo del banditore: ho fatto condurre al supplizio Sperato, Nartzalo,
Cittino, Vestia, Donata, Seconda.
Tutti quanti dissero: Rendiamo grazie a
Dio. E così tutti insieme sono stati coronati e regnano col Padre, il Figliuolo
e lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen".
8. - Come s'è detto, a
non romperla definitivamente con la cultura dei secoli trascorsi costrinse
primo la quasi impossibilità di farlo, dato il passato di una nuova e numerosa
categoria di Convertiti, provenienti dalle classi più colte, i quali non
potevano spogliarsi dell'istruzione ed educazione della scuola, onde s'era per
tanti anni e per concorde esigenza della società nutrito il loro pensiero; poi
indusse la convinzione che, spogliata del caduco e dell'immorale, quella
cultura racchiudesse un tesoro, che non meritava di essere rigettato, di cui
anzi poteva utilmente avvalersi la nuova Cultura, nata con la nuova Religione.
Tanto più che la Letteratura pagana era arrivata a uno stato di vuoto
sconcertante (si pensi a Frontone, Apuleio, Gellio eccetera): unica
sopravviveva vitale la retorica, che di sé improntava tutte le forme dello
scrivere; ma che, lungi dal riempire quel vuoto, lo faceva maggiormente
risaltare entro la sua veste di puro formalismo.
Senonché quell'arte retorica, fine ultimo
della scuola, si rivelò ben presto preziosa, se volta ad un fine che non fosse
vano e fittizio. Ben presto la nuova religione ebbe a difendersi dagli assalti,
non solo dei potenti della Terra, ma, anche, di altri avversari, forniti di
altre armi. Se a far cessare (sia pure in parte o apparentemente) la pratica
della religione cristiana, potevano valere le persecuzioni e le condanne
capitali, per sradicarne la fede dalle intelligenze più colte, si rese
necessaria, e fu adoperata, un'altr'arma, quella della polemica orale e
scritta: onde la necessità di opporre per la difesa l'uso della stessa arma, la
confutazione e l'apologia. Per ciò stesso veniva dato alla nuova Letteratura un
contenuto di pensiero ben altrimenti solido e sostanzioso, e in processo di
tempo creavansi un Tertulliano, un Cipriano, un Ambrogio, un Agostino. Fu
appunto a metà del secondo secolo che la nuova religione prese ad essere difesa
dagli Apologisti: che, venuti dalla scuola, si avvalsero per la nuova battaglia
delle risorse della cultura antica; e agli avversari, sprezzatori delle
disadorne traduzioni bibliche, opposero scritti che s'imponevano alla
considerazione e alla stima generale per dei pregi, oltre che di pensiero, di
forma. Il che non fu scarso vantaggio. Come San Girolamo (s'è detto sopra),
anche Sant'Agostino confessa che in su le prime, quando attese a leggere la
Scrittura in latino, gli " parve indegna di essere comparata con la
dignità tulliana " (Conf. 3,9 ). E se ne sentì offeso e respinto. E
Lattanzio (Inst. 5,1,15) attesta: " Questa è sopra tutto la causa per cui
presso i sapienti e i dotti... la Scrittura Santa non trova credito, perché i
profeti hanno parlato in forma semplice e comune, come si fa col popoìo.
Pertanto sono disprezzati da coloro, i quali non vogliono udire o leggere
nulla, se non è elegante ed eloquente ". E Arnobio stesso (1,59) conferma
l'accusa di barbarismi e solecismi, onde sarebbe deturpata, secondo gli
avversari, la Sacra Scrittura. La preoccupazione dell'arte nelle opere dei
maggiori scrittori latini cristiani, se pur non disgiunta mai dalla visione del
fine ultimo, che è quello di illustrare, ammaestrare, combattere, è
costantemente presente. L'arte e la cultura pagana riecheggiano i loro scritti
da per tutto, spesso a quella attingendo senza nemmeno più veli, come dimostra
(per recare un esempio) il De officiis di Sant'Ambrogio, modellato su la
classica opera ciceroniana.
9. - Da non più di un
secolo la Letteratura latina cristiana è ritenuta degna dai filologi di essere
collocata accanto a quella profana, della quale è giustamente considerata
continuazione. Prima si affettava per essa disprezzo o compatimento, quasi che
dovesse interessare unicamente i teologi: eredità degli Umanisti, che, invasati
d'entusiasmo per la Letteratura latina classica, avevano giudicato sfavorevolmente
quella cristiana. Il che era ingiusto, se pur non poteva negarsi che la
preoccupazione della forma non fosse stata negli scrittori cristiani precipua,
più assai pensosi del contenuto che della lingua. Senonché oggi, a parte che
pur nelle valutazioni estetiche codesta separazione fra contenuto e forma ha
assunto ben altro valore come criterio di giudizio, non si troverà più studioso
alcuno, che prescinda dal valore estetico vero e proprio nel giudicare gli
scritti di un Girolamo, di un Ambrogio, di un Agostino: che degli espedienti di
espressione, appresi nella scuola, seppero valersi da maestri, talché non meno
dei loro predecessori classici, sono degni di essere reputati e chiamati grandi
scrittori. A parte, dunque, che la Letteratura cristiana é indissolubilmente
legata con la storia della più grande rivoluzione spirituale, che mai siasi
attuata nel mondo, qual è la trasformazione per mezzo del Cristianesimo
operatasi nella società universale: e con la storia delle lotte lunghe e
accanite combattute e degli ostacoli superati anche, e sopra tutto, con l'arma
della parola, in cui rifulsero difensori, non già di una tesi politica o di
interessi circoscritti, ma di postulati e interessi di portata assai più vasta
di quelli propugnati da un Demostene e da un Cicerone: a parte ancora che essa
Letteratura cristiana è indissolubilmente connessa con la storia civile e
politica, quale venne foggiandosi e radicalmente evolvendosi attraverso i
secoli che seguirono: la Letteratura latina cristiana deve considerarsi quale
continuazione inscindibile di quella profana, sia perché composta nella stessa
lingua, che, per opera sua, si continuò per l'eternità, sia perché si valse
delle stesse forme letterarie, consacrate ormai dall'uso di secoli, sia, in
fine, anche, perché dei tesori del pensiero profano si nutrì essa ai suoi fini,
ed efficacemente contribuì a conservarli e perpetuarli.
Enumerare gl'ingegni, che da un pezzo
ormai lavorano nel campo della Letteratura latina cristiana con non minore
interesse e scrupolo, che non si faccia da altri in quello della Letteratura
latina profana, sarebbe lungo. Anche, in servigio di essa, si sono curate
edizioni insigni di testi, con intento severamente critico. Se tale non può
dirsi la pur preziosissima raccolta del MIGNE (Patrologie Latine dalle Origini
al 1216, in 221 volumi in quarto, Paris 1844-55: nel 1862-64 furono publicati
ancora 4 volumi di indici), è tuttora in corso di publicazione il Corpus
Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum per cura dell'Academia Litterarum
Vindobonensis, che dovrà comprendere tutti gli scrittori ecclesiastici fino al
settimo secolo incluso.
10. - L'inizio della
vera e propria attività letteraria latina cristiana ci si appalesa con due
nomi, TERTULLIANO e MINUCIO FELICE: il secondo, autore di uno scritto
apologetico di grandissimo interesse. Si tratta di un breve dialogo in 40
capitoli, intitolato Octavius, scritto da un MINUCIO FELICE; dove in forma
eletta è da un Ottavio difesa la religione cristiana dalle accuse che ad essa
muove un non credente, Cecilio Natale. Intorno all'importante operetta si
muovono numerosi problemi, concernenti la patria degli interlocutori, la
condizione loro e l'intento dell'opera; e, sopra tutto, la priorità di tempo
fra essa e l'Apologetico di Tertulliano, con cui ha rapporti concettuali e
formali strettissimi. Il dibattito su codesto ultimo punto dura tuttora fra gli
studiosi; né pare siasi raggiunta una conclusione che appaghi. Se mi è permesso
esprimere semplicemente un'opinione, senza entrare nella difficile questione,
riterrei doversi propendere per la priorità dell'opera di Tertulliano:
rivelandosi egli tale personalità, da rendere difficile pensare che nel suo
Apologetico abbia riecheggiato lo scritto di un suo predecessore.
A Tertulliano pare che anche San Girolamo
conceda la priorità nella serie degli scrittori latini cristiani. Il quale
scrive (De vir. ill. 53): Tertullianus presbyter nunc demum primus post
Victorem et Apollonium ponitur. VITTORE nello stesso scritto geronimiano (34) è ricordato come
tredicesimo vescovo di Roma, che " avrebbe scritto su la questione della
Pasqua e altri opuscoli ". Circa APOLLONIO, che subì il martirio sotto
Settimio Severo (193-211), dai documenti che si conservano del suo martirio e
dalle testimonianze di Eusebio (Histor. eccles. 5, 21) e di San Girolamo (De
vir. ill. 42), non siamo in grado di affermare nulla nei riguardi del suo
scritto. A ogni modo, da come si esprime quest'ultimo, " Tertulliano viene
ora primo, finalmente " (vale a dire, dopo il lungo elenco di scrittori
ebrei e greci), non pare che egli abbia dubbi circa il collocare come primo
degli scrittori latini, in ordine di tempo (e d'importanza), Tertulliano: se
pure circa il tempo, in cui visse e scrisse Minucio Felice, non sembra aver
egli avuto idee molto sicure.
11. - QUINTO SETTIMIO
FLORENTE TERTULLIANO nacque, probabilmente, tra il 150 e il 160, a Cartagine,
città magnifica e doviziosa. Sorta, al posto dell'antica (distrutta dai Romani
nel 146 a.C.), da una colonia dedottavi da Cesare nel 44, era divenuta in breve
la città più importante della regione per il commercio e la magnificenza: ricca
di templi, di teatri, di bagni, di scuole, come si ricava dall'opera stessa di
Tertulliano. Quando e per opera di chi vi fosse stato introdotto il
Cristianesimo, non sappiamo: probabilmente la fonte risaliva a Roma. Però
quando nel 180 anche là si fece sentire la persecuzione, resa illustre dai
martiri di Scilli, i Cristiani erano in numero assai grande. Diciassette anni
dopo Tertulliano poteva scrivere: " Nei campi, nei castelli, nelle isole
si trovano Cristiani, di ogni sesso, di ogni età, di ogni condizione "
(Apol. 1,7). " Siamo di ieri, e già abbiamo riempito tutti i vostri luoghi,
città, isole, castelli, municipii, ... gli accampamenti stessi, ... il palazzo,
il senato, il foro: solo abbiamo lasciato a voi i templi " (ibid. 37,4). E
più tardi ancora, rivolgendosi al proconsole d'Africa, Scapula: "Se ti
piacerà di fare qui lo stesso (di quanto ha fatto in Asia Ario Antonino), che
farai di tante migliaia di uomini e di donne ... di ogni età, di ogni dignità,
che ti si presenteranno? Di quanti fuochi, di quante spade avrai bisogno? Che
patirà la stessa Cartagine, che tu dovrai decimare, quando ognuno riconoscerà
qui i suoi parenti, i suoi camerati, forse uomini del tuo ordine, e matrone...
e amici di tuoi amici? Risparmia dunque te stesso, se non noi. Risparmia
Cartagine, se non te stesso " (Ad Scap. 5).
Tertulliano, stando a San Girolamo (De
vir. ill. 53: cfr. Apol. 9,2), " figlio di un centurione proconsolare
", fu parte della sua vita pagano. Lo confessa egli stesso. Parlando di
rappresentazioni teatrali riprovevoli: " Ho veduto un tempo... e ho riso
", dice (Apol. 15,5). E parlando della nuova fede da lui abbracciata,
" Anch'io un tempo mi sono riso di tutto ciò. Sono uno dei vostri. Si
diventa, non si nasce cristiani " (ibid. 18,4). L'affermazione ritorna in
De testim. animae: " Diventare suole cristiana l'anima, non nascere
": che parrebbe contrastare con l'altra sua famosa, dell'"anima che è
naturalmente cristiana " (Apol. 17,6). Finalmente ancora (De paenit. 1,1):
" Codesta razza d'uomini, a cui in passato appartenni anch'io ".
Come sia avvenuta la sua conversione,
ignoriamo. Il che è quanto mai deplorevole: data la natura singolare dell'uomo,
un confronto con altre conversioni analoghe, con quella per esempio di
Sant'Agostino, sarebbe riuscito interessante. Una parte assai considerevole
nella sua conversione deve avere avuto il motivo intellettuale, il
ragionamento. Coloro che hanno parlato di lui, ne mettono in risalto la grande
cultura filosofica e giuridica, cultura che trova perfetto riscontro ne' suoi
scritti. Un'intelligenza acuta e raziocinativa come la sua, in possesso di una
così vasta conoscenza del pensiero antico, non poteva non convincersi che, di
fronte al nuovo Verbo del Nazareno, gran parte di esso pensiero diventava
insostenibile. Lo spettacolo, poi, meraviglioso di tante persone di ogni età,
di ogni sesso, di ogni condizione, che con indomito coraggio affrontavano
serenamente i più atroci supplizi in vista di una vita oltre la morte, che i
Saggi della sapienza corrente irridevano come sogno fatuo, lo persuase della
presenza di una forza sopranaturale in essi: e nel fatto stesso
dell'incontenibile propagarsi di una religione, che non godimenti prometteva in
questa vita, ma sacrifici e rinunzie (cfr. Apol. 39 e Ad Scap. 5). Onde
l'accento di sfida in lui: " Più ci mietete, più numerosi diventiamo: il
sangue dei Cristiani è semenza " (Apol. 50,13).
La nuova religione Tertulliano abbracciò
con entusiasmo. Difficoltà e pericoli indubbiamente non mancarono nemmeno a
lui, sebbene non ci consti che egli abbia dovuto patire in causa della
persecuzione. Che egli, però, fosse dispostissimo ad affrontarla senza
titubanze, fa fede il coraggio con cui la impugnò nel campo della discussione
aperta, dimostrandone l'ingiustizia e la inanità, contro la classe dotta del
suo tempo, in un momento in cui essa persecuzione infieriva nel suo stesso
paese.
Tertulliano fu prete (lo attesta San
Girolamo): ed ebbe moglie (lo dimostra un suo scritto diretto alla moglie).
Nella lotta in difesa del Cristianesimo egli portò " un temperamento di
fuoco " (la felice espressione è del BOISSIER, La fin du Paganisme, p.
222), che ignorò ogni compromesso con se stesso e con altrui, che lo portò a un
rigorismo spietato, così da impersonare quella tendenza, di cui abbiamo fatto
cenno, che non ammetteva possibilità di transigere come che fosse con la vita,
per molti aspetti, ancora necessariamente informata a costumanze pagane.
Su i cinquant'anni (pare) Tertulliano
passò alla setta dei Montanisti. Aveva questa avuto Origine nella Frigia, per
opera di un certo Montano, che era stato, si diceva, prima sacerdote di Cibele
e passava per invasato dallo Spirito Santo, per sua bocca rivelantesi al mondo.
Con Montano erano due donne, Priscilla e Massimilla, esse pure profetanti. Un
breve cenno di questa eresia, che, tra l'altro, impugnava la liceità delle
seconde nozze (onde, particolarmente, Tertulliano fu considerato eretico), si
legge in Sant'Agostino (De haeres. 86): donde si ricava che in Africa gli
adepti avevano finito per chiamarsi Tertullianisti, dal nome del più celebre
seguace della setta; e durante la vita di Agostino a Cartagine erano scomparsi.
Poiché la Chiesa di Roma contrastò l'eresia, Tertulliano assunse un
atteggiamento decisamente ostile al Cattolicesimo, contro il quale scrisse e
combattè.
La morte di Tertulliano, secondo la citata
testimonianza di San Girolamo, sarebbe avvenuta in estrema vecchiaia. Molto
egli scrisse. Undici dell'opere sue andarono perdute: trentuna ci sono
pervenute. Esse possono essere distribuite in Scritti apologetici, Scritti
contro le eresie, Scritti dogmatici, Scritti morali.
Appartengono alla prima categoria di
Scritti apologetici i seguenti:
1) Ad nationes (del 197). Non differisce
sostanzialmente dall'Apologetico, con cui ha molti argomenti in comune, spesso
sviluppati con le stesse parole. Vi si impugnano, come in quello, i costumi dei
Pagani, e si difendono quelli dei Cristiani.
2) Apologetico (se ne parlerà più avanti).
3) De testimonio animae (posteriore all'Apologetico). Si confermano le verità
cristiane attingendo le testimonianze dell'anima stessa (Apol. 17,4), dell'anima
naturalmente Cristiana)> (ibid. 6).
4) Ad Scapulam (del 212). Si esorta il "proconsole d'Africa, Scapula, a
desistere dalla persecuzione contro i Cristiani, dimostrandone l'ingiustizia e
minacciando al persecutore la punizione di Dio.
5) Adversus Judaeos (di prima del Montanismo). Vi si prova in base alle
profezie che i Giudei hanno torto a non credere che Cristo sia venuto ancora
(Apol. 21,15). Cristo è già venuto.
Alla seconda categoria degli Scritti
contro le eresie appartengono i seguenti:
1) De praescriptione haereticorum (di
verso il 200). Si impugna il diritto che gli eretici si arrogano di valersi
della Santa Scrittura per difendere i loro errori. La interpretazione di questa
spetta di diritto alla Chiesa fondata dagli Apostoli, dalla quale gli eretici
si sono distaccati.
2) Adversus Marcionem (di verso il 208; dell'opera, edita tre volte vivente
l'autore, possediamo l'ultima edizione). Si prova, contro l'avversario, che non
voleva riconoscere l'identità del Dio del Vecchio e del Nuovo Testamento, che
si tratta di un'unica divinità.
3) Adversus Hermogenem (del 200-206). Lo scritto è diretto contro un cattivo
pittore e cattivo filosofo, che faceva eterna la materia, come Dio.
4) Adversus Valentinianos (posteriore all'opera precedente). Tertulliano
motteggia sulle credenze dei seguaci dello gnostico Valentiniano, che a
spiegare la creazione ammetteva l'esistenza di esseri fantastici, gli Eoni.
Alla terza categoria degli Scritti
dogmatici appartengono i seguenti:
1) De Baptismo (anteriore al periodo
montanista). Vi si espone la intera dottrina del Sacramento di cui una certa
Quintilia aveva contestato la necessità.
2) Scorpiace (verosimilmente del 213).
3) Adversus Praxeam (del periodo montanista). Un tale Praxea sosteneva che il
Padre in persona era disceso nel grembo della Vergine, e da Essa era nato, ed
Esso aveva patito: insomma il Padre essere Gesù Cristo. Tertulliano ne confuta
l'eresia.
4) De carne Christi (forse del periodo montanista, anteriore allo scritto
seguente). Vi si dimostra che reale fu la carne, onde Cristo fu rivestito, e
che Egli l'ebbe da Maria. Questo alcuni eretici negavano.
5) De carnis resurrectione (forse del periodo montanista). Vi si difende la
realtà di questa resurrezione, in base al fatto che la carne merita di risorgere;
può, mercè l'onnipotenza di Dio; risorgere, deve risorgere.
6) De anima (del periodo montanista). Vi si discorre della natura dell'anima,
dei suoi predicati, onde provenga, quale ne sia la sorte dopo la morte.
Particolare notevole: Tertulliano crede in una certa corporeità dell'anima e ne
ammette il traducianismo.
Rientrano nella categoria degli Scritti
morali i seguenti:
1) De oratione (anteriore al periodo
montanista). Vi si commenta l'orazione domenicale e si discorre dell'efficacia
della preghiera e del modo con cui dev'essere fatta.
2) De paenitentia (di verso il 204). Vi si tratta della penitenza, alla quale
Dio condiziona la remissione dei peccati: di quella anteriore al battesimo e di
quella posteriore, qualora, dopo il battesimo, si sia peccato.
3) De pudicitia, composto contro un editto di Papa Callisto (217-222), che
concedeva il perdono ai peccati di fornicazione e di adulterio, peccati che il
montanista Tertulliano afferma non poter ottenere remissione.
4) De cultu feminarum (posteriore al De spectaculis). Vi si combatte
l'acconciamento delle donne, non conforme alla modestia cristiana.
5) De virginibus velandis. Lo scrittore, che vi si rivela montanista, esige che
alle fanciulle sia esteso l'uso, cui si conformavano le donne maritate, di
portare in chiesa il velo, come aveva prescritto l'Apostolo (Ad Cor. 1 2,5).
Tertulliano aveva trattato lo stesso tema anche in greco.
6) Ad uxorem (di fra il 203 e il 207). è un'esortazione alla moglie a non
rimaritarsi, nel caso che egli muoia; a non sposarsi, se mai, con un Pagano.
7) De exhortatione castitatis. L'autore, montanista, consiglia un amico,
rimasto vedovo, a non risposarsi (" il secondo matrimonio non merita di
essere chiamato altrimenti che una specie di stupro ": capitolo 9).
8) De monogamia (anche del tempo di Papa Callisto). Vi sono, secondo la
dottrina montanista, condannate le seconde nozze, contro l'opinione dei
Cattolici.
9) De ieiunio. Vi si difende il rigorismo dei Montanisti a proposito del
digiuno, contrapponendolo alla larghezza dei Cattolici.
10) Ad martyras (forse del 197). Vi si consolano i Cristiani che si srovnno in
prigione, e si esortano a mantenersi fermi nella professione della loro fede.
11) De patientia (del 202-203). La pazienza è per il Cristiano conseguenza
della sua fede, in quanto vale obbedienza a quello che Dio dispone. Di questa
virtù sono esposti i meriti e l'utilità.
12) De spectaculis (forse del 197). Gli spettacoli sono assolutamente
interdetti ai Cristiani, perché immorali, o perché connessi a una festa o a un
rito o a un luogo pagano.
13) De corona (del 211). In occasione della distribuzione di un donativo ai
soldati, uno di questi si presentò a riceverlo tenendo la corona in mano, non
sul capo, come voleva il costume, scusandosi col dire che era cristiano.
Tertulliano difende contro le altrui critiche l'operato del soldato.
14) De fuga in persecutione (del periodo montanista). Tertulliano afferma la
illiceità della fuga durante la persecuzione.
15) De idololatria. Secondo Tertulliano montanista, peccano di idolatria quanti
servono in qualche modo al culto degli dèi: astrologhi, maestri di letteratura,
fabricatori e negozianti di idoli. La necessità di guadagnarsi la vita non
scusa.
16) De pallio (forse del 209-211). Si tratta di uno scritto di Tertulliano
montanista molto discusso e d'interpretazione oscura. Per marcare il proprio
mutamento spirituale, il proprio distacco dal mondo, Tertulliano aveva mutato
la toga romana con il pallio greco.
12. - Tocchiamo ora
dell'opera, contenuta nel presente volume. Il WALTZING è d'opinione (come si
ricava, secondo lui, dall'Apologetico) " che una legge speciale... emanata
sotto Nerone (Apol. 4,4 e 5,3), rinnovata o confermata a più riprese nel corso
dei due primi secoli (ibid. 2,6 e 5,4), vietava sotto pena di morte la
professione del Cristianesimo: non licet esse vos ". Dal rescritto (che
abbiamo sopra riportato a p. x) di Traiano alla lettera di Plinio, appare che
questo imperatore introdusse un'attenuazione nella prassi, sebbene (come rileva
nella sua Apologia, 2,6 sg. Tertulliano) egli cadesse in una ben strana
contradizione. 'O i Cristiani erano colpevoli: in tal caso perché non si
dovevano ricercare? O non lo erano: perché allora si dovevano condannare?'. Nel
197 (imperatore Settimio Severo) in Cartagine la persecuzione aveva preso a
infierire. Le prigioni erano piene di Cristiani. Tertulliano, dopo averli
rincorati con lo scritto Ad martyras e avere composto il trattato Ad nationes,
per difendere la religione cristiana di fronte ai pagani, scrisse
l'Apologetico, che vuole essere un'arringa diretta ai governatori e ai giudici,
i quali il diritto di difesa non concedevano ai Cristiani tradotti davanti a
loro. Quello, pertanto, che i Cristiani accusati non potevano dire, dice in
questo discorso Tertulliano, passando in rassegna la massa delle accuse a loro
rivolte. Senonché l'oratore non si limita a confutare le accuse, a difendere
gli accusati: ma le accuse ritorce, ma gli accusatori provoca e sfida, mettendo
a nudo l'assurdità della loro religione (10-15), la disonestà dei loro costumi,
provando che proprio essi sono rei delle nefandezze che attribuiscono ai
Cristiani (6-9), la loro stessa impotenza, se i Cristiani un brutto giorno,
invece di rispondere alle ingiuste persecuzioni col perdono, si contassero e
reagissero (37,3). E codesto fa, non invocando l'autorità di un partito, di una
dottrina filosofica: sì in nome della Verità, della sua persona stessa, che
espone alla vendetta; in nome della sua altezza morale, in una parola, della
sua superiorità intellettuale e spirituale. Onde il fascino, che da questo
scritto emana, e l'ammirazione, di cui fu per tutti i secoli circondato.
Indubbiamente, anche per quel che concerne
le argomentazioni dell'Apologetico, ad apprezzarle al loro giusto valore, si dovrà
non prescindere dal criterio storico. Per esempio la parte che riguarda le
assurdità e la insostenibilità della religione e ideologia pagana, è certo roba
sorpassata. Anche: sopra tutto nelle ritorsioni, la logica non è sempre
serrata; talora tradisce lo sforzo. Né mancano ingenuità, come certe operazioni
attribuite ai dèmoni (22). Ma giudicato nel suo complesso, l'Apologetico è un
modello di argomentazione forense, quale risonò di rado anche sul labbro dei
più grandi oratori. La conclusione di Tertulliano che semenza sarebbe stato il
sangue dai martiri versato (50,13), ebbe la consacrazione del tempo futuro.
Venendo a toccare della forma dell'opera
tertullianea, avrebbe torto chi volesse giudicarne lo stile e la lingua con i
criteri della prosa ciceroniana e quintilianea. Egli se ne discosta molto: non
tanto, direi, per quanto concerne i costrutti sintattici, quanto per il
significato assunto da molte parole, lontanissimo ormai dall'originario, vuoi
per una evoluzione naturalmente subita, vuoi per una decisa volontà dello
scrittore, che a quel significato le torce. Per questo rispetto, non solo
Minucio, ma Cipriano e Agostino, pure africani, sono assai meno lontani di lui
dalla buona lingua. Indubbiamente il suo scrivere risente, più che della scuola
di retorica, da cui egli proveniva, e della regione, ov'era nato, della sua
forte personalità. Per questo il suo periodo torna spesso difficile e oscuro:
lo riconosce pure Lattanzio (Inst. 5,1,23: in eloquendo parum facilis... et
multum obscurus). Ma chi lo scrivere di Tertulliano esamini con criterio meno
rigoroso e lo scrittore collochi nella sua giusta luce, non potrà non perdonare
quell'oscurità, che consegue anche spesso dal suo particolare temperamento,
ardente e aggressivo, sprezzatore del puro formalismo inteso ad accarezzare
l'orecchio; e ammirare quel suo nerbo e impeto e vigore, quella sua fede
ardente e sincera, quella sua anima eroica, che si trasfonde nell'espressione
senza sottintesi o residui.
Dei giudizi di coloro che vissero non
molto dopo Tertulliano, merita di esser ricordato quello di EUSEBIO, che lo
disse " versatissimo nelle leggi romane e famoso nel resto e dei più
illustri a Roma " (Hist. ecclestast. 2,24). " In ogni campo delle
lettere competente ", lo dice LATTANZIO (Inst. 5,1,23); " d'ingegno
acuto e impetuoso " San GIROLAMO, che narra come San Cipriano non soleva
passare giorno senza leggere sue opere; e per farsi dare dal segretario il suo
autore, gli diceva: " Dammi il maestro " (De vir. ill. 53). "
Eloquentissimo " lo chiama Sant'AGOSTINO (De haeres. 86).
13. - Fatto insolito e,
forse, unico nella tradizione delle opere letterarie, per l'Apologetico abbiamo
due tradizioni manoscritte distinte, nel senso che in esse si rilevano
divergenze e differenze sostanziali, da non potersi spiegare che con l'ipotesi
di una edizione nuova, ritoccata dallo stesso scrittore. L'una tradizione è
rappresentata da una trentina di manoscritti; l'altra da un manoscritto unico,
quello che fu per molti anni conservato nel monastero benedettino di Fulda fino
al secolo 12esimo. Di esso, che conteneva l'Apologetico e il Contra Judaeos, si
è conservata la collazione riguardante l'Apologetico fatta nel 1584 dal Modius
(Francois de Maulde, 1556-1597). La questione riguardante il modo di formazione
di queste due tradizioni manoscritte, è tuttora dibattuta e non risolta.
L'opinione dei più è che Tertulliano abbia
curato una sola edizione del suo scritto. La grande ammirazione suscitata e la
vasta lettura potrebbe, fino a un certo punto, spiegare come l'opera abbia
potuto subire, per parte di lettori più o meno competenti, rimaneggiamenti e
modificazioni. Per le due tradizioni distinte si pronunzia il WALTZING, per le
due tradizioni, risalenti, però, a Tertulliano stesso, il THÖRNELL, il PASQUALI,
l'HOPPE, con considerazioni che appaiono gravi. La forma conservata dal codice
Fuldense si presenta, di solito, come la più corretta, e di esso mi sono valso
qua e là anch'io. Certo è che un testo che pienamente sodisfi ancora non
abbiamo.
14. - Il testo della
presente edizione non differisce molto da quello della Vulgata, da me
generalmente seguito: ho, però, talora variata l'interpunzione, introdotto
qualche emendamento, e accolto lezioni del codice Fuldense, che inclinerei io
pure a credere risalga a una ulteriore recensione tertullianea. La traduzione
ho cercato rendesse, non solo il pensiero, si anche il nerbo dell'oratore: e il
commento, sopra tutto nella parte informativa e illustrativa, ho voluto fosse
il più abbondante possibile (le citazioni debbo in gran parte all'OEHLER,
Tertulliani quae supersunt omnia, tomus 1, Lipsiae 1853, p. 3 sg., al RAUSCHEN,
Tertulliani Apologetici Recensio nova, Bonnae 1912, al WALTZING, L'Apologétique
de Tertullien, traduction littérale suivie d'un commentaire historique
eccetera, Louvain 1911; Tertullien, Apologétique, Commentaire analytique,
grammatical et historique, Liège-Paris 1919, al COLOMBO, L'Apologetico, Società
Editrice Internazionale, Torino 1915, all'HOPPE, Q. Septimi Florentis Tertulliani
Apologeticum (CSL), Vindobonae 1939, i passi citati riscontrando e riportando
per intero). Habent sua fata libelli. Se penso al momento, in cui questa mia
lunga fatica esce alla vita, oso credere che il suo destino sarà quale m'illudo
di presentirlo.
ONORATO TESCARI.
Roma, 3-6-1951.
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