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Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino
La Sicilia nel 1876

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  • LIBRO PRIMO   CONDIZIONI POLITICHE E AMMINISTRATIVE DELLA SICILIA
    • Capitolo II. CENNI STORICI
        • § 45. — Opera ed effetti del regime Borbonico dopo il 1815.
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§ 45. — Opera ed effetti del regime Borbonico dopo il 1815.

Stando le cose a quel modo non era delle più facili l’opera di un Governo che avesse voluto continuare e rendere efficace l’opera delle riforme del 1812, anche quando si fosse prefisso esclusivamente siffatto scopo ed avesse potuto disporre di un personale intelligente, onesto, energico e sicuro. Però, molto avrebbe potuto ottenere. Non sarebbero mancati i mezzi, almeno indiretti, per rendere efficace la legislazione economica e giuridica. Ma l’opera loro sarebbe stata lentissima. L’azione del Governo avrebbe però potuto essere più pronta ed efficace a modificare quelle relazioni sociali, che non fossero d’indole esclusivamente economica. Un’amministrazione coscenziosa ed energica della polizia e della giustizia avrebbe potuto sostituire alla preponderanza della forza individuale quella della legge, ed imprimere nelle menti e negli animi il concetto ed il sentimento di un’autorità sociale, e questo sarebbe stato il principio ed il fondamento indispensabile del mutamento delle condizioni generali.

Ma il Governo borbonico fallì quasi del tutto in siffatta impresa. Fu da lui continuata, è vero, la riforma economica nella legislazione. La giustizia e l’amministrazione furono ordinate secondo le forme moderne.85 Ma tutti quei provvedimenti influirono poco sulla sostanza delle relazioni economiche e sociali dell’Isola, e ne mutarono più che altro l’apparenza esterna. I loro effetti furono superficiali. Poca fu la divisione della proprietà e della ricchezza malgrado i provvedimenti che la favorirono. Furono poco efficaci a questo fine l’abolizione dei fidecommessi86; il diritto concesso ai cadetti degli ex-feudatari di esigere da questi in piena proprietà tanta parte dell’ex-feudo che corrispondesse al capitale della loro vita milizia87; la soppressione del diritto di reversione delle doti di Paraggio a favore degli ex-feudi88; la liberazione forzosa dei fondi sottoposti a diritti promiscui (ossia servitù di legnatico, pascolo, ecc.) quando fra i titolari di codesti diritti vi fossero Comuni89; il valore di queste servitù compensato con tanta parte del fondo prima gravatone90, e non più in denari, come era stato stabilito nel 181291; la legge del 10 febbraio 1824 che obbligava i proprietari ad assegnare degli immobili in pagamento di taluni loro debiti.

Ed era difficile che avvenisse altrimenti, rimanendo il commercio e l’industria in condizioni poco dissimili da quelle di prima. Imperocchè, nel periodo dal 1816 al 1860, crebbe, è vero, in modo sensibile l’industria della estrazione degli zolfi, e crebbe pure l’industria della fabbricazione dei vini di Marsala, nata in sul principio del presente secolo. Ma di altre industrie si poteva appena parlare, se si toglie l’estrazione di qualche scarsissimo prodotto minerale, e la fabbricazione del sale marino nei dintorni di Trapani ed in alcuni altri punti della costa. L’agricoltura conservava nella massima parte dell’Isola la sua forma più semplice e primitiva: granicoltura e pastorizia. D’altra parte, mancavano le comunicazioni interne nell’Isola, quelle del Continente erano scarse; durava un sistema di protezionismo commerciale; entrava nella politica del Governo borbonico l’impedire il più possibile i viaggi; ogni manifestazione di attività poteva diventar sospetta.

Per modo che la classe media cresceva, è vero, di numero, specialmente nelle grandi città marittime, dove si concentrava il poco commercio dell’Isola, e nei loro dintorni, dove la vicinanza di un centro popoloso e le facilità maggiori per la esportazione rendevano proficua una coltura del suolo più perfezionata; ma questo accrescersi non era tale da potere imprimere alle relazioni sociali nell’Isola quei caratteri che sono propri della società, dove predomina la classe media. D’altra parte, le condizioni generali dell’agricoltura duravano se non uguali almeno molto somiglianti a quelle di prima. Se la produzione era un poco aumentata, i sistemi di coltura e di contratti agricoli rimanevano gli stessi, e rimanevano come prima di fronte ai grandi proprietari e ai grandi fittaiuoli, i contadini quasi tutti assolutamente proletari e senza speranza di migliorare la loro condizione, fuorchè per qualche caso strano. Le fortune cambiavano è vero di mani più facilmente che sotto il regime feudale, ma era sempre scarsissimo il numero di coloro cui era accessibile la ricchezza.

Non era dunque avvenuto nelle condizioni generali dell’Isola alcun mutamento radicale, atto ad imprimere nuovo carattere alle relazioni sociali, togliendo la preponderanza alla forza e alla prepotenza personale.

era la pratica di governo dei Borboni atta ad operare siffatto mutamento. Autore di una legislazione buona in molte parti, in alcune ottima, questo Governo era il primo a violarla e a toglierle efficacia. Perchè all’atto pratico, il suo fine unico ed esclusivo era la propria conservazione o almeno ciò che considerava come tale. A questa era sacrificata ogni cura di buon governo: paese e popolazione erano considerati come una proprietà materiale, che conveniva ritenersi con ogni mezzo. Laonde, al minimo sospetto di liberalismo o di opposizione qualsiasi, la legge spariva per far luogo alla volontà del Governo. I magistrati non avevano più da applicare i codici, ma da eseguire gli ordini del Ministero. Vi ha chi rammenta ancora come una volta a Favignana, mentre i giudici da esso incaricati di condannare talune persone per una pretesa cospirazione, titubavano per la mancanza di prove, uno di essi dicesse: «colleghi, qui si tratta della toga». E fu pronunziata la sentenza di fucilazione. Era impossibile che il Governo con un siffatto sentimento della giustizia, si limitasse a comandare le sentenze nei processi politici; e difatti, in quelle cause civili dove erano interessate persone influenti a Corte, la sentenza era spesso imposta ai giudici, quando pure il re non ordinava addirittura la sospensione della procedura per decidere la lite a modo suo, o piuttosto della persona favorita. Qualche caso di resistenza di un magistrato ai voleri del Governo, eccitava tanto maggior rumore ed entusiasmo in quanto che era rarissimo. È facile argomentare quale potesse essere lo spirito della magistratura sotto un dispotismo usato in modo così inetto. Qualunque influenza poteva più su di lei che la legge. Taluni magistrati supremi, sommi per ingegno e per dottrina, venivano corrotti pubblicamente. Se tale era lo spirito della magistratura nella capitale, ognuno imagini ciò che poteva essere nelle province. Nella generalità dei casi la legge non esisteva di fronte agl’interessi del Governo, o, quand’egli non fosse implicato nell’affare trattato, di fronte alla ricchezza e all’influenza personale.

Lo spirito dell’amministrazione civile rispondeva a quello della giustizia. La sola tradizione amministrativa era quella di impedire apertamente o con mezzi indiretti qualunque mutamento, che potesse accrescere l’attività delle popolazioni, o favorire in qualunque modo lo spargersi delle idee nuove. Il personale, lasciato per il rimanente a stesso, partecipava per la massima parte all’inaudita corruzione di tutta l’amministrazione borbonica. È facile argomentare quale fosse l’effetto di un tal reggimento sulle relazioni sociali e sullo spirito delle popolazioni. Nei casi in cui non era direttamente interessato il Governo, dominava chi fosse in grado coi denari e con l’influenza di assicurarsi l’alleanza degli agenti governativi. Insomma lo Stato non solo usava mezzi inatti a sostituire la legge alla prepotenza individuale, ma nemmeno mostrava di avere siffatto scopo. Alle prepotenze locali era venuta ad aggiungersi quella di un Governo fazioso, potente nei suoi mezzi di azione, ma intenta come le altre ad ottenere fini, che non avevan che fare con l’interesse pubblico. L’autorità sociale sotto il Borbone come sotto la feudalità non era rappresentata in Sicilia.

Ma se dopo l’abolizione della feudalità non era mutata la sostanza delle relazioni sociali, ne era bensì mutata la forma esterna. Avevano cessato di essere istituzioni di diritto la prepotenza dei grandi ed i mezzi di sancirla: le giurisdizioni e gli armigeri baronali. L’istrumento che conveniva adesso di adoperare per i soprusi, era in molti casi l’impiegato governativo o il magistrato. E ad assicurarsi la loro connivenza non bastava la corruzione, conveniva inoltre adoperare una certa arte. La stessa doveva adoperarsi per acquistare o conservare l’influenza su tutti coloro, che la loro condizione economica non rendeva addirittura schiavi. La violenza brutale dovette in parte cedere il posto all’abilità e alla astuzia.

Questo crescere dell’elemento intellettuale nei mezzi di preponderanza ebbe per effetto di aprir la via ad acquistarla ad uomini appartenenti a quella classe, che era quasi sola nell’Isola a possedere dottrina ed una mente esercitata. Vogliamo dire i legali, i quali, importanti già sotto il regime feudale, adesso andarono crescendo sempre d’importanza e d’autorità. La generalità del ceto dei legali godeva riputazione poco buona prima del 1812.92 Dopo, si distinguevano in due categorie. Gli avvocati di prim’ordine, dotti, spesso onesti, talvolta coraggiosi di fronte agli arbitrii del potere, e la turba degli avvocatucoli delle città principali, e dei legali dei luoghi di provincia, troppo numerosi per gli scarsi affari giuridici di un paese senza industria e senza commercio, ridotti a cercare un guadagno, procurando di rendersi necessarii ovunque, provocatori di liti, mezzani di corruzione fra gli abitanti e gl’impiegati, intriganti, ambiziosi al bisogno nella loro piccola cerchia, talvolta abili abbastanza per rendersi indispensabili valendosi della ignoranza comune a tutte le classi, e per acquistare influenza nei loro centri. Il loro intervento contribuì ad imprimere sempre maggiormente alle relazioni di ogni genere quel carattere d’astuzia, che rendeva l’opera loro efficace.

Tali erano le nuove forme e i nuovi elementi coi quali duravano le vecchie relazioni sociali in tutta la Sicilia. Ma non perciò era esclusa la violenza almeno nella maggior parte dell’Isola; nulla era venuto ad interrompere le antiche tradizioni, e rimanevano sempre gl’istrumenti per porla in opera. Rimanevano gli antichi armigeri baronali mandati a spasso, oltre a tutti gli uomini, che avevano già commesso reati, od eran pronti a commetterne, e che non potevano non essere numerosissimi in un paese dove era tradizionale la facilità ai delitti di sangue, e la inefficacia della loro repressione. Se non che adesso, i primi come i secondi, esercitavano il mestiere per proprio conto, e chi avesse bisogno dell’opera loro, doveva con loro trattar volta per volta e da pari a pari.

A migliorare la sicurezza pubblica, il Governo borbonico colla sua solita noncuranza della legge e del miglioramento morale dei popoli a lui sottoposti, usò quelle forze che trovò bell’e pronte. Contro i malandrini impiegò i malandrini, e dopo la rivoluzione del 1848 questo sistema, nella ferrea mano del capo della polizia, Manescalco, ebbe successo apparente. L’ordine materiale fu ristabilito. La prepotenza rimase il privilegio di chi era in grado di usarla, senza adoperare violenza aperta. La violenza diventò il monopolio dei facinorosi al servizio del Governo. A questi però tutto era permesso. Se commettevasi un delitto erano liberi di arrestare quante persone volessero, ed a furia di operare arresti, d’infliggere bastonate e al bisogno torture, il vero delinquente alla fine si trovava. Questo ultimo particolare del sistema di governo borbonico è generalmente meno conosciuto. Fu bensì denunziato all’Europa il sistema della tortura usato dal Borbone, ma solo allorquando cominciò a adoperarsi contro accusati politici. Del resto, la legislazione preventiva era terribile. Vi fu un tempo in cui il porto d’armi proibite era punito con la morte.

Comunque siasi, il Governo borbonico non operò nulla per far nascere nei Siciliani il sentimento dell’autorità sociale e della legge. Anzi, se prima il concetto di queste cose si poteva dire che non esistesse,93 il regime borbonico sostituì a questo sentimento piuttosto negativo, uno più positivo coll’ispirare per il Governo un odio profondo.

La politica dei Borboni in Sicilia dopo il 1816, fu sempre tale da alienare da loro tutta quella classe di persone che era in grado di concepire opinioni politiche. L’inintelligente tirannia, e la brutale crudeltà a cui fu portato dai sospetti politici sarebbero già bastate a procurargli da tutti coloro che direttamente o indirettamente ne soffrivano od erano esposti a soffrirne, un odio e una inimicizia implacabile. Per neutralizzarne gli effetti, non trovò di meglio che adoperare la sua nota politica di dividere per imperare. L’astio fra Siciliani e Napoletani fu fomentato con ogni mezzo, specialmente col sacrificare gl’interessi e l’amor proprio di quella classe di Siciliani, che era in grado di aspirare al lucro ed all’onore degli impieghi, di quella stessa insomma, contro la quale erano più specialmente dirette le crudeltà e i sospetti pubblici. E fu ottenuto pieno successo: chè nelle menti Siciliane dominio Borbonico e Napoletano diventò una cosa sola.

Naturalmente, in un tale stato di cose, associazioni di idee vecchie e nuove portavano i patriotti di Sicilia a vedere nel vecchio nome di costituzione siciliana il simbolo di tuttociò che era contrario al detestato Governo, e difatti, diventò loro parola d’ordine: indipendenza e costituzione siciliana. Per essi, questa costituzione rappresentava la memoria di libertà secolari, manomesse per la prima volta nel 1816. Non andavano tanto per la sottile nel cercare che cosa fossero queste libertà, fino a qual punto la costituzione del 1812 continuasse le tradizioni di quella dell’epoca feudale, o se piuttosto non fosse diretta a distruggerle addirittura. Per loro, la costituzione feudale, quella del 12 e quella del 48, avevano comune il nome e la dichiarazione generica di privilegi e libertà siciliane. I dotti stessi, che conoscevano quanta differenza di cose cuoprisse quella comunanza di nomi, si sforzavano a fare apparire continua la tradizione da una costituzione all’altra94. Ed a ragione, chè allora si trattava di combattere, non di discutere d’economia pubblica e di diritto costituzionale. Allora la parola Costituzione non era altro che un grido di guerra, e molti Siciliani morirono per quello da eroi.

D’altra parte, la quasi totalità dei patrioti Siciliani non era in grado di conoscere con precisione gli effetti che avrebbe portati nella pratica in Sicilia l’applicazione di una costituzione analoga a quelle di altri paesi di Europa. Perchè, nati e cresciuti senza esperienza di libertà in mezzo alle condizioni sociali, speciali dell’Isola, erano per necessità ignoranti delle differenze che correvano fra queste e quelle di altri paesi. Capivano che una costituzione analoga a quella di taluni altri paesi d’Europa avrebbe, nell’Isola come in questi, ugualmente permesso il libero svolgersi delle forze sociali esistenti, ma non potevano capire come queste forze fossero in quella ed in questi diverse, e che, quando la Sicilia avesse ottenuto una costituzione anche identica a quella di altro paese, sarebbe venuta in una condizione di fatto diversissima da quello. Siffatto errore era diviso dai liberali del rimanente d’Europa, ignoranti affatto dello stato dell’Isola. Per modo che gli uni e gli altri, tolti i pochissimi Siciliani, che avevano vissuto lunghi anni in paesi esteri, studiandone e intendendone le condizioni, credevano sinceramente di mirare allo scopo medesimo. E ciò era vero finchè si trattava solamente di distruggere. Ma quando, scacciati i Borboni, fu finita l’opera negativa e si trattò di governare, l’equivoco principiò ad operare i suoi sciagurati effetti. E dal giorno dello ingresso di Garibaldi a Palermo principiò fra i Siciliani e i governanti d’Italia d’ogni partito e d’ogni colore, quel colossale malinteso, che dura pure adesso e durerà chi sa per quanto ancora.

 

 




85 Vedi: La Mantia, Storia della Legislazione civile e criminale di Sicilia, comparata con le leggi italiane e straniere, vol, II, pagg. 295 e 325. Palermo, 1874.



86 Legge del 2 agosto 1818. — Vedine il sunto in La Mantia, op. cit., vol. II, pag. 297, nota 2. Vedi pure nel Codice Civile delle Due Sicilie (sanzionato con R. Decreto 26 marzo 1819) articoli 946-963, le disposizioni relative ai maioraschi, le quali, pure ammettendoli, ne limitano l’istituzione in modo da toglier loro gran parte della loro importanza economica e sociale (vedi specialmente gli articoli 953 e 954).



87 La vita milizia, consisteva in una rendita vitalizia che l’erede del feudo era per le leggi feudali tenuto a fornire ai suoi fratelli (Orlando, op. cit., pag. 213). — Il diritto di esigerne il valore capitale in terre ed in piena proprietà fu a questi concesso dalla legge del 3 agosto 1818. (Vedi: Petitti, Repertorio amministrativo, vol. I, pag. 731).



88 Legge citata del 3 agosto 1818. La dote di paraggio o paragio era quella rendita che l’erede del feudo era per leggi feudali tenuto d’assicurare a titolo di dote alle proprie sorelle e zie. Questa, secondo le leggi feudali passava ai discendenti loro e all’estinzione della linea delle dotate doveva restituirsi al feudo per nove decimi, rimanendo un decimo a libera disposizione di chi la possedeva. (Orlando, op. cit., pag. 213).



89 R. Decreto 11 settembre 1825, proemio e articoli 13 e 18 (Petitti, op. cit., vol. I, pag. 735). — Rescritto del luogotenente generale in Sicilia del 30 aprile 1827. (Petitti, op. cit., vol. I, pag. 739).



90 R. Decreto 11 settembre 1825, citato. Articoli 2 e 9.



91 Vedi: Disposizioni parlamentari del 1812 sui diritti e pesi feudali, cap. III, § 4 (Petitti, op. cit., vol. I, pag. 730).



92 Vedi: Balsamo, Memorie segrete, pag. 13. — Vedi pure il passo del Palmieri citato a pag. 77 [§ 40. Nota per l'edizione elettronica Manuzio].



93 In Sicilia, la voce delle leggi è debole e regna una generale insubordinazione (Balsamo, Memorie segrete, pag. 82). — Il Balsamo morì nel 1816.



94 Vedi: Orlando, Commentario storico alla Costituzione Siciliana del 1848, passim; e specialmente pag. 35. Palermo, 1848.






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