VII.
Se i miei amici si appagarono di
dichiarare con brevi parole il loro accordo con la Giunta parlamentare negli
apprezzamenti su fatti parziali, ma non nei giudizi generali, lasciando al
pubblico di formarsi un’opinione sulle differenze che li dividevano, invece
l’on. Bonfadini, Relatore della Giunta (poichè non vi è dubbio che egli stesso
si celava sotto l’anonimo), ha voluto dare alla luce un lungo articolo di
garbata polemica nei tre numeri del 20, 22 e 23 gennaio 1877 del giornale La
Perseveranza di cui era assiduo collaboratore. Nel pigliarli qui in esame,
mi accadrà forse di cadere in qualche ripetizione, ma spero che essa non
riescirà a detrimento di chiarezza sulla interessantissima contesa.
Il Bonfadini non ha saputo
spogliarsi del sentimento della sua superiorità di vecchio parlamentare, e,
pure prodigando molti elogi agli autori dell’Inchiesta privata, e concedendo
cattedraticamente che con pochi pentimenti di forma e di pensiero si sarebbero
evitate le sue critiche, prende a partito prima il Franchetti e poi il Sonnino,
ma sempre da un medesimo punto di vista di conservatore, sicchè agli occhi di
chi si senta animato da uno spirito liberale quelle critiche si convertono in
elogi.
Abbastanza esatto e perspicuo è
il seguente riassunto ch’egli fa della sostanza del volume del Franchetti: «La
Sicilia è tuttora governata nelle sue manifestazioni sociali dallo spirito
medioevale, le cui caratteristiche principali sono due: un’assenza quasi totale
della classe media, e la tendenza di tutti a credere l’autorità privata,
qualunque ne sia la forma, e più forte e più legittima e più rispettabile che
l’autorità del Governo e delle Leggi. Queste, ordinate secondo il sistema
italiano di una prevalenza della classe media, non hanno trovato in Sicilia una
base razionale su cui esplicarsi, e non hanno servito così altro che a
sanzionare nella maggior parte dei casi, con una vernice di liberalismo le
prepotenze e gli abusi degli antichi sistemi, lasciando da un lato la classe
dominante che ha monopolizzato tutti gli uffici e le pubbliche funzioni a
beneficio dei propri interessi e della propria supremazia, e dall’altro una
classe sofferente di proprietari e di lavoratori del suolo che non trovano
nella legislazione nazionale mezzi legali efficaci per migliorare il proprio
stato, e che, se non ora, saranno tratti più tardi a trovare nella solita violenza
i soliti scioglimenti della questione sociale».
Il Bonfadini trova giusta
l’affermazione che in Sicilia il concetto delle forze e delle relazioni
personali prevale sul concetto delle forze di Governo e delle relazioni
pubbliche, ma trova esagerato che questo fatto produca una mancanza di
sentimento degli interessi pubblici, e cita a suo sostegno sia il buon
ordinamento di talune istituzioni di utilità pubblica, specialmente a Palermo
ed a Catania, sia i larghi concorsi votati dai Corpi locali per opere pubbliche.
Ma l’una cosa non è affatto in opposizione con l’altra: eppoi si tratta di
proporzioni e sarebbe occorso analizzare e far cifre prima di concludere.
Più oltre il Bonfadini ammette
pure che sia una delle più forti radici dei mali della Sicilia il difettarvi la
classe media sulla quale altrove può appoggiarsi il sistema liberale della
nuova Italia, ma trova esagerato l’averne tratto la conseguenza che il
proletariato sia in balìa della classe abbiente, e lo argomenta dall’essere
anzi non pochi i Comuni nei quali gli abbienti si lagnano di essere stati
soverchiati nelle elezioni locali; ma è facile che si tratti di casi di
reazione naturale, oppure di lotte di partiti amministrativi, e quindi, in
quelle vittorie, i proletari se mai non rappresentano che un’etichetta, e per
lo meno potrebbe dirsi che furono invocati e capitanati per ben altri interessi
dei propri, allo stesso modo che da parte di altri si giungeva ad allearsi
perfino con bande brigantesche avversarie fra loro, con la differenza tuttavia
che l’imposizione della banda vittoriosa rimaneva per lungo tempo sul partito
che l’aveva invocata, e invece i proletari non erano che alleati momentanei
presto ricondotti sotto la propria sferza dal partito vincitore.
È scritto negli articoli: «Come
conciliare l’asserita simpatia dei siciliani pei briganti con la storia dei
ricatti, delle grassazioni, degli scrocchi a cui soprattutto è soggetta la
classe dei proprietari, e che li costringe in tanti luoghi e per tanto tempo a
vietarsi la soddisfazione e la vista delle loro campagne?». Certo al momento
delle due Inchieste, e anche di sovente, vi erano molti signori i quali, per lo
sdegno della vita di umiliazione che avrebbero dovuto condurre, si assentavano
per lunghi periodi, lasciando alle prese coi briganti il loro gabellotto; ma
viceversa, se non la simpatia, il manutengolismo di gabellotti e proprietari
aveva proprio la sua prova, come ci venne ripetuto da più fonti autorevoli,
nella sicurezza con cui quelli tra loro che non si erano rassegnati ad assentarsi,
risiedevano sul luogo con moglie e figli, e giravano senza scorta anche se il
territorio era infestato da una banda. Nella provincia di Palermo, e nelle
altre zone in condizioni di sicurezza analoghe, ricatti, grassazioni e scrocchi
erano vicende clamorose ma non frequentissime perchè verosimilmente riservate
agli insofferenti delle tristi imposizioni e negoziazioni; ma non per questo
potevano considerarsi per eccezionali, come avrebbe voluto il Bonfadini,
specialmente quando e la Giunta Parlamentare, e noi, e la stessa Camera,
insieme con le denuncie e deplorazioni della tristissima piaga, ricevevamo
denuncie e deplorazioni circa i rapporti che funzionari dello Stato e personale
della pubblica forza avevano avuto ed avevano con le bande, delle quali anche
si servivano come loro mezzo poliziesco.
Non è vero che il Franchetti,
come scrive il Bonfadini, abbia voluto escludere dagli uffici governativi della
Sicilia tutti gli impiegati siciliani, e solo perchè gli è risultato che taluno
fra essi fosse infido. Non v’è che da rileggere il suo § 105 per accorgersi che
non solo egli ammette eccezioni, ma dichiara che gl’impiegati siciliani i quali
intendono egualmente lo stato dell’Isola e quello della società moderna saranno
istrumenti migliori di qualunque altro. La riserva circa la loro mentalità
s’imponeva perchè da impiegati siciliani abbiamo sentito troppo spesso fare
l’apologia delle repressioni violente, e, peggio ancora, della mafia
ufficiale; vi fu perfino chi lamentò che non si ponessero limiti per legge
o per regolamenti locali alle pretese di più alti salari. Così pure a torto si
imputa al Franchetti di avere affermato che nell’Isola non v’è la possibilità
di governare con l’opera combinata di quei cittadini e dello Stato. Il concetto
ch’egli esprime ai paragrafi 103 e 106 corrisponde in ultima analisi a quello
più felicemente espresso dal Sonnino al paragrafo 128, che la Sicilia, lasciata
a sè, o con una rivoluzione, o col prudente concorso della classe agiata,
avrebbe trovato il rimedio ai suoi mali e quindi al disagio dei contadini e dei
lavoratori.
Il Bonfadini è costretto invece
ad ammettere per giusta l’affermazione del Franchetti e del Sonnino che in
Italia l’abolizione del feudalismo lasciò i contadini nelle condizioni di prima,
e che nel 1860 furono sovrapposte leggi moderne a costumi medioevali, ma trova
esagerata la conseguenza trattane che tutta la legislazione liberale dal 1860
in poi si risolve in polvere negli occhi, e li rimprovera di essersi lasciati
soverchiare dall’amore di quella tesi la quale aveva già fatto capolino in
altri loro precedenti lavori, che cioè ormai l’Italia trovavasi in presenza di
una vera questione sociale già adulta e minacciosa. Questo rimprovero è ben
naturale che esca dalla penna di chi nella Relazione della Giunta non trovava
nemmeno da sorprendersi della miseria del contadino siciliano perchè peggio di
lui vivevano i contadini delle risaie lombarde, i pastori della campagna
romana, i cafoni delle balze silane, e tutto scusava con la peregrina
osservazione, con la quale potè giustificarsi anche la schiavitù, che le
diseguaglianze sociali sono base necessaria della società umana. Eppure
attenuarle, addolcirle in ragione dei mille progressi, è anzi farle più
provvide.
Comunque, il Bonfadini, nell’insieme
del suo importante articolo, anche attraverso le non poche divergenze nelle
idealità politiche e sociali, si è venuto sempre più accostando, quando n’ebbe
avuto piena conoscenza, agli apprezzamenti di fatto e alle più importanti
deduzioni dell’Inchiesta privata, tanto da chiudere l’articolo con queste
parole, delle quali i miei amici non possono che essersi altamente compiaciuti:
«Della Sicilia dovrà pur troppo occuparsi per un pezzo la nuova generazione
politica, alla quale spetta riordinare, col sussidio dell’esperienza, quella
patria che la generazione cadente ha tratto dal sepolcro secolare, rinnovandola
di spiriti e di vigoria. Se quella dirittura di intenti e quella pertinacia di
studi che furono consacrate alla loro recente Inchiesta privata, saranno dagli
autori o da altri consacrate al resto delle Provincie italiane, la base
dell’avvenire sarà ben presto posata su un terreno sodo, e chi ha fatto
l’Italia, potrà con tranquillo animo rassegnarsi a vederla governata ed
amministrata dai propri eredi, riservandosi il diritto di quel brontolìo che è
innocua protesta dell’onesta vecchiaia contro la gioventù attiva e capace».
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