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Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino
La Sicilia nel 1876

IntraText CT - Lettura del testo

  • LIBRO PRIMO   CONDIZIONI POLITICHE E AMMINISTRATIVE DELLA SICILIA
    • Capitolo III. LA PUBBLICA SICUREZZA
      • III. I MALFATTORI IN PROVINCIA
        • § 65. — Relazioni fra i malfattori di mestiere e le classi agiate e ricche della popolazione.
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§ 65. — Relazioni fra i malfattori di mestiere e le classi agiate e ricche della popolazione.

Molte delle cose dette su questo argomento a proposito di Palermo, si possono applicare anche alla provincia. Ma rimangono da aggiungere molti particolari determinati dalla differenza delle circostanze, e che sono atti a dare un’idea sempre più chiara delle condizioni sociali e morali di Sicilia. Già accennammo109 come sia impossibile ritrarre dalla semplice osservazione delle relazioni fra cittadini e malfattori, le cagioni dell’impotenza di quelli contro questi. Ci lusinghiamo che l’analisi ormai fatta delle condizioni sociali dell’Isola avrà dato modo al lettore di spiegarsi quali sieno queste ragioni. Quell’analisi medesima ci permette adesso di ragionare con vera cognizione di causa di queste relazioni, e di renderci chiaramente conto del fenomeno del manutengolismo esercitato dalle classi abbienti.

Colui che volesse giudicare il manutengolismo siciliano ed apprezzarne la moralità od immoralità coi criteri ammessi nei paesi dell’Europa centrale, generalmente considerati come in istato normale, si ingolferebbe in una confusione inestricabile di equivoci, dove la sua mente si perderebbe inevitabilmente, e finirebbe o coll’abbandonare la questione come insolubile, o col portare un giudizio parziale ed avventato. In Sicilia, la distinzione fra il manutengolismo moralmente scusabile perchè imposto dal timore di un danno grave, e quello moralmente condannabile perchè provocato dal desiderio di avvantaggiarsene, non ha significato. Tenga in mente il lettore che si tratta qui di un paese dove il criterio del diritto è la forza, dove per circostanze speciali, una classe di malfattori è venuta in possesso di una forza considerevole, e dove in conseguenza le azioni dei malfattori non sono considerate come delitti dal senso giuridico dell’universale, come già cercammo di dimostrarlo, e come lo prova specialmente il già descritto sentimento ispirato dai facinorosi alle popolazioni. Le condizioni di fatto che hanno prodotto nei Siciliani questo modo di sentire il diritto, sussistono ancora, e per tal modo uno dei principali mezzi di promuovere od anche di tutelare i propri interessi materiali e morali (parliamo qui di una porzione della Sicilia) è la forza, cioè i malfattori. Da ciò resulta che, negli animi dei cittadini non è legato il concetto d’immoralità coll’atto di valersi di quelli. Manifestamente, in una siffatta condizione degli animi e delle cose, l’usare i malfattori piuttosto per difendere che per avvantaggiare i propri interessi potrà dipendere da una infinità di cause secondarie, come il carattere più o meno intraprendente di una persona o da circostanze indipendenti dalla volontà umana, o dalle occasioni. Ben più, l’essere amici o nemici dei malfattori potrà dipendere, da una questione avuta con loro per caso, da un malinteso, da un calcolo di tornaconto più o meno falso, ma non da una diversità di concetto sul valore morale della violenza in generale e degli atti dei malfattori in particolare. Tutte le specie di relazioni coi malfattori sono moralmente lecite in modo uguale. Insomma le condizioni di fatto della Sicilia non permettono l’esistenza di un criterio per distinguere il manutengolismo lecito, perchè forzato.

Non è che le teorie giuridiche importate da altri paesi non abbiano colpito le menti di molte persone, e che queste non abbiano accettato il concetto dell’immoralità e dei malfattori. Ma, nelle condizioni attuali, l’opera dei malfattori è così inestricabilmente mescolata colle relazioni sociali, che queste persone non hanno scelta che fra accettar quella o rinunziare a queste. Ed allorquando, (il che accade nella quasi totalità dei casi), non vogliono o non possono scegliere la seconda delle alternative, il concetto dell’immoralità della violenza e dei malfattori rimanendo per loro una teoria contraddetta ad ogni momento dalla pratica della vita, finisce per perdere il suo significato, e rimanere solamente una frase che intendono genericamente e in modo vago, ma senza legame alcuno coll’indirizzo delle loro azioni.

può essere altrimenti, giacchè, data la potenza e l’autorità che hanno adesso i malfattori, chi è con loro in relazioni anche necessarie non può nelle circostanze ordinarie, per quanto abbia tutto un catechismo in testa, provare per essi quella ripulsione dalla quale è nell’animo umano costituito il sentimento dell’immoralità di una persona o di una cosa. Perchè, se uno di cui riconosciamo la forza superiore ci risparmia un danno che potrebbe farci, il sentimento che naturalmente proviamo per lui, è la gratitudine e in conseguenza la simpatia, e non ci viene in testa di pensare ch’egli ha semplicemente fatto il suo dovere. Parimente, se ci vien risparmiato un danno che nulla impediva ci fosse fatto, in che differisce il sentimento che proviamo, da quello che proveremmo se ci fosse addirittura recato un vantaggio? La distinzione fra il danno evitato e il vantaggio recato è fino ad un certo punto artificiale. È giustificatissima quando, prevedendo una gran massa di fatti, si dividano questi all’ingrosso in due categorie. Prendendo i casi estremi, la differenza fra il danno evitato e il vantaggio recato non lascia dubbio nella mente, ma la linea che li divide è impossibile a determinarsi, o piuttosto non esiste nel sentimento umano. Da tutto ciò risulta che in un proprietario delle province di Sicilia infestate dai malfattori, il quale viva della vita ordinaria, non può nascere sentimento di antipatia per i malfattori, meno il caso di gravi danni od insulti ricevuti, e che ancor quando egli voglia sottoporre la sua condotta ad una regola per così dire, meccanica, e transigere coi malfattori solamente per evitare danni, e non per acquistar vantaggi, egli non è in grado di stabilire fra l’una e l’altra cosa una linea di demarcazione nella sua mente. Inoltre, dove i malfattori intervengono e dominano gran parte delle relazioni sociali, quella distinzione fra danno evitato e vantaggio recato che non esiste nelle menti, neppure esiste nel fatto, e d’altronde, l’atto medesimo che salva dall’inimicizia dei malfattori, può recare la loro amicizia con tutti i vantaggi che ci sono inerenti, senza che a procurarli intervenga il fatto di nessuno. Citeremo degli esempi a chiarire o confortare le nostre asserzioni.

Se un brigante temuto, già stato campiere, rispetta i beni del suo antico padrone mosso da un sentimento di deferenza, naturale sopratutto in Sicilia, non si potrà certamente imputare a delitto al proprietario se si lascia rispettare, se approfitta della libertà di girare sicuro gratuitamente le campagne. Ma se questa amicizia gli procura il rispetto altrui, che colpa ne ha esso? Potrassi nemmeno rimproverargli, se tollera, senza trarne guadagno, che quel brigante ricoveri nei suoi fondi il bestiame rubato? Opponendosi, non otterrebbe nulla e se ne farebbe un nemico. E se pure in fondo in fondo quel proprietario provasse un sentimento di gratitudine per quel brigante che potrebbe nuocergli senza pericolo, anzi con suo guadagno, e non lo fa, un tale sentimento nelle circostanze in cui si trova la Sicilia, non solo sarebbe naturale ma anche segno di un’anima ben nata. Chi potrà dire il punto dove i proprietarii finiscono di favorire il malfattore per timore della sua inimicizia e principiano a farlo nella speranza di trar vantaggio dall’amicizia sua? Nessuno, e nemmeno i proprietari stessi. Una volta ottenuta la loro sicurezza con questa preziosa amicizia, è naturale, che presentandosi l’occasione di valersene e compensarsi per tal modo, delle gravi spese che è loro costata, ne approfittino. Trovano la forza bell’e pronta a loro disposizione, come potrebbero non usarne? Molto più che, giova ripeterlo, l’usarne, in Sicilia non è ritenuto disonorante.

I proprietari sono costretti a favorire i briganti non solo in modo negativo fornendo loro ricovero e mezzi di sussistenza, ma talvolta anche positivo, dando armi ed anche informazioni utili al successo delle loro imprese. Taluno diventato per siffatta via amico loro per non averli nemici, otterrà, dall’influenza in tal modo acquistata, guadagni indiretti d’ogni specie. Diremo più. Quelle persone che, impadronitesi di un Comune, arruolano nelle guardie campestri i facinorosi dei dintorni, certamente acquistano con ciò grandissima autorità morale. Inoltre hanno i loro fondi ben guardati mentre sono saccheggiati quelli di chiunque altro. Ma d’altra parte è probabilissimo, per non dire certo, che se quei malfattori fossero stati lasciati a stessi, avrebbero fatto i danni medesimi che fanno adesso, più quelli che risparmiano a chi l’impiega.

Malgrado tutto ciò, in molti Siciliani l’impressione delle teorie giuridiche di altri paesi, rinnovata ogni giorno dalla lettura di giornali, talvolta anche di libri, rimane abbastanza profonda; e senza portarli a fare una distinzione impossibile fra manutengolismo forzato o no, pure è cagione che vi sia in loro una tendenza a non adoperare i malfattori senza necessità o almeno a non trarre guadagno pecuniario diretto dalle relazioni con essi combinando insieme con loro atti di brigantaggio e dividendone il provento. Ciò non impedisce certamente ad essi di usare quel mezzo, spesso solo valevole a profitto delle loro ambizioni, dei loro odii ed anche negli affari d’indole economica. E le occasioni di usarlo sono tanto più frequenti, che, per la quasi assoluta mancanza d’industria e di commercio, il solo campo aperto all’attività o al desiderio di guadagni è quello delle gare locali da un lato, e dall’altro, degli accolli di lavori ed altre speculazioni simili, dove la riescita consiste nell’allontanare i concorrenti, al quale scopo l’intimidazione e in conseguenza l’alleanza dei malfattori è mezzo efficacissimo.

Del resto, la ripugnanza ad adoperare i malfattori cresce in proporzione dell’impressione ricevuta dalle teorie giuridiche di fuori, o semplicemente dal sentimento acquistato nel praticare in altri paesi ed in altri ambienti. Vi sono perfino taluni, che per aver soggiornato molto all’estero, e studiato nei libri o servito nell’esercito, provano ripugnanza tale per il genere delle relazioni sociali siciliane che, quando sono in grado di farlo, rimangono sistematicamente fuori di tutto il giro degli affari pubblici e privati, od anche vanno a stabilirsi sul Continente, o per lo meno vi stanno buona parte dell’anno. Peraltro quelle persone stesse contribuiscono indirettamente all’ordine di cose esistente per mezzo delle loro proprietà che sono in mano di fattori o di fittaiuoli, gente simile alla generalità della popolazione.

Ma sono pur molte in Sicilia le persone, sulle quali le teorie giuridiche del Continente non hanno fatto punto presa, e per le quali non esiste distinzione alcuna fra l’approfittare dei malfattori direttamente o indirettamente, a vantaggio della propria ambizione o del proprio patrimonio. Il provento di molti ricatti e di molte grassazioni finisce in gran parte nelle tasche di siffatte persone.

A qualunque di queste categorie appartengano i Siciliani che hanno relazione coi malfattori, è impossibile apprezzare queste relazioni coi criteri morali in vigore in altri paesi. Qualunque popolo nelle medesime circostanze farebbe lo stesso. Queste relazioni dureranno e non si potranno considerare come condannabili al punto di vista della morale astratta finchè durerà la forza dei malfattori.

D’altra parte però i malfattori continueranno ad essere i più forti e si potranno difficilmente distruggere finchè dureranno le relazioni fra loro e i cittadini. Siamo in un circolo vizioso. Se non che abbiamo parlato fino adesso dell’imputabilità del manutengolismo ai Siciliani dal punto di vista della morale astratta, non dell’utilità che può trovare lo Stato italiano a distruggere la potenza dei malfattori siciliani. L’una cosa non ha nulla che fare coll’altra, e quando lo Stato giudichi importare all’interesse pubblico di sopprimere i facinorosi, e per giungere a ciò d’impedire gli atti che ne favoriscono l’esistenza, potrà definire, per quanto la confusione dei fatti lo permette, quegli atti, e sottoporli a sanzione penale. Ma questa è quistione di tornaconto politico, non ha nulla che fare coll’apprezzamento della moralità di un individuo o di una popolazione. Certamente, una sanzione penale regolarmente ed efficacemente applicata, contribuisce potentemente a modificare il senso giuridico di una popolazione, soprattutto in quei luoghi, dove il senso giuridico è solito uniformarsi alla forza. Ma dato che il manutengolismo siciliano si possa nel fatto colpire con sanzioni penali, quando si fosse realmente modificato per mezzo di un codice criminale il senso giuridico di quelle popolazioni, non bisognerebbe pretendere di averle moralizzate. Si sarebbe solamente sostituita la forza di un codice a quella dei prepotenti e dei malfattori, e il senso giuridico della popolazione si sarebbe uniformato alla volontà di quello, nel medesimo modo e per le medesime ragioni che adesso si uniforma alla volontà di questi. Il caso, o, ad ogni modo, circostanze indipendenti dalla volontà della popolazione, avrebbero fatto sì che le regole imposte da quel codice fossero conformi a taluni principii qualificati per morali da taluni popoli, che ritengono stessi per civili, ma nulla più.

 

 




109 Vedi sopra, § 23.






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