§ 113. — Le grandi aziende
condotte direttamente dai proprietari.
Prendiamo ora un terzo caso, che vorremmo certo
preferire a quelli già supposti; ed è quello che il proprietario voglia
condurre a economia o a mano la coltivazione del proprio
latifondo, sia attendendovi da sè, e sarà il meglio, sia per mezzo di un
fattore intelligente e di fiducia. Del resto, quel che diremo qui, può valere
pure in parte per il caso del grosso affittuario di cui nel paragrafo
precedente.
In questi casi, lo ripetiamo, ove il proprietario
non veda nell’industria agricola da lui esercitata che un modo qualunque di far
denari, senza sentire i doveri che gli incombono per la stessa sua posizione
privilegiata di proprietario, oltrechè come uomo e come cittadino, e senza
apprezzare tutti i vantaggi morali e sociali che deriverebbero a tutti da un
rialzamento della condizione generale dei contadini, è indubitato che i
guadagni e la posizione di questi saranno determinati esclusivamente dalla
mutua concorrenza, sempre forte, dei lavoranti agricoli, di fronte a quella dei
proprietari, sempre minima fuorchè in alcuni mesi dell’anno, e sempre frenata
dal tacito accordo.
Ma vogliamo ora supporre che i proprietari si
risolvano, per considerazioni morali o economiche, o mossi da paura di futuri
sconvolgimenti, ad ordinare nel modo migliore i loro rapporti coi contadini, senza
perdita propria, senza far doni nè elemosine, nè incontrar sacrifizi, ma
considerando il contadino come un uomo e non come un mero strumento di lucro, e
desiderando di togliere per quanto sia possibile l’attuale discordanza tra
l’interesse del lavorante e quello del proprietario o capitalista: in qual modo
dovrebbero essi regolare i patti colonici nei latifondi che conducessero da sè?
— Per poter rispondere con sicurezza a un tal quesito, occorrerebbe aver
dinanzi a sè i risultati di una inchiesta agricola minuziosa e completa che
abbracciasse tutte le regioni d’Italia, inchiesta che è nel voto di molti, ma
che probabilmente non si farà per un gran tempo ancora. Noi non possiamo qui
che indicare sommariamente e a guisa di appunti, alcune idee in proposito.
Nel nostro supposto, la forma generale del
contratto agricolo dovrebbe esser quella del salariato; ma la questione può
presentarsi diversamente di fronte ai diversi ordini di salariati, che possiamo
distinguere in: 1° salariati fissi per tutto l’anno con dimora stabile sul
fondo; 2° braccianti liberi che ricevono volta per volta la loro giornata, e
che abitando non lontanissimi dal fondo vengono impiegati con una certa
regolarità nelle diverse stagioni dell’anno; 3° braccianti avventizi che
immigrano da lontano durante i mesi dei grandi lavori, finiti i quali se ne
tornano ai loro paesi. Diremo prima di questi ultimi.
Immigrazioni temporanee di
braccianti.
L’industria agricola, e più particolarmente
quando sia condotta su vasta scala, presenta la difficoltà speciale del dover
conciliare il grande bisogno di braccia in alcuni mesi dell’anno, colla
scarsità dei lavori nelle altre stagioni. A questo si ripara ora colle regolari
immigrazioni temporanee di braccianti; e dove si mantenesse nella maggior parte
dell’Isola la grande coltura, non v’ha dubbio che queste immigrazioni sarebbero
sempre una necessità, benchè riducibili a proporzioni minori. Di fronte a
questi immigranti nulla vi può essere da osservare relativamente ai contratti;
non vi è per loro altro sistema possibile che il salario, e la sola diversità
può essere il lavoro a cottimo, invece del lavoro a tempo. Ai proprietari però
incombe il dovere solenne di costruire senza indugio caseggiati atti a riparare
convenientemente durante la notte quella gente avventizia, e di così togliere
subito almeno una delle cause di patimenti, di degradazione, di malattia e di
morte per quegl’infelici.
Al guaio proprio della grande coltura, della
sproporzione nel bisogno di braccia nelle diverse stagioni dell’anno, riparerà
efficacemente in avvenire la progressiva sostituzione nei lavori agricoli delle
forze meccaniche a quelle muscolari dell’uomo; e non sarà questo il minore tra
i benefizi di quella grande vittoria dello spirito sulla materia, di quel
progressivo asservimento della natura alla soddisfazione dei bisogni umani, che
toglie ogni necessità storica all’asservimento dell’uomo all’uomo. Dovremo però
riparlare più qua della questione delle macchine.
Date le immigrazioni temporanee di lavoranti per
i lavori straordinari, dobbiamo supporre che la popolazione agricola che
risiede stabilmente sopra un territorio sia all’incirca proporzionata ai lavori
ordinari che vi si richiedono tutto l’anno.
In
ogni fattoria poi si dovrà impiegare in modo fisso, concedendogli dimora
stabile sul fondo, quel numero di lavoranti cui si potrà dar lavoro continuo
durante tutto l’anno sul fondo stesso; questi lavoranti chiameremo, per comodo
di ragionamento, salariati fissi296. Ma all’infuori di questi,
vi sarà un certo numero di braccianti che potrà trovare impiego continuo
durante la maggior parte dell’anno nello stesso territorio, ma mutando di
fattoria in fattoria secondo i diversi bisogni locali, e questi, che chiameremo
semplicemente giornalieri, comprendono tutti quei braccianti che
dimorando nelle borgate e nei villaggi locano attualmente l’opera loro a
giornata.
Supponendo ora che i proprietari si ponessero a
coltivare a economia i loro latifondi, il numero dei salariati fissi
aumenterebbe di molto di fronte a quello attuale degl’impiegati dei feudi,
giacchè ora una grandissima parte dei lavori di coltivazione sono eseguiti per
mezzo dei metatieri e dei terratichieri: ma non sparirebbe perciò la classe dei
giornalieri, una gran parte dei quali inoltre troverebbe occupazione in alcune
stagioni dell’anno nelle colture più minute e più intensive dei pressi delle
città.
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