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Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino
La Sicilia nel 1876

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  • LIBRO PRIMO   CONDIZIONI POLITICHE E AMMINISTRATIVE DELLA SICILIA
    • Capitolo II. CENNI STORICI
        • § 38. — Il feudalismo e i Parlamenti Siciliani.
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Capitolo II.

CENNI STORICI

 

 

 

§ 38. — Il feudalismo e i Parlamenti Siciliani.

Tale è la prima impressione di chi è venuto dal Continente a visitare la Sicilia. Però, se dopo calmata la prima sorpresa, egli torna colla mente sulle cose vedute e sentite, a cercare il filo che lo conduca attraverso quell’infinita confusione di fatti; se egli ricerca la loro origine nel passato, e, nel presente, le cagioni che li fanno perdurare, li vede gradatamente ordinarsi: ognuno prende il suo posto, e finalmente si spiega dinanzi a lui un quadro che, se non è bello, almeno è chiaro, distinto ed ordinato, e gli speranza che si possano forse trovare rimedi a mali, le cui cagioni appariscono tanto evidenti. Noi cercheremo adesso di esporre le ragioni dello stato attuale della Sicilia quali ci sono apparse, e se abbiamo errato nel vedere o nell’apprezzare i fatti, ci consoleremo pensando che non sia stata opera del tutto inutile quella che avrà dato a persone meglio informate e più perspicaci di noi, l’occasione di manifestare innanzi all’Italia quella verità, nella ricerca della quale avremo fallito.

L’anno 1812 trovò la Sicilia in piena feudalità e di diritto e di fatto. La massima parte delle terre erano di Signori feudali laici ed ecclesiastici, la maggior parte dei suoi abitanti anche quando possessori di beni liberi e allodiali,26 erano vassalli, cioè sottoposti nelle sostanze, nella libertà e, nel più dei casi anche nella vita, all’arbitrio del Signore. Difatti, la facoltà di tassare i propri vassalli in ogni maniera era, nel fatto, illimitata e duramente abusata dai baroni27. Il diritto d’appello ai tribunali regi era nel fatto illusorio28. La massima parte dei baroni possedeva sui propri vassalli la giurisdizione civile e criminale alta e bassa o per concessione graziosa, o per usurpazione, o per le vendite fatte di tali diritti specialmente sotto Filippo III e IV di Spagna29. Il Parlamento per quanto potesse essere un mezzo di difesa e di resistenza alla nobiltà e al clero di fronte a regnanti stranieri, non era di nessuna garanzia per la gran massa del popolo. Per l’antica costituzione di Sicilia, dice il Palmieri: «l’autorità del Principe era limitata senza che il popolo fosse libero.30» Il Parlamento era composto di tre bracci: l’ecclesiastico, il baronale, il demaniale. Nel primo sedevano in virtù del loro ufficio gli arcivescovi, vescovi, abati e priori di jus patronato regio31. Nel braccio militare o baronale sedevano in virtù del loro feudo i titolati, baroni, i Signori di vassalli e i feudatari obbligati al servizio militare32. Nel braccio demaniale sedevano i procuratori eletti dalle università, città, terre o luoghi, che erano immediatamente sotto il Regio dominio33. Ogni università non mandava più di un Procuratore34, il quale veniva eletto dal Consiglio del Municipio35. Il braccio demaniale era dunque la sola parte del Parlamento che provenisse da elezione e ne formava l’infima minoranza. I membri del braccio ecclesiastico erano 6336. Quelli del braccio militare erano 22837. Le università componenti il braccio demaniale erano 43 alla metà del secolo XVIII38.

Per approvare i sussidi (i quali avevano nome di Donativi), era necessaria la maggioranza dei voti. Però, il braccio ecclesiastico aveva diritto di veto39, e doveva concorrere il voto di due bracci40. Ma in ogni maniera, il braccio demaniale era in minoranza di fronte ai due altri che avevano interessi analoghi fra loro e che, pure possedendo la quasi totalità delle ricchezze dell’Isola, pagavano la minima parte di quei sussidi che votavano.41 Il braccio ecclesiastico discuteva e votava i sussidi e non vi contribuiva, in regola generale, che per un sesto del loro valore42. Il braccio baronale, in regola generale, non contribuiva ai sussidi43; e pagava solamente le imposte dovute in virtù del diritto feudale al sovrano quale concessore del feudo.

Il Parlamento dunque non era altro che un mezzo che avevano i baroni di farsi valere rimpetto al monarca coi denari del terzo stato, e difatti, la nobiltà era il solo elemento tenuto in conto in Sicilia dal Governo spagnuolo. Fino sotto il Regno del primo Ferdinando Borbone, i vicerè di Sicilia si regolavano colle istruzioni del conte di Olivarès, nelle quali era detto loro: «Coi baroni, siete tutto, senza di essi, non siete nulla44».

 

 




26 Vedi: Orlando, Il feudalismo in Sicilia, pag. 158, Palermo, 1847. — Su tale argomento però quest’opera contiene una contraddizione almeno apparente. Mentre a pag. 158 l’autore dichiara esplicitamente, appoggiandosi ai documenti, che i monopolii, le tasse e servizi feudali erano dovuti dai borgesi, in virtù di un diritto «nascente non dalla proprietà materiale delle terre feudali, ma dal dominio eminente della Signoria tramandato dalla concessione del Principe»: più sotto, a pag. 273, dice che «i borgesi erano i semplici cittadini, i quali tranne la soggezione del Governo e delle leggi comuni, vivevano nella piena libertà delle loro persone e delle loro proprietà, senza dipendenza feudale». Ma, poichè l’autore, ad appoggio di questa sua seconda asserzione non cita che documenti i quali si riferiscono a Palermo, città demaniale, è lecito conchiudere che ciò che dice in questo secondo passo si riferisce ai borgesi delle città demaniali, mentre ciò che dice a pag. 158 si riferisce ai borgesi possessori di beni allodiali, ma compresi nei territori sottoposti a Signori feudali.



27 Vedi: Orlando, op. cit., cap. VII, §§ 2, 3, 4, 5, 6 e specialmente a pag. 171.



28 Vedi: La Lumia, La Sicilia sotto Carlo V imperatore (Studi di Storia Siciliana, vol. II, pag. 76). — Ciò che ivi dice l’autore si riferisce agli ultimi del secolo XV. Ma la politica dei sovrani sempre meno energica di fronte ai Signori feudali non permette di supporre che l’azione della giustizia regia sia stata in seguito resa più efficace.



29 Vedi: Orlando, op. cit., cap. VII, §§ 7, 8; specialmente a pagg. 193, 194. — Vedi pure: Palmieri, Saggio storico e politico sulla costituzione del Regno di Sicilia, pag. 65. Losanna, 1847.



30 Palmieri, op. cit., pag. 69.



31 Mongitore, Parlamenti generali del Regno di Sicilia, vol. I, pag. 58. Palermo, 1749.



32 Mongitore, loc. cit.



33 Mongitore, loc. cit.



34 Mongitore, op. cit., vol. I, pag. 59.



35 Orlando, Commento storico alla Costituzione Siciliana del 1848, pag. 38.



36 Mongitore, op. cit., vol. I, pag. 66.



37 Mongitore, op. cit., vol. I, pag. 67.



38 Mongitore, op. cit., vol. I, pag. 70.



39 Mongitore, op. cit., vol. I, pag. 76-77.



40 Palmieri, Saggio storico e politico sulla costituzione del Regno di Sicilia, pag. 72.



41 La Lumia, La Sicilia sotto Carlo V imperatore (Studi di Storia Siciliana, vol. II, pag. 69). Palermo, 1870.



42 Mongitore, op. cit. vol. I, pag. 77.



43 Vedi gli Studi di Storia siciliana di La Lumia, vol. II, pag. 69, nel saggio intitolato: La Sicilia sotto Carlo V imperatore. E vol. II, pag. 571, nel saggio intitolato: Il vicerè Domenico Caracciolo. — Difatti i donativi ordinari che ciascun Parlamento soleva fare e che erano al solito: il donativo al Re per farne ciò che volesse, e quelli per le fortificazioni del Regno (cioè dell’Isola) per i RR. Palazzi del Regno, per i Ponti, per le Torri, per le RR. galere e pei Ministri del Consiglio Supremo d’Italia a Madrid (vedi Mongitore, op. cit., passim; e specialmente vol. I, pagg. 200, 275, 349, 441, 453) non gravavano sui baroni. Gravavano bensì sul braccio militare, ma con questa denominazione erano indicate le università e terre sottoposte a baroni non i baroni stessi, tanto è vero che il Parlamento provvede che le gabelle da imporsi per fornire il donativo non siano, nelle terre baronali, «in pregiudizio delle gabelle dei baroni» (cioè delle gabelle imposte alle medesime dai baroni) (Mongitore, vol. I, pag. 271), e più oltre, che tali gabelle debbano pagarsi da tutti nemine exempto etiam li feudatari che non sono obbligati al servizio militare (Mongitore, loc. cit.). I quali sono chiamati anche feudatari di beni burgensatici (Mongitore, vol. I, pag. 200 e Orlando, Il feudalismo in Sicilia, pag. 268, nota 8), il che esclude che vi dovessero contribuire i feudatari astretti al servizio militare. Nei donativi straordinari poi, che si rinnovavano quasi ogni anno, il Parlamento deliberava volta per volta che vi dovessero contribuire i titolati colla riserva però sempre ripetuta in termini identici «e questo, per questa volta tantum e senza che mai si possa portare a conseguenza per altra simile urgente e propria necessità», la quale riserva non è fatta per le altre categorie di persone tassate. La proporzione poi di questi donativi che si assumevano i nobili era minima e fuor di proporzione colla loro ricchezza, e variava, almeno dal secolo XVII in poi, da 1/4 a 1/10 dell’intero donativo. (Mongitore, op. cit., passim; e specialmente vol. II, pagg. 41-86).

 

 



44 Palmieri, Saggio storico e politico sulla costituzione del Regno di Sicilia, pag. 69.






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