§ 70. — Mezzadrìe del
Messinese.
All’incontro le mezzadrìe del Messinese ci
presentano vari caratteri importanti, e tali da offrire una qualche garanzia di
benessere al contadino; ma anche qui pur troppo non mancano le ombre al quadro.
— In primo luogo, nella immensa varietà delle forme di conduzione agricola che
si trovano nel Messinese, è molto più difficile che si possa mantenere l’impero
di una consuetudine generale che escluda la concorrenza. Inoltre i patti di divisione
per le varie colture vi sono molto diversi, e mutano pure per le stesse
colture, secondo i padroni, i luoghi, e i terreni. La maggior parte poi delle
colture legnose è comunemente sottratta alla mezzerìa, la quale si restringe
più che altro ai soli prodotti del suolo. Gli agrumeti si coltivano a economia,
come pure un grandissimo numero di vigne; e la partecipazione negli olivi
spesso non è altro che quella nel raccolto, della natura della quale abbiamo
già detto.
Tutto ciò è tanto più da deplorarsi, in quanto il
Messinese e per la condizione della sua agricoltura, e per le tradizioni e gli
usi locali — come quelli, per esempio, della soccida del bestiame, — si
presterebbe moltissimo alla completa riuscita del contratto di mezzadrìa sul
tipo toscano. L’attuale sparpagliamento però di quelle proprietà in tanti
piccoli appezzamenti separati, presenta un grave ostacolo alla riuscita di
qualsiasi forma di contratto agricolo, ed un inconveniente al quale non
potrebbe porsi riparo che per opera della legge, la quale rendesse più facili e
meno rovinose le permute.
Contribuzione dei coloni
all’imposta fondiaria.
Nelle mezzadrìe del Messinese il colono paga una
quota delle imposte prediali, eguale alla sua quota nella divisione del
prodotto. Là come in molte altre provincie d’Italia, si fa per giustificare
questa imposizione sul mezzadro di una parte della tassa fondiaria, il seguente
ragionamento: — Poichè il mezzadro profitta per metà di tutte le entrate del
podere, è giusto ch’egli contribuisca per metà alle gravezze che
colpiscono quello stesso podere. —
Se per giustizia s’intende parlare di giustizia
astratta, non vi è invero nulla che si possa chiamare economicamente ingiusto:
i diritti del lavoro nella distribuzione del prodotto risultano da una convenzione
libera tra due contraenti; si può dunque chiamare economicamente giusta
qualunque retribuzione, per quanto minima, che al lavorante venga concessa, e
ch’egli abbia consentito di accettare. Ma qui non si tratta di ciò.
Dato che la forma del contratto agricolo abbia
una importanza sociale vera e propria nel regolare stabilmente la distribuzione
della ricchezza tra il lavoro, il capitale e la terra, e dato che in questo
ordinamento della distribuzione si miri non solo al vantaggio immediato ed
esclusivo del proprietario, ma anche a scopi di utilità generale e di equità
nelle relazioni tra le diverse classi, — diciamo che l’imporre al mezzadro una
quota dell’imposta fondiaria corrispondente alla sua quota nella divisione dei
prodotti, è cosa improvvida e contraria all’equità, perchè contraria alla
volontà del legislatore nell’imporre la tassa fondiaria e alla medesima natura
di questa tassa, e perchè contradicente all’essenza stessa del contratto di
mezzadrìa, e tale da sovvertire e confondere le idee intorno ad essa. Qui
dunque si tratta, se volete, di un’ingiustizia di forma, ma la forma, giova il
ripeterlo, ha nella questione dei contratti agricoli, un’importanza tale da
rappresentare in ultima analisi il benessere del contadino, e l’equità nei
rapporti sociali.
Orbene, perchè si potesse in questo senso
giustificare almeno in parte la contribuzione del mezzadro all’imposta
fondiaria, bisognerebbe che il contadino godesse di una quota corrispondente
della intiera rendita fondiaria del suo podere, essendo questa rendita
l’obietto su cui cade l’imposta fondiaria; ma ciò non si avvera in alcun luogo
e meno che mai nel Messinese, dove l’azione della concorrenza facendosi
effettivamente sentire nei patti di divisione del prodotto di moltissime
colture, il mezzadro non gode nemmeno di una parte degli aumenti
progressivi della rendita fondiaria.
Ma supponendo pure per un momento che
effettivamente accada ciò che non accade mai, nemmeno in Toscana, e che il
mezzadro goda della metà della intiera rendita fondiaria del suo podere, oltre
il compenso al suo lavoro e alla sua industria, non perciò sarebbe da ritenersi
come cosa equa, nè come naturale conseguenza del patto generale di divisione a
metà delle spese e dei guadagni, la contribuzione eguale del colono e del proprietario
nel pagamento dell’imposta fondiaria, come essa è ora applicata in Italia.
Ed invero coll’attuale sistema di catasto,
l’imposta fondiaria, e lo vedremo meglio in appresso, non colpisce soltanto nel
suolo la rendita fondiaria, ma piuttosto tutta quella parte di ricchezza che
risulta dal capitale che vi è stato impiegato per un termine più o meno lungo
in opere, piantagioni, ecc.; il quale non va confuso coll’altro capitale annuo
di esercizio, che resta colpito dalla tassa di ricchezza mobile pagata dall’affittuario
o dal colono, e che per una strana, ma non rara inconseguenza delle nostre
leggi, va immune da tassa quando il proprietario conduca da sè l’azienda
rurale. In altre parole l’imposta prediale in Italia colpisce tutto quello che,
astrazion fatta dalla pura fertilità naturale e potenziale della terra, si suol
chiamare il capitale fisso dell’industria agricola. Orbene, il profitto di
questo capitale fisso va tutto intiero al proprietario, il quale, secondo il
nostro assurdo ma pur troppo reale sistema tributario, non paga per esso alcuna
imposta di ricchezza mobile, ma invece una quota parte dell’imposta catastale.
Che ciò sia, risulta evidente dal fatto dei catasti calcolati sulle colture
effettive e quindi sulla presunta produzione effettiva del suolo, e non sulla
sola fertilità naturale o sulle condizioni topografiche dei singoli
appezzamenti, i quali termini soli darebbero la misura della vera rendita
fondiaria dei terreni.
Ma se dunque è così, perchè mai dovrebbe il
mezzadro, anche dato per comodo di ragionamento che godesse della metà
dell’intiera rendita fondiaria, pagare una metà dell’imposta fondiaria, la
quale per buona parte colpisce dei profitti industriali di cui egli non gode? —
Egli già paga l’imposta di ricchezza mobile per i profitti della sua propria
industria e del suo piccolo capitale d’esercizio. L’argomentazione apparirà più
chiara quando avremo parlato della rendita fondiaria e dell’industria agricola,
a proposito della perequazione dell’imposta fondiaria; ma ci pare che da questi
pochi cenni risulti già abbastanza chiaro, come il caricare sul mezzadro il
pagamento di una quota proporzionale dell’imposta fondiaria, non trovi alcuna
giustificazione nel fatto.
Egli invero, lo ripetiamo, non gode nella
migliore ipotesi che di una quota degli aumenti progressivi della rendita
fondiaria a cominciare dall’epoca in cui furono fissati i patti più recenti che
contenga il suo contratto; il che vuol dire che ne gode soltanto quando e dove
una consuetudine locale ha reso per lungo tempo immutabili le forme anche più
minute di quel contratto. Dove ciò non si avvera, si può affermare che il
mezzadro non gode di nessuna parte della rendita fondiaria. Si aggiunga a ciò,
che egli non gode dei profitti del capitale fisso dell’industria agricola, i quali
vengono pure presi di mira dall’attuale imposta prediale; — e si otterrà per
conseguenza, che dove regna sovrana la consuetudine, come in gran parte in
Toscana, si potrebbe giustificare in teoria una piccolissima contribuzione del
mezzadro al pagamento delle imposte prediali, la quale però non dovrebbe mai
giungere a essere proporzionale alla sua quota di divisione dei prodotti del
suolo; ma che in ogni altro caso qualunque contribuzione siffatta non può
trovare altra giustificazione che nella volontà delle parti, ed è sempre un
elemento pericoloso nel contratto di mezzerìa e che tende a falsarne l’indole e
le conseguenze.
È poi abbastanza curioso il notare come sia
invece soltanto in Toscana e in quei pochi luoghi dove domina quello stesso
tipo di contratto, che il mezzadro comunemente non contribuisce al pagamento
dell’imposta prediale, la quale vien sopportata tutta dal proprietario; mentre
altrove, in Lombardia, nel Piemonte, ecc., si segue il sistema del Messinese.
Quando poi si voglia por mente alla destinazione
che effettivamente vien data ai denari che frutta l’imposta fondiaria, e
specialmente a quella parte di essi, che sotto forma di sovrimposta va nelle
casse delle Autorità locali, apparirà sempre più come non si possa affatto
invocare l’equità per far ricadere sul mezzadro il pagamento di una quota
proporzionale della tassa fondiaria. E difatti basta dare uno sguardo ai
bilanci comunali dell’Italia meridionale, per scorgere quanta parte del
provento dell’imposta vada a beneficio esclusivo della classe dei proprietari,
sotto forma di teatri, di bande, d’istituti d’istruzione secondaria o
elementare superiore, di costruzioni ed abbellimenti nei quartieri nobili delle
città, ecc. Per tutte queste spese fatte pei proprietari non è giusto che contribuiscano
i contadini. Altrimenti ai proprietari converrebbe sempre di aumentare queste
spese, poichè con ciò ridurrebbero effettivamente, in modo progressivo, e a
proprio vantaggio, i patti della mezzadrìa.
Il lettore ci scuserà se ci siamo fermati su questo
punto forse più di quel che non parrebbe meritare; l’abbiamo fatto perchè la
questione è stata finora raramente avvertita, e perchè in parecchi tentativi
fatti per applicare in diverse parti d’Italia la forma di mezzadrìa toscana,
non è stato tenuto alcun conto di uno dei suoi caratteri più importanti,
dell’esenzione cioè del mezzadro da ogni contribuzione all’imposta fondiaria.
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