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Quinto Settimio Florente Tertulliano Apologetico IntraText CT - Lettura del testo |
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CAPO 25 -- Non all'opera degli dei è debitrice Roma della sua grandezza, ché l'origine di quelli è posteriore alla origine di Roma. La quale, inoltre, distrusse le città, dove vigeva il culto di quelli. [1] Ma abbastanza prove della falsa e della vera divinità sembrami avere addotto, dimostrando come le prove non solo su ragionamenti si fondino, né solo su argomenti, ma anche su testimonianze di quelli stessi, che ritenete dei; talché di ritornare non c'è bisogno più sopra questa questione. [2] Ma poiché interviene la menzione particolarmente della gente romana, non tralascerò la discussione provocata dalla presunzione di coloro, che affermano i Romani per merito della loro religiosità diligentissima essere tanto in alto saliti, da occupare il mondo; ed essere tanto vero che gli dei esistono, che più degli altri prosperano coloro, che più degli altri sono verso di essi riguardosi. [3] Già: codesta ricompensa è stata alla gente romana per gratitudine pagata dagli dei romani! è stato Sterculo e Mutuno e Larentina ad estendere l'Impero! Ché non vorrei credere che degli dei forestieri abbiano voluto che codesto a una gente straniera capitasse, piuttosto che alla propria; e che il patrio suolo, in cui sono nati, cresciuti, nobilitati e sepolti abbiano ceduto a gente d'oltremare. [4] Se la veda Cibele, se alla città romana si è affezionata, in ricordo della gente troiana, da essa protetta contro le armi degli Achei, in quanto, si capisce, del suo paese: voglio dire, se provvide a passare dalla parte dei vendicatori, cui sapeva che avrebbero la Grecia soggiogato, debellatrice della Frigia. [5] Essa, dunque, trasportata nell'urbe, una grande prova della sua maestà anche ai nostri giorni rivelò: quando, essendo stato Marco Aurelio strappato allo Stato a Sirmio il 17 marzo, quell'archigallo veneratissimo il 24 dello stesso mese, in cui di sangue impuro faceva libagioni, incidendosi anche le braccia, i soliti ordini di pregare ugualmente diede per la salute dell'imperatore Marco, già morto. [6] O messi tardi, o dispacci sonnolenti, per cui colpa Cibele la morte dell'imperatore prima non conobbe, per impedire che i Cristiani di una tale dea ridessero! [7] Ma nemmeno Giove avrebbe dovuto senz'altro permettere che la sua Creta dei fasci romani il colpo subisse, dimenticando quell'antro dell'Ida e i bronzi dei Coribanti e quel dolcissimo odore colà della sua nutrice! Non avrebbe egli dovuto preferire quel suo sepolcro a tutto il Campidoglio, affinché sul mondo quella terra piuttosto dominasse, che le ceneri coperse di Giove? [8] Avrebbe mai potuto Giunone volere che distrutta fosse la città punica, da lei amata e preposta a Samo, proprio dal popolo degli Eneadi?. Che io sappia, " Là erano le sue armi. Là il suo cocchio: che qui l'impero fosse sopra le genti, Se i fati lo permettessero, già fin d'allora essa tendeva e si sforzava ". Quella povera sposa e sorella di Giove forza non ebbe contro i destini. è vero: Giove stesso sottostà al fato. - [9] Ma tuttavia i Romani non attribuirono ai fati, che loro consegnarono Cartagine contro la decisione e i desideri di Giunone, tanto onore, quanto a quella prostitutissima meretrice di Larentina. [10] è sicuro che parecchi dei vostri dei furono re. Orbene, se il potere possiedono di conferire un regno, quando regnarono essi, da chi quel beneficio ricevettero? Chi Saturno e Giove avevano venerato? Uno Sterculo, penso. Sennonché questa divinità, insieme con le relative formule di preghiere, venne in Roma più tardi. [11] Ma anche se alcuni non furono re, tuttavia erano sotto il regno di altri non ancora loro adoratori, dapoiché non ancora dei erano essi ritenuti. Dunque ad altri si appartiene concedere il regno, giacché molto prima si regnava che di questi dei si scolpissero le immagini. [12] Ma quanto vano non è mai la grandezza della gente romana attribuire al merito della religiosità, dal momento che dopo la costituzione dell'impero - o meglio tuttora del regno - si sviluppò la religione! Infatti, sebbene da Numa la mania delle pratiche superstiziose sia stata concepita, tuttavia il culto tra i Romani non ancora di simulacri o di templi risultava. [13] Religione frugale e riti poveri e nessun Campidoglio dagli edifici in gara di toccare il cielo; ma altari casuali, fatti di zolle, e vasi ancora di Samo e un fumo sottile: in nessun luogo la persona stessa del dio. Non ancora infatti a quel tempo ingegni di Grecia e di Toscana avevano l'urbe inondata con la fabrica di loro simulacri. Perciò i Romani non furono religiosi prima che grandi; perciò non per questo grandi, perché religiosi. [14] Anzi come mai grandi per la loro religiosità essi, cui per la loro irreligiosità derivò la grandezza? Se non m'inganno, infatti, ogni regno o impero con le guerre si conquista e con le vittorie si estende. D'altra parte guerre e vittorie di città prese e abbattute per lo più risultano. Codesta faccenda senza offesa degli dei non torna: le stesse le distruzioni di mura e di templi, pari di cittadini e di sacerdoti le stragi, e non dissimili delle ricchezze sacre e profane le rapine. [15] Pertanto tanti i sacrilegi dei Romani, quanti i trofei; tanti i trionfi sopra gli dei, quanti sopra i popoli; tante le prede, quanti i simulacri, che tuttora rimangono, degli dei tratti in prigionia. [16] Orbene, tollerano di essere dai loro nemici adorati, anzi un impero senza termine concedono a coloro, di cui le offese, più che le adulazioni, avrebbero dovuto rimunerare? Vero è che esseri, i quali nulla sentono, altrettanto impunemente offendere si lasciano, quanto inutilmente adorare. [17] Certo non si può convenientemente prestar fede che appaiano essere per merito di loro religiosità cresciuti coloro, che, come abbiamo esposto, offendendo la religione crebbero o crescendo la offesero. Anche quei popoli, i cui regni nel complesso dell'impero romano confluirono, quando questi regni perdettero, senza instituzioni religiose non erano.
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