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Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino
La Sicilia nel 1876

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  • LIBRO PRIMO   CONDIZIONI POLITICHE E AMMINISTRATIVE DELLA SICILIA
    • PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE
      • VII
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VII.

 

Se i miei amici si appagarono di dichiarare con brevi parole il loro accordo con la Giunta parlamentare negli apprezzamenti su fatti parziali, ma non nei giudizi generali, lasciando al pubblico di formarsi un’opinione sulle differenze che li dividevano, invece l’on. Bonfadini, Relatore della Giunta (poichè non vi è dubbio che egli stesso si celava sotto l’anonimo), ha voluto dare alla luce un lungo articolo di garbata polemica nei tre numeri del 20, 22 e 23 gennaio 1877 del giornale La Perseveranza di cui era assiduo collaboratore. Nel pigliarli qui in esame, mi accadrà forse di cadere in qualche ripetizione, ma spero che essa non riescirà a detrimento di chiarezza sulla interessantissima contesa.

Il Bonfadini non ha saputo spogliarsi del sentimento della sua superiorità di vecchio parlamentare, e, pure prodigando molti elogi agli autori dell’Inchiesta privata, e concedendo cattedraticamente che con pochi pentimenti di forma e di pensiero si sarebbero evitate le sue critiche, prende a partito prima il Franchetti e poi il Sonnino, ma sempre da un medesimo punto di vista di conservatore, sicchè agli occhi di chi si senta animato da uno spirito liberale quelle critiche si convertono in elogi.

Abbastanza esatto e perspicuo è il seguente riassunto ch’egli fa della sostanza del volume del Franchetti: «La Sicilia è tuttora governata nelle sue manifestazioni sociali dallo spirito medioevale, le cui caratteristiche principali sono due: un’assenza quasi totale della classe media, e la tendenza di tutti a credere l’autorità privata, qualunque ne sia la forma, e più forte e più legittima e più rispettabile che l’autorità del Governo e delle Leggi. Queste, ordinate secondo il sistema italiano di una prevalenza della classe media, non hanno trovato in Sicilia una base razionale su cui esplicarsi, e non hanno servito così altro che a sanzionare nella maggior parte dei casi, con una vernice di liberalismo le prepotenze e gli abusi degli antichi sistemi, lasciando da un lato la classe dominante che ha monopolizzato tutti gli uffici e le pubbliche funzioni a beneficio dei propri interessi e della propria supremazia, e dall’altro una classe sofferente di proprietari e di lavoratori del suolo che non trovano nella legislazione nazionale mezzi legali efficaci per migliorare il proprio stato, e che, se non ora, saranno tratti più tardi a trovare nella solita violenza i soliti scioglimenti della questione sociale».

Il Bonfadini trova giusta l’affermazione che in Sicilia il concetto delle forze e delle relazioni personali prevale sul concetto delle forze di Governo e delle relazioni pubbliche, ma trova esagerato che questo fatto produca una mancanza di sentimento degli interessi pubblici, e cita a suo sostegno sia il buon ordinamento di talune istituzioni di utilità pubblica, specialmente a Palermo ed a Catania, sia i larghi concorsi votati dai Corpi locali per opere pubbliche. Ma l’una cosa non è affatto in opposizione con l’altra: eppoi si tratta di proporzioni e sarebbe occorso analizzare e far cifre prima di concludere.

Più oltre il Bonfadini ammette pure che sia una delle più forti radici dei mali della Sicilia il difettarvi la classe media sulla quale altrove può appoggiarsi il sistema liberale della nuova Italia, ma trova esagerato l’averne tratto la conseguenza che il proletariato sia in balìa della classe abbiente, e lo argomenta dall’essere anzi non pochi i Comuni nei quali gli abbienti si lagnano di essere stati soverchiati nelle elezioni locali; ma è facile che si tratti di casi di reazione naturale, oppure di lotte di partiti amministrativi, e quindi, in quelle vittorie, i proletari se mai non rappresentano che un’etichetta, e per lo meno potrebbe dirsi che furono invocati e capitanati per ben altri interessi dei propri, allo stesso modo che da parte di altri si giungeva ad allearsi perfino con bande brigantesche avversarie fra loro, con la differenza tuttavia che l’imposizione della banda vittoriosa rimaneva per lungo tempo sul partito che l’aveva invocata, e invece i proletari non erano che alleati momentanei presto ricondotti sotto la propria sferza dal partito vincitore.

È scritto negli articoli: «Come conciliare l’asserita simpatia dei siciliani pei briganti con la storia dei ricatti, delle grassazioni, degli scrocchi a cui soprattutto è soggetta la classe dei proprietari, e che li costringe in tanti luoghi e per tanto tempo a vietarsi la soddisfazione e la vista delle loro campagne?». Certo al momento delle due Inchieste, e anche di sovente, vi erano molti signori i quali, per lo sdegno della vita di umiliazione che avrebbero dovuto condurre, si assentavano per lunghi periodi, lasciando alle prese coi briganti il loro gabellotto; ma viceversa, se non la simpatia, il manutengolismo di gabellotti e proprietari aveva proprio la sua prova, come ci venne ripetuto da più fonti autorevoli, nella sicurezza con cui quelli tra loro che non si erano rassegnati ad assentarsi, risiedevano sul luogo con moglie e figli, e giravano senza scorta anche se il territorio era infestato da una banda. Nella provincia di Palermo, e nelle altre zone in condizioni di sicurezza analoghe, ricatti, grassazioni e scrocchi erano vicende clamorose ma non frequentissime perchè verosimilmente riservate agli insofferenti delle tristi imposizioni e negoziazioni; ma non per questo potevano considerarsi per eccezionali, come avrebbe voluto il Bonfadini, specialmente quando e la Giunta Parlamentare, e noi, e la stessa Camera, insieme con le denuncie e deplorazioni della tristissima piaga, ricevevamo denuncie e deplorazioni circa i rapporti che funzionari dello Stato e personale della pubblica forza avevano avuto ed avevano con le bande, delle quali anche si servivano come loro mezzo poliziesco.

Non è vero che il Franchetti, come scrive il Bonfadini, abbia voluto escludere dagli uffici governativi della Sicilia tutti gli impiegati siciliani, e solo perchè gli è risultato che taluno fra essi fosse infido. Non v’è che da rileggere il suo § 105 per accorgersi che non solo egli ammette eccezioni, ma dichiara che gl’impiegati siciliani i quali intendono egualmente lo stato dell’Isola e quello della società moderna saranno istrumenti migliori di qualunque altro. La riserva circa la loro mentalità s’imponeva perchè da impiegati siciliani abbiamo sentito troppo spesso fare l’apologia delle repressioni violente, e, peggio ancora, della mafia ufficiale; vi fu perfino chi lamentò che non si ponessero limiti per legge o per regolamenti locali alle pretese di più alti salari. Così pure a torto si imputa al Franchetti di avere affermato che nell’Isola non v’è la possibilità di governare con l’opera combinata di quei cittadini e dello Stato. Il concetto ch’egli esprime ai paragrafi 103 e 106 corrisponde in ultima analisi a quello più felicemente espresso dal Sonnino al paragrafo 128, che la Sicilia, lasciata a sè, o con una rivoluzione, o col prudente concorso della classe agiata, avrebbe trovato il rimedio ai suoi mali e quindi al disagio dei contadini e dei lavoratori.

Il Bonfadini è costretto invece ad ammettere per giusta l’affermazione del Franchetti e del Sonnino che in Italia l’abolizione del feudalismo lasciò i contadini nelle condizioni di prima, e che nel 1860 furono sovrapposte leggi moderne a costumi medioevali, ma trova esagerata la conseguenza trattane che tutta la legislazione liberale dal 1860 in poi si risolve in polvere negli occhi, e li rimprovera di essersi lasciati soverchiare dall’amore di quella tesi la quale aveva già fatto capolino in altri loro precedenti lavori, che cioè ormai l’Italia trovavasi in presenza di una vera questione sociale già adulta e minacciosa. Questo rimprovero è ben naturale che esca dalla penna di chi nella Relazione della Giunta non trovava nemmeno da sorprendersi della miseria del contadino siciliano perchè peggio di lui vivevano i contadini delle risaie lombarde, i pastori della campagna romana, i cafoni delle balze silane, e tutto scusava con la peregrina osservazione, con la quale potè giustificarsi anche la schiavitù, che le diseguaglianze sociali sono base necessaria della società umana. Eppure attenuarle, addolcirle in ragione dei mille progressi, è anzi farle più provvide.

Comunque, il Bonfadini, nell’insieme del suo importante articolo, anche attraverso le non poche divergenze nelle idealità politiche e sociali, si è venuto sempre più accostando, quando n’ebbe avuto piena conoscenza, agli apprezzamenti di fatto e alle più importanti deduzioni dell’Inchiesta privata, tanto da chiudere l’articolo con queste parole, delle quali i miei amici non possono che essersi altamente compiaciuti: «Della Sicilia dovrà pur troppo occuparsi per un pezzo la nuova generazione politica, alla quale spetta riordinare, col sussidio dell’esperienza, quella patria che la generazione cadente ha tratto dal sepolcro secolare, rinnovandola di spiriti e di vigoria. Se quella dirittura di intenti e quella pertinacia di studi che furono consacrate alla loro recente Inchiesta privata, saranno dagli autori o da altri consacrate al resto delle Provincie italiane, la base dell’avvenire sarà ben presto posata su un terreno sodo, e chi ha fatto l’Italia, potrà con tranquillo animo rassegnarsi a vederla governata ed amministrata dai propri eredi, riservandosi il diritto di quel brontolìo che è innocua protesta dell’onesta vecchiaia contro la gioventù attiva e capace».

 




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