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Anton Giulio Barrili Con Garibaldi alle porte di Roma: 1867 IntraText CT - Lettura del testo |
Trecento uomini sulle braccia. La cascata delle Marmore. Poesia d'un viaggiatore e prosa d'un cicerone.
Mentre io spendevo il mio tempo in queste note statistiche, storiche e demografiche, il mio amico Burlando s'industriava più utilmente intorno al modo di partire da Terni. Il modo era trovato; ma bisognava aspettar due amici, Elia Schiaffino e Liberio Rombo, che, partiti dopo di noi da Genova, erano certamente in cammino per venirci a raggiungere.
- A domani, dunque; - disse il maggiore; - intanto che li aspettiamo, prenderemo lingua, vedremo da che parte sono andati gli altri genovesi, arrivati a Terni prima di noi.
Questi amici erano il maggior Mosto, i capitani Uziel, Cattaneo, Adamini, ed altri parecchi. Giunti a Terni due giorni prima, erano partiti da ventiquattr'ore per Rieti, conducendo un centinaio d'uomini, che il comitato di Terni aveva armati con vecchi fucili della benemerita guardia nazionale; fortuna questa che non potevamo sperare per noi, essendo il comitato rimasto all'asciutto.
La stessa mattina che noi eravamo scesi a Terni, altri drappelli di gente ragunaticcia partivano, sulle orme del drappello di Antonio Mosto, e noi avevamo ancora potuto vederli; male in arnese, senz'armi, senza un segno militare, nè berretto, nè camicia rossa, e quel che è peggio, senza conoscersi l'un l'altro, ufficiali e soldati. Questo è doloroso a raccontare: ma è storia, e non si muta. Giungeva a Terni un capitano, un maggiore, un colonnello? Qualche ufficiale trovato colà, o condotto in sua compagnia, gli veniva in taglio per dire: lo stato maggiore della colonna è composto, i quadri ci sono, non mancano più che i soldati. E i soldati giungevano; giungevano a centinaia da tutte le città dell'Umbria, delle Marche, della Toscana; gente d'ogni ceto, nuovi alla vita militare, la maggior parte tirati assai più da vaghezza di novità, che da un concetto profondo e dalla coscienza del dovere. Costoro, non scelti, non bene assortiti da esperti concittadini, non guidati da uomini di casa loro, che li conoscessero o potessero comandarli utilmente, calavano a Terni, dove anche prima di uscire dalla stazione trovavano il rappresentante del capitano X, del maggiore Y, del colonnello Z, che si affrettava a scriverli nel suo taccuino, - Ragazzi, volete venire? - Si parte subito? - Sì, questa sera si va a Rieti, a Scandriglia, al confine. - Andiamo; chi ci comanda? - Il tal di tale. - Benissimo, evviva il comandante. -
In questo modo si componevano le falangi, che dovevano andare a Roma. Io non accuso nessuno, perchè nessuno ne ha colpa. I comitati locali credevano che al confine ci fossero uomini, i quali sapessero scegliere, ordinare, condurre: i capitani che erano al confine credevano che i comitati avessero spediti i migliori. In tutti era una gran voglia di far presto, di partire, di giungere al fuoco. E si faceva presto, si partiva, si giungeva: ma come, Dio santo, e con che gente? Chiunque è stato a Terni in quei giorni, ed ha passato il confine, risponda per me.
Queste cose io vidi fin dal primo giorno, e dissi agli amici: non è così che si potrà andare a Roma. Avevo torto e ragione ad un tempo; torto, perchè tra i seimila che varcarono il confine c'erano duemila valorosi, degni soldati di Garibaldi; ragione, perchè i quattromila grami, cianciatori superbi dopo la vittoria di Monterotondo, lasciarono sempre soli alle busse i duemila, e parte al ritorno da Casal de' Pazzi, parte a Mentana, fecero quello che io forse racconterò, arrossendo, più tardi.
Parecchi ufficiali, nostri antichi commilitoni delle guerre passate, ci chiedevano: e voi? non fate un battaglione?
- No, - rispondeva il maggiore, - noi ce ne andiamo per nostro conto. Sciolti d'ogni vincolo, d'ogni malleveria, passeremo più facilmente e più allegramente il confine. -
Facevamo i conti senza l'oste, come ora si vedrà. Intanto, la partenza degli altri, mentre noi aspettavamo i due amici da Genova, ci serviva di lume, di guida, per la partenza nostra. I drappelli si avviavano a Rieti; prima di giungerci prendevano una scorciatoia, quella di Condigliano, che li conduceva a San Giovanni Reatino, donde muovevano per Torricella in Sabina; e di là, scesi nella vallata, risaliti i monti, ridiscesi da capo, sempre per orride strade, toccavano la meta desiderata, il confine pontificio.
Di quelle strade io ne conobbi parecchie, ardue, mal note, tali da farmi intendere come si potesse facilmente ingannare la vigilanza più assidua, più diligente, più accorta. Un reggimento di truppa regolare, comunque abilmente diviso, non può fermare lassù una banda d'uomini, la quale non oltrepassi i cent'uomini, ed abbia guide volenterose a condurla.
Ma perchè, dimanderete, perchè si partiva così alla lesta, senza ordinamento, per calare al confine senz'armi, o quasi? La ragione c'era, e calzante. Le notizie dei combattenti, sebbene gloriose, non erano allegre. Menotti, da molti giorni, teneva onoratamente al campo; ma perchè egli era più sotto al nemico di tutte le altre bande entrate sul territorio pontificio dai confini toscani e napoletani, era anche più facilmente assalito da uomini freschi e quotidianamente vettovagliati. Ciò lo costringeva a continue marce e contromarce, a frequenti scaramucce, che consumavano le sue scarse munizioni; e l'intemperie, il difetto di equipaggiamento, l'assoluta mancanza di giberne, da riporvi e da conservar le cartucce in buono stato, facevano il resto. Oltre di che, il dormire all'aperto, colle brine costanti, colla pioggia che spesso cadeva a catinelle, il mangiar malissimo e non tutti i giorni, l'aver male coperte le membra, e quasi nudi i piedi, riducevano quei primi drappelli in una tristissima condizione. Occorreva andarli a raggiungere, a rafforzare, e sopra tutto a prendere il posto dei caduti. Armi ne avevano poche, ma sicuramente più di noi, che non avremmo trovato un fucile, pagandolo a peso d'oro. Perciò, con quelle poche munizioni che il comitato di Terni era andato razzolando presso i comuni del vicinato, e con qualche fucile rugginoso delle loro guardie nazionali, i nuovi drappelli s'incamminavano, cantando l'"Addio, mia bella, addio" alla volta dei monti di Toffia.
Monti di Toffia, vi ho in pratica. Dodici ore di marcia, e quasi tutta notturna, su per le vostre forre, in mezzo alle vostre nebbie, con un piede su sdruccioli sassi e l'altro nel vuoto delle vostre frane, mi faranno ricordare di voi fino a tanto ch'io viva. E non senza allegrezza, perbacco! L'uomo è fatto così: soffre e maledice; poi gode al ricordo di ciò che ha sofferto e maledetto. Del resto, una metà della vita non è forse tessuta di ricordanze? L'altra metà, come tutti sanno, è tessuta di desiderii.
Torniamo al racconto. Aspettavamo i due amici da Genova. Gli amici giunsero infatti, trentasei ore dopo di noi. Ma credete che si potesse partire? Niente affatto. Insieme con la lor grata presenza, gli amici recavano l'annunzio che a Genova si era messo insieme un drappello di circa trecento; che quel giorno medesimo doveva essere in viaggio, e che gli amici di Genova raccomandavano a noi quella spedizione d'uomini, affinchè trovasse modo di passare il confine.
La nostra maraviglia.... dico male, il nostro stupore fu grande, all'udire quella novità. O come, chiesi io, trecento volontarii possono esser partiti da Genova, da quella Genova dove cinque giorni fa si spiavano i passi d'ognuno di noi, si tenevano d'occhio le strade ferrate, si frugavano i vapori, perchè nessuno riuscisse a sgattoiarsela per Firenze?
Pure, la cosa era così, come i due nuovi venuti annunziavano. E dopo di loro giungeva una lettera di Genova, che per l'appunto ci dava notizie della spedizione. Sapemmo allora che un giorno dopo la nostra partenza, per l'incalzar degli eventi era cresciuto a dismisura l'entusiasmo dei cittadini; si voleva da tutti che il governo smettesse di fare il gendarme, si voltasse in quella vece a più virili propositi, e intanto lasciasse andare chi voleva andare. Per mandare i fatti compagni alle parole, gli amici nostri avevano cominciato ad inscrivere tutti coloro che desideravano di correre al confine. Via Luccoli, dove aveva sede il comitato, era gremita di gente; al prefetto, nella confusione, erano caduti gli occhiali, e il degno gentiluomo non aveva veduto più nulla. Questo era su per giù quanto i cittadini volevano da lui; chiudesse un occhio, anzi, per colmo di cortesia, tutt'e due.
Queste ci parevano liete notizie per il paese; non già per noi, che dovevamo restarcene ancora due o tre giorni nell'ansia dell'attendere e nella difficoltà dell'ordinare tanti nuovi compagni. E inermi, poi! Basta, si sarebbe fatto come gli ultimi drappelli, andati sulle orme del Mosto; senz'armi, e ricevendo la promessa dal comitato di Terni, che ce le avrebbe mandate, come a quelli altri, a mala pena ne avesse.
Or dunque, addio libertà di correre all'impazzata, secondo il nostro talento! addio sognato viaggio notturno di re Manfredi alla volta di Lucera, col gaudio delle cose nuove che ci aspettavano, col rammarico delle dolci cose che avevamo lasciate, mistura di lieti e tristi pensieri, dond'esce e si spande una così larga vena di poesia! Armi, cartucce, vettovaglie, rattoppature di scarpe, ruolini di compagnia, situazioni giornaliere, questa sarebbe stata dunque la nostra poesia dei giorni seguenti!
Accenno qui il mio primo e involontario movimento di dispetto: ma mi piace di soggiungere che il giorno dopo, quando i nostri concittadini arrivarono, ebbi gran gioia di vederli, anzi di rivederli, perchè la più parte erano noti e cari commilitoni d'altre campagne. Più tardi, quando li vidi all'opera, e ne udii le lodi dalle labbra del più grande capitano d'Italia, su quel colmo di collina verdeggiante che corre dall'osteria della Cecchina al Casale de' Pazzi (così ha nome il Monte Sacro nella topografia moderna) mentre le palle fischiavano e miagolavano spesse intorno a Lui sorridente bersaglio alle carabine dei mercenarii d'Antibo, mi tenni superbo di appartenere a quella eletta e popolana schiera genovese.
- Verranno dunque domani; - diss'io. - Ogni pensiero si rimetta a domani.
- Cras ingens iterabintus æquor; - soggiunse il Pietramellara, che non dimenticava in nessuna occasione le sentenze di Orazio.
- E allora, - ripigliai, - nunc vino pellite curas. Ma non dovrebb'esser vino del nostro albergatore. -
Questo dialoghetto erudito finì col proposito deliberato di andarcene a pranzo.
La mattina vegnente (perchè io non istarò a raccontarvi minutamente tutti i nonnulla di una sera passata a zonzo per le strade di Terni) prendemmo una vettura da nolo, capace di sei persone, senza contare una settima che poteva stare a cassetta col vetturino, e ce ne andammo a visitare la cascata delle Marmore, una delle sette meraviglie d'Europa.
Era il 17 di ottobre; giornata bellissima; cielo limpido, di zaffiro; aria tiepida, come di primavera. La via, piana per un bel tratto fuori delle mura, dove passa il fiume Nera, s'innalza a gradi, s'inerpica sul fianco di una montagna, di cui non rammento il nome, ma che somiglia moltissimo alla pinifera costiera per cui, nella mia Liguria, i cittadini di Cogoleto non possono vedere quei d'Arenzano. Sotto di noi, ad una certa distanza, rumoreggia la Nera, già maritata al Velino, che le si precipita in grembo dall'alto delle Marmore; tra la fiumana e noi, seduto sulla cima d'un poggio, sta un gaio paesello che porta il nome di Papigno, famoso per la bellezza e il sapore delle sue pesche. A mano a mano che si sale, la vallata di Terni apparisce ciò che è veramente, e che, standole in grembo, non si può vedere nè godere; voglio dire un maraviglioso sfondo di prospettiva, con uno di quegli orizzonti vaporosi e caldi che sono una bellezza particolare della campagna romana.
Adesso, lettori umanissimi, eccoci arrivati. La via si fa piana, e ci si para davanti agli occhi una casina bianca, che porta sul suo lato più appariscente una scritta. Leggiamo e intendiamo che ivi abita il personaggio più importante dei luoghi; nientemeno che il cicerone della cascata. Smontiamo, ci mettiamo nelle sue mani, e fatti pochi passi nei vigneti incominciamo a sentire un rumore d'inferno. Il cicerone sorride al nostro stupore, e con un bel gesto classico c'invita a proseguire la via.
- Venite, - diss'egli, - venite, signorini, e vederete se cos'è. -
Di ciglione in ciglione, per sentieruoli campestri, si scende fino ad una balza, che è un vero posto avanzato sull'abisso. C'è un rustico edifizio quadrato, abbastanza somigliante a quelle tali cappelle svizzere che portano il nome di Guglielmo Tell e si vedono spesso riprodotte sui paraventi dei caminetti o sul fondo dei vassoi; quattro pilastri di mattoni, un murello intorno coi suoi sedili di pietra, un tetto a quattro acque, e nient'altro. Corriamo là dentro, mettiamo fuori la faccia; che strana veduta, da mettere i brividi!
"Frastuono d'acque! dalla balza scoscesa il Velino attraversa il precipizio scavato dall'onde. Caduta d'acque! rapida come la luce, la massa zampillante spumeggia, crollando l'abisso. Inferno d'acque! dove esse urlano, fischiano, ribolliscono in eterno tormento, mentre il sudore della loro grande agonia, spremuto da questo lor Flegetonte, si rigira intorno alle negre roccie lucenti che fiancheggiano il gorgo, immobili nella spietata orridezza;
"E sale in ispuma al cielo, donde ancora ricade in continuo nembo, che scorre dalla sua nuvola inesausta di amica pioggia; eterno aprile al terreno, che si fa tutto uno smeraldo. Come profondo il vortice! e come l'elemento gigante balza di roccia in roccia con salti forsennati, scuotendo i massi, che già rotti e travolti dai suoi passi feroci danno per le lor fenditure un pauroso varco
"Alla vasta colonna che sopra vi scorre, più somigliante alle scaturigini di un Oceano fanciullo, prorompente dal grembo delle montagne in doglia per un nuovo mondo, anzi che ad un padre di fiumi che gorgogliando scorra co' suoi serpeggiamenti attraverso la valle. Volgetevi a guardare; ecco, essa viene come una eternità che ogni cosa abbatte nel suo corso, affascinando di paura lo sguardo; cateratta senza pari,
"Orribilmente bella! Ma sull'orlo dell'abisso, dall'uno all'altro lato, sotto il limpido mattino, siede un'Iride in mezzo al vortice infernale, pari alla speranza su d'un letto di morte, e, non scemate mai le ferme tinte, mentre tutto all'intorno è lacerato dalle acque sconvolte, serba serena i suoi brillanti colori con tutte le loro non ricise strisce; rassomigliando, in mezzo alla tormentosa scena, Amore vigilante la Follia con immutabile aspetto."
Questa è povera prosa, che rende male quattro novene maravigliosamente descrittive del Childe Harold. Ma il precipizio in cui si slancia il Velino non è tutto scavato dalle acque, come potrebbe far credere a prima giunta il wave-worn del testo inglese. La cascata è artificiale; il suo taglio è ardimento romano; e la storia tramanda che fu operato dal censore M. Curio Dentato, nell'anno 481 ab Urbe condita, per asciugar le paludi dell'agro di Rieti; il quale era appunto (com'è tuttavia, vi prego di crederlo) più alto della vallata di Terni, e il Velino, stagnando lassù, gli era proprio d'impaccio. L'opera del bravo censore sanò la campagna reatina per modo che questa divenne in breve saluberrima, e meritò d'esser chiamata la Tempe d'Italia.
Tempe, chi nol sapesse, era una bellissima valle della Tessaglia, tra i monti Olimpo ed Ossa, presso la foce del fiume Penèo che le scorreva nel mezzo, come appunto il Velino nella valle di Rieti. Antiche tradizioni recavano che la gran pianura della Tessaglia fosse un tempo tutta allagata, e che finalmente le acque si scaricassero di colà per la via di Tempe, aperta con un colpo di tridente da Nettuno. Altri dicono da Ercole, con un colpo di clava: ad ogni modo il mito raffigura un gran cataclisma geologico avvenuto in Tessaglia; laddove a Rieti fu opera di quei grandi Romani, che, quando volevano far miracoli, non avevano bisogno di far capo agli Dei.
Tempe italiana! il nome le è derivato da un cenno di Cicerone; il quale, scrivendo all'amico Pomponio Attico d'un suo viaggio colà, dice chiaramente: "Reatini me ad sua Tempe duxerunt." Ma ritorniamo alla nostra cascata, cagione di tanta felicità per l'agro reatino e di tante, digressioni per me. Impedito più volte nel corso dei secoli questo sbocco del vorticoso Velino, fu più volte restaurato, e da ultimo sotto il papa Clemente VIII, nel 1598. Ora la mano dell'uomo non si ravvisa punto in quello scoscendimento, coperto com'è d'incrostazioni calcari, che arieggiano i più sottili ricami, molle di muschio, stretto intorno da piante ed erbe rigogliose che sembrano deliziarsi nei continui spruzzi di quella fiumana scintillante d'argento, che si versa in maestoso volume dall'altezza di trecentosettantacinque metri. Caviamoci il cappello!
Un po' più lontano da quella gran massa lucente, si scorge seguire la medesima strada un solitario fil d'acqua. E dico filo, a cagione della sua smisurata vicina, che lo fa parer tale. Chi lo ha persuaso a far cammino da sè? Io lo scambiai per un amante malinconico, a cui facesse dolore la vacillante maestà della donna amata; Cosìcchè egli protestasse in certo qual modo, non volendo starle vicino, e non osando ad un tempo andarsene troppo lontano. Povero innamorato, consòlati! Il destino, più forte di te, di lei, delle vostre gelosie, vi ricongiungerà in fondo all'abisso, dove esulterete confusi ambedue, risospinti in aria dal cozzo, e mutati, non so se in larga spruzzaglia o colonna di fumo, che l'una cosa e l'altra mi parve ad un tempo; e l'iride, segno di pace, distenderà pietosa sul vostro amplesso forsennato l'arco sublime dei suoi sette colori.
Questo arcobaleno perpetuo, ch'è una delle grandi bellezze della cascata, non è stato ricordato soltanto da lord Byron; in tempi per noi antichissimi fu ammirato da Plinio, il naturalista, che scrive nella grande sua opera, al capitolo LXII del secondo libro, ove tocca delle particolarità del cielo nei varii luoghi della terra: "et in lacu Velino nullo non die apparere arcus." Che bella cosa, alla distanza di quasi duemill'anni, aver tutti contemplato il medesimo spettacolo! Noi passiamo, noi che siamo fatti di carne, d'ossa e di colpe; ma l'arcobaleno della cascata di Terni, lieve, impalpabile, frutto degli amori del sole con le gocce d'acqua, rimane, e rimarrà finchè durino l'acqua ed il sole.
Se io vi stèssi a sciorinare tutte le fantasie che mi passarono per la mente laggiù, non la finirei tanto presto. Andate voi, con le vostre gambe, a vedere coi vostri occhi, a fantasticare colla vostra mente, che io qui faccio punto. Ma prima di tutto, quando sarete alle Marmore, pregate il signor Giuseppe Conti "guida della cascata" a liberarvi da quella turba di ragazzi, che col loro serrarvisi ai panni, con le loro grida importune, vi guasterebbero il piacere di quella scena stupenda.
Con essi non giova aver soldi in tasca; più ne date, più ne domandano. Noi li avemmo tutti alle costole; e tra essi più molesta una ragazzina tredicenne, chiamata Barbara. È il nome di molte donne, laggiù; non ho avuto il tempo di sincerarmi se siano tali anche di fatto. Quella Barbara era belloccia, ed uno della brigata la battezzò per la ninfa delle Marmore; ma si fece brutta seccandoci col suo voler sempre denari. Ninfa venale! L'amico l'aveva chiamata "bella, ma sudicia"; e lei subito era corsa a lavarsi il viso e le mani in un rigagnolo, per ritornare ora con un pezzo di stalattite, ora con un mazzetto di fiorellini selvatici; cose tutte che dimandavano soldi, e poi sempre soldi.
E il peggio era questo, che ad ogni soldo dato a lei per levarcela dai fianchi, saltavano su tutti gli altri marmocchi, gridando:
- E a me, signorino, non me date più gnente? Barbara ha avuto sette soldi; io ne tengo appena cinque, ne tengo.
- Che il cielo vi benedica, graziosi ragazzi! levatevi una volta da romper le tasche; - rispondevamo noi. Il cicerone, più latino di lingua, soggiungeva:
- E annate 'na vorta, che possiate morì' d'accidente! -
Ma l'aiuto del cicerone non andava più in là d'un semplice augurio.