§ 65. — Relazioni fra i
malfattori di mestiere e le classi agiate e ricche della popolazione.
Molte delle cose dette su questo argomento a proposito di
Palermo, si possono applicare anche alla provincia. Ma rimangono da aggiungere
molti particolari determinati dalla differenza delle circostanze, e che sono
atti a dare un’idea sempre più chiara delle condizioni sociali e morali di
Sicilia. Già accennammo109 come sia impossibile ritrarre dalla semplice
osservazione delle relazioni fra cittadini e malfattori, le cagioni
dell’impotenza di quelli contro questi. Ci lusinghiamo che l’analisi ormai
fatta delle condizioni sociali dell’Isola avrà dato modo al lettore di spiegarsi
quali sieno queste ragioni. Quell’analisi medesima ci permette adesso di
ragionare con vera cognizione di causa di queste relazioni, e di renderci
chiaramente conto del fenomeno del manutengolismo esercitato dalle classi
abbienti.
Colui che volesse giudicare il
manutengolismo siciliano ed apprezzarne la moralità od immoralità coi criteri
ammessi nei paesi dell’Europa centrale, generalmente considerati come in istato
normale, si ingolferebbe in una confusione inestricabile di equivoci, dove la
sua mente si perderebbe inevitabilmente, e finirebbe o coll’abbandonare la
questione come insolubile, o col portare un giudizio parziale ed avventato. In
Sicilia, la distinzione fra il manutengolismo moralmente scusabile perchè
imposto dal timore di un danno grave, e quello moralmente condannabile perchè
provocato dal desiderio di avvantaggiarsene, non ha significato. Tenga in mente
il lettore che si tratta qui di un paese dove il criterio del diritto è la
forza, dove per circostanze speciali, una classe di malfattori è venuta in
possesso di una forza considerevole, e dove in conseguenza le azioni dei
malfattori non sono considerate come delitti dal senso giuridico
dell’universale, come già cercammo di dimostrarlo, e come lo prova specialmente
il già descritto sentimento ispirato dai facinorosi alle popolazioni. Le
condizioni di fatto che hanno prodotto nei Siciliani questo modo di sentire
il diritto, sussistono ancora, e per tal modo uno dei principali mezzi di
promuovere od anche di tutelare i propri interessi materiali e morali (parliamo
qui di una porzione della Sicilia) è la forza, cioè i malfattori. Da ciò
resulta che, negli animi dei cittadini non è legato il concetto d’immoralità
coll’atto di valersi di quelli. Manifestamente, in una siffatta condizione
degli animi e delle cose, l’usare i malfattori piuttosto per difendere che per
avvantaggiare i propri interessi potrà dipendere da una infinità di cause
secondarie, come il carattere più o meno intraprendente di una persona o da
circostanze indipendenti dalla volontà umana, o dalle occasioni. Ben più,
l’essere amici o nemici dei malfattori potrà dipendere, da una questione avuta
con loro per caso, da un malinteso, da un calcolo di tornaconto più o meno
falso, ma non da una diversità di concetto sul valore morale della violenza in
generale e degli atti dei malfattori in particolare. Tutte le specie di
relazioni coi malfattori sono moralmente lecite in modo uguale. Insomma le
condizioni di fatto della Sicilia non permettono l’esistenza di un criterio per
distinguere il manutengolismo lecito, perchè forzato.
Non è che le teorie giuridiche
importate da altri paesi non abbiano colpito le menti di molte persone, e che
queste non abbiano accettato il concetto dell’immoralità e dei malfattori. Ma,
nelle condizioni attuali, l’opera dei malfattori è così inestricabilmente
mescolata colle relazioni sociali, che queste persone non hanno scelta che fra
accettar quella o rinunziare a queste. Ed allorquando, (il che accade nella
quasi totalità dei casi), non vogliono o non possono scegliere la seconda delle
alternative, il concetto dell’immoralità della violenza e dei malfattori
rimanendo per loro una teoria contraddetta ad ogni momento dalla pratica della
vita, finisce per perdere il suo significato, e rimanere solamente una frase che
intendono genericamente e in modo vago, ma senza legame alcuno coll’indirizzo
delle loro azioni.
Nè può essere altrimenti,
giacchè, data la potenza e l’autorità che hanno adesso i malfattori, chi è con
loro in relazioni anche necessarie non può nelle circostanze ordinarie, per
quanto abbia tutto un catechismo in testa, provare per essi quella ripulsione
dalla quale è nell’animo umano costituito il sentimento dell’immoralità di una
persona o di una cosa. Perchè, se uno di cui riconosciamo la forza superiore ci
risparmia un danno che potrebbe farci, il sentimento che naturalmente proviamo
per lui, è la gratitudine e in conseguenza la simpatia, e non ci viene in testa
di pensare ch’egli ha semplicemente fatto il suo dovere. Parimente, se ci vien
risparmiato un danno che nulla impediva ci fosse fatto, in che differisce il
sentimento che proviamo, da quello che proveremmo se ci fosse addirittura
recato un vantaggio? La distinzione fra il danno evitato e il vantaggio recato
è fino ad un certo punto artificiale. È giustificatissima quando, prevedendo
una gran massa di fatti, si dividano questi all’ingrosso in due categorie.
Prendendo i casi estremi, la differenza fra il danno evitato e il vantaggio
recato non lascia dubbio nella mente, ma la linea che li divide è impossibile a
determinarsi, o piuttosto non esiste nel sentimento umano. Da tutto ciò risulta
che in un proprietario delle province di Sicilia infestate dai malfattori, il
quale viva della vita ordinaria, non può nascere sentimento di antipatia per i
malfattori, meno il caso di gravi danni od insulti ricevuti, e che ancor quando
egli voglia sottoporre la sua condotta ad una regola per così dire, meccanica,
e transigere coi malfattori solamente per evitare danni, e non per acquistar
vantaggi, egli non è in grado di stabilire fra l’una e l’altra cosa una linea
di demarcazione nella sua mente. Inoltre, dove i malfattori intervengono e
dominano gran parte delle relazioni sociali, quella distinzione fra danno
evitato e vantaggio recato che non esiste nelle menti, neppure esiste nel
fatto, e d’altronde, l’atto medesimo che salva dall’inimicizia dei malfattori,
può recare la loro amicizia con tutti i vantaggi che ci sono inerenti, senza
che a procurarli intervenga il fatto di nessuno. Citeremo degli esempi a chiarire
o confortare le nostre asserzioni.
Se un brigante temuto, già stato
campiere, rispetta i beni del suo antico padrone mosso da un sentimento di
deferenza, naturale sopratutto in Sicilia, non si potrà certamente imputare a
delitto al proprietario se si lascia rispettare, se approfitta della libertà di
girare sicuro gratuitamente le campagne. Ma se questa amicizia gli procura il
rispetto altrui, che colpa ne ha esso? Potrassi nemmeno rimproverargli, se
tollera, senza trarne guadagno, che quel brigante ricoveri nei suoi fondi il
bestiame rubato? Opponendosi, non otterrebbe nulla e se ne farebbe un nemico. E
se pure in fondo in fondo quel proprietario provasse un sentimento di
gratitudine per quel brigante che potrebbe nuocergli senza pericolo, anzi con
suo guadagno, e non lo fa, un tale sentimento nelle circostanze in cui si trova
la Sicilia, non solo sarebbe naturale ma anche segno di un’anima ben nata. Chi
potrà dire il punto dove i proprietarii finiscono di favorire il malfattore per
timore della sua inimicizia e principiano a farlo nella speranza di trar
vantaggio dall’amicizia sua? Nessuno, e nemmeno i proprietari stessi. Una volta
ottenuta la loro sicurezza con questa preziosa amicizia, è naturale, che
presentandosi l’occasione di valersene e compensarsi per tal modo, delle gravi
spese che è loro costata, ne approfittino. Trovano la forza bell’e pronta a
loro disposizione, come potrebbero non usarne? Molto più che, giova ripeterlo,
l’usarne, in Sicilia non è ritenuto disonorante.
I proprietari sono costretti a
favorire i briganti non solo in modo negativo fornendo loro ricovero e mezzi di
sussistenza, ma talvolta anche positivo, dando armi ed anche informazioni utili
al successo delle loro imprese. Taluno diventato per siffatta via amico loro
per non averli nemici, otterrà, dall’influenza in tal modo acquistata, guadagni
indiretti d’ogni specie. Diremo più. Quelle persone che, impadronitesi di un
Comune, arruolano nelle guardie campestri i facinorosi dei dintorni, certamente
acquistano con ciò grandissima autorità morale. Inoltre hanno i loro fondi ben
guardati mentre sono saccheggiati quelli di chiunque altro. Ma d’altra parte è
probabilissimo, per non dire certo, che se quei malfattori fossero stati
lasciati a sè stessi, avrebbero fatto i danni medesimi che fanno adesso, più
quelli che risparmiano a chi l’impiega.
Malgrado tutto ciò, in molti
Siciliani l’impressione delle teorie giuridiche di altri paesi, rinnovata ogni
giorno dalla lettura di giornali, talvolta anche di libri, rimane abbastanza
profonda; e senza portarli a fare una distinzione impossibile fra
manutengolismo forzato o no, pure è cagione che vi sia in loro una tendenza a
non adoperare i malfattori senza necessità o almeno a non trarre guadagno
pecuniario diretto dalle relazioni con essi combinando insieme con loro atti di
brigantaggio e dividendone il provento. Ciò non impedisce certamente ad essi di
usare quel mezzo, spesso solo valevole a profitto delle loro ambizioni, dei
loro odii ed anche negli affari d’indole economica. E le occasioni di usarlo
sono tanto più frequenti, che, per la quasi assoluta mancanza d’industria e di
commercio, il solo campo aperto all’attività o al desiderio di guadagni è
quello delle gare locali da un lato, e dall’altro, degli accolli di lavori ed
altre speculazioni simili, dove la riescita consiste nell’allontanare i
concorrenti, al quale scopo l’intimidazione e in conseguenza l’alleanza dei
malfattori è mezzo efficacissimo.
Del resto, la ripugnanza ad
adoperare i malfattori cresce in proporzione dell’impressione ricevuta dalle
teorie giuridiche di fuori, o semplicemente dal sentimento acquistato nel
praticare in altri paesi ed in altri ambienti. Vi sono perfino taluni, che per
aver soggiornato molto all’estero, e studiato nei libri o servito
nell’esercito, provano ripugnanza tale per il genere delle relazioni sociali
siciliane che, quando sono in grado di farlo, rimangono sistematicamente fuori
di tutto il giro degli affari pubblici e privati, od anche vanno a stabilirsi
sul Continente, o per lo meno vi stanno buona parte dell’anno. Peraltro quelle
persone stesse contribuiscono indirettamente all’ordine di cose esistente per
mezzo delle loro proprietà che sono in mano di fattori o di fittaiuoli, gente
simile alla generalità della popolazione.
Ma sono pur molte in Sicilia le
persone, sulle quali le teorie giuridiche del Continente non hanno fatto punto
presa, e per le quali non esiste distinzione alcuna fra l’approfittare dei
malfattori direttamente o indirettamente, a vantaggio della propria ambizione o
del proprio patrimonio. Il provento di molti ricatti e di molte grassazioni
finisce in gran parte nelle tasche di siffatte persone.
A qualunque di queste categorie
appartengano i Siciliani che hanno relazione coi malfattori, è impossibile
apprezzare queste relazioni coi criteri morali in vigore in altri paesi.
Qualunque popolo nelle medesime circostanze farebbe lo stesso. Queste relazioni
dureranno e non si potranno considerare come condannabili al punto di vista
della morale astratta finchè durerà la forza dei malfattori.
D’altra parte però i malfattori
continueranno ad essere i più forti e si potranno difficilmente distruggere
finchè dureranno le relazioni fra loro e i cittadini. Siamo in un circolo
vizioso. Se non che abbiamo parlato fino adesso dell’imputabilità del
manutengolismo ai Siciliani dal punto di vista della morale astratta, non
dell’utilità che può trovare lo Stato italiano a distruggere la potenza dei
malfattori siciliani. L’una cosa non ha nulla che fare coll’altra, e quando lo
Stato giudichi importare all’interesse pubblico di sopprimere i facinorosi, e
per giungere a ciò d’impedire gli atti che ne favoriscono l’esistenza, potrà
definire, per quanto la confusione dei fatti lo permette, quegli atti, e
sottoporli a sanzione penale. Ma questa è quistione di tornaconto politico, non
ha nulla che fare coll’apprezzamento della moralità di un individuo o di una
popolazione. Certamente, una sanzione penale regolarmente ed efficacemente
applicata, contribuisce potentemente a modificare il senso giuridico di una
popolazione, soprattutto in quei luoghi, dove il senso giuridico è solito
uniformarsi alla forza. Ma dato che il manutengolismo siciliano si possa nel
fatto colpire con sanzioni penali, quando si fosse realmente modificato per
mezzo di un codice criminale il senso giuridico di quelle popolazioni, non
bisognerebbe pretendere di averle moralizzate. Si sarebbe solamente
sostituita la forza di un codice a quella dei prepotenti e dei malfattori, e il
senso giuridico della popolazione si sarebbe uniformato alla volontà di quello,
nel medesimo modo e per le medesime ragioni che adesso si uniforma alla volontà
di questi. Il caso, o, ad ogni modo, circostanze indipendenti dalla volontà
della popolazione, avrebbero fatto sì che le regole imposte da quel codice
fossero conformi a taluni principii qualificati per morali da taluni popoli,
che ritengono sè stessi per civili, ma nulla più.
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