§ 45. — Opera ed effetti
del regime Borbonico dopo il 1815.
Stando le cose a quel modo non
era delle più facili l’opera di un Governo che avesse voluto continuare e
rendere efficace l’opera delle riforme del 1812, anche quando si fosse prefisso
esclusivamente siffatto scopo ed avesse potuto disporre di un personale
intelligente, onesto, energico e sicuro. Però, molto avrebbe potuto ottenere.
Non sarebbero mancati i mezzi, almeno indiretti, per rendere efficace la
legislazione economica e giuridica. Ma l’opera loro sarebbe stata lentissima.
L’azione del Governo avrebbe però potuto essere più pronta ed efficace a
modificare quelle relazioni sociali, che non fossero d’indole esclusivamente
economica. Un’amministrazione coscenziosa ed energica della polizia e della
giustizia avrebbe potuto sostituire alla preponderanza della forza individuale
quella della legge, ed imprimere nelle menti e negli animi il concetto ed il
sentimento di un’autorità sociale, e questo sarebbe stato il principio ed il
fondamento indispensabile del mutamento delle condizioni generali.
Ma il Governo borbonico fallì quasi del tutto in siffatta
impresa. Fu da lui continuata, è vero, la riforma economica nella legislazione.
La giustizia e l’amministrazione furono ordinate secondo le forme
moderne.85 Ma tutti quei provvedimenti influirono poco sulla sostanza
delle relazioni economiche e sociali dell’Isola, e ne mutarono più che altro
l’apparenza esterna. I loro effetti furono superficiali. Poca fu la divisione
della proprietà e della ricchezza malgrado i provvedimenti che la favorirono.
Furono poco efficaci a questo fine l’abolizione dei fidecommessi86; il
diritto concesso ai cadetti degli ex-feudatari di esigere da questi in piena
proprietà tanta parte dell’ex-feudo che corrispondesse al capitale della loro vita
milizia87; la soppressione del diritto di reversione delle doti
di Paraggio a favore degli ex-feudi88; la liberazione forzosa dei
fondi sottoposti a diritti promiscui (ossia servitù di legnatico, pascolo,
ecc.) quando fra i titolari di codesti diritti vi fossero Comuni89; il
valore di queste servitù compensato con tanta parte del fondo prima
gravatone90, e non più in denari, come era stato stabilito nel
181291; la legge del 10 febbraio 1824 che obbligava i proprietari ad
assegnare degli immobili in pagamento di taluni loro debiti.
Ed era difficile che avvenisse
altrimenti, rimanendo il commercio e l’industria in condizioni poco dissimili
da quelle di prima. Imperocchè, nel periodo dal 1816 al 1860, crebbe, è vero,
in modo sensibile l’industria della estrazione degli zolfi, e crebbe pure
l’industria della fabbricazione dei vini di Marsala, nata in sul principio del
presente secolo. Ma di altre industrie si poteva appena parlare, se si toglie
l’estrazione di qualche scarsissimo prodotto minerale, e la fabbricazione del
sale marino nei dintorni di Trapani ed in alcuni altri punti della costa.
L’agricoltura conservava nella massima parte dell’Isola la sua forma più
semplice e primitiva: granicoltura e pastorizia. D’altra parte, mancavano le
comunicazioni interne nell’Isola, quelle del Continente erano scarse; durava un
sistema di protezionismo commerciale; entrava nella politica del Governo
borbonico l’impedire il più possibile i viaggi; ogni manifestazione di attività
poteva diventar sospetta.
Per modo che la classe media
cresceva, è vero, di numero, specialmente nelle grandi città marittime, dove si
concentrava il poco commercio dell’Isola, e nei loro dintorni, dove la
vicinanza di un centro popoloso e le facilità maggiori per la esportazione
rendevano proficua una coltura del suolo più perfezionata; ma questo
accrescersi non era tale da potere imprimere alle relazioni sociali nell’Isola
quei caratteri che sono propri della società, dove predomina la classe media.
D’altra parte, le condizioni generali dell’agricoltura duravano se non uguali
almeno molto somiglianti a quelle di prima. Se la produzione era un poco
aumentata, i sistemi di coltura e di contratti agricoli rimanevano gli stessi,
e rimanevano come prima di fronte ai grandi proprietari e ai grandi fittaiuoli,
i contadini quasi tutti assolutamente proletari e senza speranza di migliorare
la loro condizione, fuorchè per qualche caso strano. Le fortune cambiavano è
vero di mani più facilmente che sotto il regime feudale, ma era sempre
scarsissimo il numero di coloro cui era accessibile la ricchezza.
Non era dunque avvenuto nelle
condizioni generali dell’Isola alcun mutamento radicale, atto ad imprimere
nuovo carattere alle relazioni sociali, togliendo la preponderanza alla forza e
alla prepotenza personale.
Nè era la pratica di governo dei
Borboni atta ad operare siffatto mutamento. Autore di una legislazione buona in
molte parti, in alcune ottima, questo Governo era il primo a violarla e a
toglierle efficacia. Perchè all’atto pratico, il suo fine unico ed esclusivo
era la propria conservazione o almeno ciò che considerava come tale. A questa
era sacrificata ogni cura di buon governo: paese e popolazione erano
considerati come una proprietà materiale, che conveniva ritenersi con ogni
mezzo. Laonde, al minimo sospetto di liberalismo o di opposizione qualsiasi, la
legge spariva per far luogo alla volontà del Governo. I magistrati non avevano
più da applicare i codici, ma da eseguire gli ordini del Ministero. Vi ha chi
rammenta ancora come una volta a Favignana, mentre i giudici da esso incaricati
di condannare talune persone per una pretesa cospirazione, titubavano per la
mancanza di prove, uno di essi dicesse: «colleghi, qui si tratta della toga».
E fu pronunziata la sentenza di fucilazione. Era impossibile che il Governo con
un siffatto sentimento della giustizia, si limitasse a comandare le sentenze
nei processi politici; e difatti, in quelle cause civili dove erano interessate
persone influenti a Corte, la sentenza era spesso imposta ai giudici, quando
pure il re non ordinava addirittura la sospensione della procedura per decidere
la lite a modo suo, o piuttosto della persona favorita. Qualche caso di
resistenza di un magistrato ai voleri del Governo, eccitava tanto maggior
rumore ed entusiasmo in quanto che era rarissimo. È facile argomentare quale
potesse essere lo spirito della magistratura sotto un dispotismo usato in modo
così inetto. Qualunque influenza poteva più su di lei che la legge. Taluni
magistrati supremi, sommi per ingegno e per dottrina, venivano corrotti
pubblicamente. Se tale era lo spirito della magistratura nella capitale, ognuno
imagini ciò che poteva essere nelle province. Nella generalità dei casi la
legge non esisteva di fronte agl’interessi del Governo, o, quand’egli non fosse
implicato nell’affare trattato, di fronte alla ricchezza e all’influenza
personale.
Lo spirito dell’amministrazione
civile rispondeva a quello della giustizia. La sola tradizione amministrativa
era quella di impedire apertamente o con mezzi indiretti qualunque mutamento,
che potesse accrescere l’attività delle popolazioni, o favorire in qualunque
modo lo spargersi delle idee nuove. Il personale, lasciato per il rimanente a
sè stesso, partecipava per la massima parte all’inaudita corruzione di tutta
l’amministrazione borbonica. È facile argomentare quale fosse l’effetto di un
tal reggimento sulle relazioni sociali e sullo spirito delle popolazioni. Nei
casi in cui non era direttamente interessato il Governo, dominava chi fosse in
grado coi denari e con l’influenza di assicurarsi l’alleanza degli agenti
governativi. Insomma lo Stato non solo usava mezzi inatti a sostituire la legge
alla prepotenza individuale, ma nemmeno mostrava di avere siffatto scopo. Alle
prepotenze locali era venuta ad aggiungersi quella di un Governo fazioso,
potente nei suoi mezzi di azione, ma intenta come le altre ad ottenere fini,
che non avevan che fare con l’interesse pubblico. L’autorità sociale sotto il
Borbone come sotto la feudalità non era rappresentata in Sicilia.
Ma se dopo l’abolizione della
feudalità non era mutata la sostanza delle relazioni sociali, ne era bensì
mutata la forma esterna. Avevano cessato di essere istituzioni di diritto la
prepotenza dei grandi ed i mezzi di sancirla: le giurisdizioni e gli armigeri
baronali. L’istrumento che conveniva adesso di adoperare per i soprusi, era in
molti casi l’impiegato governativo o il magistrato. E ad assicurarsi la loro
connivenza non bastava la corruzione, conveniva inoltre adoperare una certa
arte. La stessa doveva adoperarsi per acquistare o conservare l’influenza su
tutti coloro, che la loro condizione economica non rendeva addirittura schiavi.
La violenza brutale dovette in parte cedere il posto all’abilità e alla
astuzia.
Questo crescere dell’elemento intellettuale nei mezzi di
preponderanza ebbe per effetto di aprir la via ad acquistarla ad uomini
appartenenti a quella classe, che era quasi sola nell’Isola a possedere
dottrina ed una mente esercitata. Vogliamo dire i legali, i quali, importanti
già sotto il regime feudale, adesso andarono crescendo sempre d’importanza e
d’autorità. La generalità del ceto dei legali godeva riputazione poco buona
prima del 1812.92 Dopo, si distinguevano in due categorie. Gli avvocati
di prim’ordine, dotti, spesso onesti, talvolta coraggiosi di fronte agli
arbitrii del potere, e la turba degli avvocatucoli delle città principali, e
dei legali dei luoghi di provincia, troppo numerosi per gli scarsi affari
giuridici di un paese senza industria e senza commercio, ridotti a cercare un
guadagno, procurando di rendersi necessarii ovunque, provocatori di liti,
mezzani di corruzione fra gli abitanti e gl’impiegati, intriganti, ambiziosi al
bisogno nella loro piccola cerchia, talvolta abili abbastanza per rendersi
indispensabili valendosi della ignoranza comune a tutte le classi, e per
acquistare influenza nei loro centri. Il loro intervento contribuì ad imprimere
sempre maggiormente alle relazioni di ogni genere quel carattere d’astuzia, che
rendeva l’opera loro efficace.
Tali erano le nuove forme e i
nuovi elementi coi quali duravano le vecchie relazioni sociali in tutta la
Sicilia. Ma non perciò era esclusa la violenza almeno nella maggior parte
dell’Isola; nulla era venuto ad interrompere le antiche tradizioni, e
rimanevano sempre gl’istrumenti per porla in opera. Rimanevano gli antichi
armigeri baronali mandati a spasso, oltre a tutti gli uomini, che avevano già
commesso reati, od eran pronti a commetterne, e che non potevano non essere
numerosissimi in un paese dove era tradizionale la facilità ai delitti di
sangue, e la inefficacia della loro repressione. Se non che adesso, i primi
come i secondi, esercitavano il mestiere per proprio conto, e chi avesse
bisogno dell’opera loro, doveva con loro trattar volta per volta e da pari a
pari.
A migliorare la sicurezza
pubblica, il Governo borbonico colla sua solita noncuranza della legge e del
miglioramento morale dei popoli a lui sottoposti, usò quelle forze che trovò
bell’e pronte. Contro i malandrini impiegò i malandrini, e dopo la rivoluzione
del 1848 questo sistema, nella ferrea mano del capo della polizia, Manescalco,
ebbe successo apparente. L’ordine materiale fu ristabilito. La prepotenza
rimase il privilegio di chi era in grado di usarla, senza adoperare violenza
aperta. La violenza diventò il monopolio dei facinorosi al servizio del
Governo. A questi però tutto era permesso. Se commettevasi un delitto erano
liberi di arrestare quante persone volessero, ed a furia di operare arresti,
d’infliggere bastonate e al bisogno torture, il vero delinquente alla fine si
trovava. Questo ultimo particolare del sistema di governo borbonico è
generalmente meno conosciuto. Fu bensì denunziato all’Europa il sistema della
tortura usato dal Borbone, ma solo allorquando cominciò a adoperarsi contro
accusati politici. Del resto, la legislazione preventiva era terribile. Vi fu
un tempo in cui il porto d’armi proibite era punito con la morte.
Comunque siasi, il Governo borbonico non operò nulla per far
nascere nei Siciliani il sentimento dell’autorità sociale e della legge. Anzi,
se prima il concetto di queste cose si poteva dire che non esistesse,93
il regime borbonico sostituì a questo sentimento piuttosto negativo, uno più
positivo coll’ispirare per il Governo un odio profondo.
La politica dei Borboni in
Sicilia dopo il 1816, fu sempre tale da alienare da loro tutta quella classe di
persone che era in grado di concepire opinioni politiche. L’inintelligente
tirannia, e la brutale crudeltà a cui fu portato dai sospetti politici
sarebbero già bastate a procurargli da tutti coloro che direttamente o
indirettamente ne soffrivano od erano esposti a soffrirne, un odio e una
inimicizia implacabile. Per neutralizzarne gli effetti, non trovò di meglio che
adoperare la sua nota politica di dividere per imperare. L’astio fra Siciliani
e Napoletani fu fomentato con ogni mezzo, specialmente col sacrificare
gl’interessi e l’amor proprio di quella classe di Siciliani, che era in grado
di aspirare al lucro ed all’onore degli impieghi, di quella stessa insomma,
contro la quale erano più specialmente dirette le crudeltà e i sospetti
pubblici. E fu ottenuto pieno successo: chè nelle menti Siciliane dominio
Borbonico e Napoletano diventò una cosa sola.
Naturalmente, in un tale stato di cose, associazioni di idee
vecchie e nuove portavano i patriotti di Sicilia a vedere nel vecchio nome di
costituzione siciliana il simbolo di tuttociò che era contrario al detestato
Governo, e difatti, diventò loro parola d’ordine: indipendenza e costituzione
siciliana. Per essi, questa costituzione rappresentava la memoria di libertà
secolari, manomesse per la prima volta nel 1816. Non andavano tanto per la
sottile nel cercare che cosa fossero queste libertà, fino a qual punto la costituzione
del 1812 continuasse le tradizioni di quella dell’epoca feudale, o se piuttosto
non fosse diretta a distruggerle addirittura. Per loro, la costituzione
feudale, quella del 12 e quella del 48, avevano comune il nome e la
dichiarazione generica di privilegi e libertà siciliane. I dotti stessi, che
conoscevano quanta differenza di cose cuoprisse quella comunanza di nomi, si
sforzavano a fare apparire continua la tradizione da una costituzione
all’altra94. Ed a ragione, chè allora si trattava di combattere, non di
discutere d’economia pubblica e di diritto costituzionale. Allora la parola
Costituzione non era altro che un grido di guerra, e molti Siciliani morirono
per quello da eroi.
D’altra parte, la quasi totalità
dei patrioti Siciliani non era in grado di conoscere con precisione gli effetti
che avrebbe portati nella pratica in Sicilia l’applicazione di una costituzione
analoga a quelle di altri paesi di Europa. Perchè, nati e cresciuti senza
esperienza di libertà in mezzo alle condizioni sociali, speciali dell’Isola,
erano per necessità ignoranti delle differenze che correvano fra queste e
quelle di altri paesi. Capivano che una costituzione analoga a quella di taluni
altri paesi d’Europa avrebbe, nell’Isola come in questi, ugualmente permesso il
libero svolgersi delle forze sociali esistenti, ma non potevano capire come
queste forze fossero in quella ed in questi diverse, e che, quando la Sicilia
avesse ottenuto una costituzione anche identica a quella di altro paese,
sarebbe venuta in una condizione di fatto diversissima da quello. Siffatto
errore era diviso dai liberali del rimanente d’Europa, ignoranti affatto dello
stato dell’Isola. Per modo che gli uni e gli altri, tolti i pochissimi
Siciliani, che avevano vissuto lunghi anni in paesi esteri, studiandone e
intendendone le condizioni, credevano sinceramente di mirare allo scopo
medesimo. E ciò era vero finchè si trattava solamente di distruggere. Ma
quando, scacciati i Borboni, fu finita l’opera negativa e si trattò di
governare, l’equivoco principiò ad operare i suoi sciagurati effetti. E dal
giorno dello ingresso di Garibaldi a Palermo principiò fra i Siciliani e i
governanti d’Italia d’ogni partito e d’ogni colore, quel colossale malinteso,
che dura pure adesso e durerà chi sa per quanto ancora.
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