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Platone
Il Timeo

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XXIX.

 

Ella è cosí per li sapori. Per ciò che tocca all'olfatto, non vi ha specie; imperocché essendo ogni odore una cotal natura mezzana, nessuna specie è che possa fare odore. Per certo le nostre vene dell'odorato son fatte cosí, che elle molto sono strette alla terra e all'acqua, e molto sono larghe al fuoco e all'aria; onde niuno mai non sentí odore di niuno di questi corpi. E ogni volta nascono gli odori o da cosa ammollita, ovvero fradicia, ovvero liquefatta o isvaporata; perciocché in quel mezzo nascono che l'acqua trapassa in aria, e l'aria in acqua. E sono tutti gli odori fumo o nebbia: aria che torna in acqua, è nebbia; acqua che torna in aria, è fumo: onde tutti gli odori son piú fini che acqua, e piú crassi che aria. E ciò è manifesto quando alcuno, essendo il respiro suo impedito, tragga con forza entro sé l'aria; perciocché allora non viene odore niuno, ma schietta aria privata d'ogni odore. Sono adunque negli odori queste due innominate variazioni, non fatte di specie molteplicisemplici; ma i due odori, lo aggradevole e il disaggradevole, soli essi ricevettero nome, perocché molto notabili: l'un che rabbrusca e viola tutto il cavo ch'è fra il cocuzzolo e l'ombelico, l'altro che lo addolcia e soavemente rendelo di nuovo nel suo essere naturale.

Riguardando alla terza potenza sensitiva ch'è in noi, cioè quella dell'udito, è a dire per quali cagioni avvengano le passioni sue. Noi poniamo universalmente il suono essere percossa, dall'aria comunicata all'anima per li orecchi, il cervello ed il sangue: e il movimento che a quella segue, il quale comincia dalla testa e finisce alla sede del fegato, essere ciò che detto è udito: e il movimento veloce essere suono acuto; quello piú lento, grave: e quello ch'è simile, uguale e dolce; il contrario, aspro: e il molto, grande; quel che no, piccolo. Della concordanza dei suoni a quell'ora si ha a dire, quando si dirà di altre cose che seguitano appresso.

 

 




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