IX.
Alla Relazione sulla situazione
della pubblica sicurezza in Sicilia che il Nicotera presentò alla Camera il 13
dicembre 1876 erano allegate le statistiche comparative della criminalità per
ciascuna provincia, durante i primi nove mesi del 1875 e quelli del 1876. Da
esse risultava che mentre in tutto il Regno nel primo periodo vi erano stati
1496 omicidi consumati, 1218 mancati, 5206 ferimenti gravi, 1752 grassazioni,
362 estorsioni, violenze e rapine, 21256 furti, nel secondo periodo queste
cifre erano rispettivamente 1502, 1199, 5075, 1635, 472, 21078, dunque si ebbe
un miglioramento sensibile per tutte le categorie, eccezion fatta per quella
delle estorsioni, violenze, e rapine. Invece in Sicilia nel primo periodo si
ebbero rispettivamente per le suddette categorie nel primo periodo le cifre di
310, 261, 701, 419, 44, 1898 e pel secondo 372, 319, 920, 525, 64, 2148; cioè
in tutte un peggioramento compresa quella pei furti, senza dire che la
sproporzione fra Regno e Sicilia era assai sensibile.
All’impressione sconsolata di
queste statistiche si aggiunse presto quella di alcuni reati più clamorosi
seguiti poco dopo, e nella seduta del 27 novembre se ne dolse vivacemente il
deputato di Belmonte, in quella del 7 dicembre il deputato Pellegrini e ad
entrambi il Nicotera rispose con asprezza che in Sicilia la pubblica sicurezza
non poteva ristabilirsi pel manco di appoggio da parte dei cittadini: come
sintomo della situazione si ebbe anche nella metà del gennaio la notizia che
alcuni commercianti inglesi che dimoravano nell’Isola pei loro affari s’erano
rivolti al proprio Governo chiedendogli di interporsi presso il Governo
italiano per una maggior tutela delle loro persone e dei loro averi.
In queste circostanze il
marchese Di Rudinì presentò una interrogazione al Presidente del Consiglio, che
fu cominciata a svolgere il 23 gennaio, per conoscere le intenzioni del Governo
riguardo alle proposte della Giunta Parlamentare d’Inchiesta sulla Sicilia. «So
pur troppo, egli esordì, che alcuni vorrebbero cuoprire di un velo misterioso i
mali dell’Isola; io credo invece che le stesse amarissime e tumultuose
discussioni del 1875 abbiano portato il loro contingente di bene perchè
produssero l’inchiesta privata del Franchetti e del Sonnino e quella ufficiale
da noi ordinata. Non posso, non debbo discutere qui l’Inchiesta privata. Dirò
solo che quantunque ben lontano da certi apprezzamenti, da certi giudizi e da
certe sue proposte, lodo il sentimento di amorevolezza che la ispirava e mi
piace che privati cittadini abbiano voluto investigare le origini dei mali che
travagliano la Sicilia, e soccorrervi coi loro studi e coi loro consigli». Così
l’interrogazione sua, le discussioni che vi si collegarono e le risposte del
Presidente del Consiglio e di altri Ministri (non del Nicotera, assente per
malattia e pel quale parlò il Depretis) non tennero conto che della più blanda
Inchiesta ufficiale; in ogni modo una certa autorità anche di quella privata
era già apertamente dichiarata e tacitamente consentita.
Dopo ciò la discussione potè
procedere più calma e le risposte del Governo venire semplificate. Fu l’on.
Morana a tenere più vivacemente la parola: non risparmiò l’Inchiesta privata
che rimproverò di soverchie generalizzazioni, di superficiali osservazioni, e
di deduzioni paradossali, ma senza darne nessuna dimostrazione; i mali
deplorati, disse egli, non son di tutte, ma solo di alcune provincie e sono la
conseguenza della storia dell’Isola: ma l’on. Colonna di Cesarò gli rimbeccò
che il Franchetti ch’egli non aveva l’onore di conoscere da vicino, in quanto
alla mafia non aveva detto che verità, ed anzi gli era parso che avesse scritto
sulla falsariga del discorso ch’egli stesso aveva fatto alla Camera nel giugno
precedente.
Il Depretis, sbrigatosi
facilmente del telegramma da Messina con l’osservazione che il Governo inglese
nella sua correttezza ed amicizia non vi aveva fatto seguire nessun passo, fu
prodigo riguardo all’interrogazione di affidamenti e di promesse. Per la
pubblica sicurezza, che assicurò esser già più tranquillante, ma che a suo
avviso era il più grosso problema, avrebbe provveduto con migliori funzionari e
con l’unificare l’azione delle forze impiegate a tutelarla. In fatto di
viabilità egli ed il Ministro dei Lavori Pubblici presero persino l’impegno,
ora per buona fortuna da tempo assolto, per una nuova linea che per Messina e
le Calabrie unisse Palermo a Roma; ed in guisa di riparazione degli errori
della censuazione ecclesiastica magnificò i vantaggi che i Comuni avrebbero
potuto ritrarre da una migliore e più coscienziosa liquidazione della parte di
quei beni che loro spettava. Ma fu a proposito della mafia che la seduta si
fece più interessante.
L’on. Morana riprendendo la
parola, tentò di giustificare la tolleranza dei siciliani per la mafia e di
spiegare come, pur costituendo questa a parer suo una minoranza, i
galantuomini, che sono gran maggioranza, se ne lasciano imporre, e ricorse
all’imagine di un esercito invasore che marciando compatto mantiene sotto il
suo terrore disgregato e rassegnato il paese invaso. Non per questo si tacque
il Mancini, Ministro di Grazia e Giustizia: «Ho voluto studiare, egli disse, da
vecchio criminalista se il fenomeno della mafia da sè solo costituisse
reato e quindi potesse diventare oggetto di procedimento penale. Io non debbo e
certamente non intendo imporre la mia opinione a nessuno. Spetta ai magistrati
di pronunciarsi con piena indipendenza, ma io non posso nascondervi di avere
acquistato il convincimento che trattandosi di un’organizzazione latente o
manifesta di persone che si propongono di far prevalere la violenza,
l’intimidazione e l’inganno, per costringere i cittadini a non usare dei loro
diritti o per farli soggiacere a indebite coercizioni, una sana applicazione
del codice penale quale oggi esiste potrebbe bastare. Attualmente di questa
azione si fa appunto l’esperimento in due giudizi, ed ho disposto che si
prosegua fino alla Corte Regolatrice, acciò si stabilisca una massima
autorevole per tutti i tribunali. Stabilito e deciso che non si tratta solo di
una grande immoralità, ma di un reato preveduto dalla Legge penale, sarà dovere
del Governo e del Pubblico Ministero che ne dipende di esercitare un’azione
vigorosa per l’applicazione di questa massima».
Se l’on. Di Rudinì aveva posto
grande energia nel reclamare i provvedimenti che si dovevano prendere e non
furono presi dopo che la Giunta Parlamentare d’Inchiesta nominata con Legge ne
aveva fatto diligente enumerazione nella sua Relazione al Parlamento, dal canto
suo il Depretis a nome del Governo parlò con tale abilità e acquetò tutti con
una così gran dose di buona volontà che l’on. Di Rudinì dovè dichiararsi
soddisfatto, e anche l’on. Morana, per disciplina di partito, dovè ritirare una
sua mozione intesa a provocare un più ampio dibattito e che pure diceva appena:
«La Camera, confidando che il Governo del Re saprà soddisfare alle legittime
aspirazioni della Sicilia tutelando energicamente la pubblica sicurezza,
continuando nei provvedimenti intesi a rendere più celere ed efficace
l’amministrazione della giustizia, sviluppando il progresso economico
dell’Isola e dando il maggiore impulso al compimento delle opere pubbliche,
passa all’ordine del giorno».
Ahi, quanta distanza corse e
corre dalle parole ai fatti!
Ci ispiri tuttavia un po’ di
rassegnazione il ricordare che Leopoldo Franchetti, ritratto che ebbe con una
acutissima analisi storica e psicologica le condizioni medioevali della società
siciliana, e le chine fatali lungo le quali anche i migliori funzionari
governativi ne subivano involontariamente la triste influenza, pure riaffermato
che spettava al Governo di trasformare le condizioni della Sicilia per la
pubblica sicurezza come per il resto, e ch’esso solo poteva farlo in un breve
giro di tempo, nell’affacciare l’ipotesi di non essere ascoltato, non per
questo volle disperare, e solo constatò mestamente che non si può chiedere alle
forze isolane di operare prestamente su di sè quelle trasformazioni che nel
rimanente d’Europa hanno richiesto parecchi secoli.
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