Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Anton Giulio Barrili
Con Garibaldi alle porte di Roma: 1867

IntraText CT - Lettura del testo

Precedente - Successivo

Clicca qui per nascondere i link alle concordanze

VII.

 

La bella gigantessa. Fermate ed ansie di Torricella. Giungono i fucili e passa Garibaldi.

 

I terrazzani di San Giovanni Reatino stavano al riparo sotto le basse volte dei rustici portoni, o nel vano delle finestre, a guardare con aria tra curiosa e pietosa la nostra marcia, o,  per dir meglio, la nostra navigazione.

Noi, sulle prime, non pensavamo affatto a fermarci. La guida di Condigliano ci aveva detto che a Torricella si poteva giungere quella medesima sera; e noi, anche a risico d'immollarci fino al midollo delle ossa, volevamo guadagnar terreno. Non erano della stessa opinione i cavalli; i quali, tra per l'acquazzone che li colpiva di fronte e per aver fiutato il soave odor di fieno, s'impuntavano in mezzo alla strada e sparavano calci ad ogni stratta, ad ogni colpo di tacchi, che noi davamo con molta costanza nei fianchi a quei ribelli cornipedi.

Povere bestie, dopo tutto! parevano dirci con quella mimica: "Per chi ci avete voi presi? Sta bene a voi di andare in perdizione, se vi pare; ma alle bestie non si deve chiedere più di quello che possono dare. Ed anche a voi, per l'anima di Chirone, uomo e cavallo, dovrebbe piacere una bracciata di fieno nella mangiatoia e un po' di paglia per riposare al coperto. Fermiamoci, via, non sarà poi un gran male."

Intendemmo il ragionamento dei due cavalli; udimmo le voci dei terrazzani, che ci gridavano d'ogni banda: "fermatevi qui, giovinotti" e deliberammo di contentar gli uni e gli altri, non senza aver chiesto da prima se in quel paesello ci fosse un luogo da ricoverare i nostri compagni. - Sì, c'è il luogo, e paglia in abbondanza; - risposero.

- Bene, pernotteremo a San Giovanni Reatino; venga il sindaco, o l'assessore anziano, e provveda a queste poche cose che ci bisognano. -

Il ragguardevole personaggio che noi chiedevamo fu pronto a capitare, ed allogò la nostra gente in una chiesuola, con quanta paglia occorreva. Ma già s'indovina che pochi rimanessero colà. Dieci minuti dopo aver posto il piede nell'alloggiamento comune, la più parte se n'erano trovato un altro alla spartita, nelle case di quei buoni contadini; e la stipa crepitava in tutti i focolari, sotto a tutti i paiuoli, a tutte le padelle, a tutte le cazzaruole di San Giovanni Reatino.

Quanto a noi, finito di pensare agli altri, ce n'eravamo andati in una osteria che il Bernardini aveva adocchiata fin da principio, e dove già stava preparando la cena. Quell'osteria mi è rimasta in mente a cagione della fantesca, stupenda per bellezza colossale di forme, che la facevano parere una statua, anzi che una donna di carne e d'ossa.

Costei se ne stava ritta sull'uscio, appoggiata allo stipite, cogli occhi volti all'orizzonte; e pareva non voler dare ascolto alle cose gentili che le andava bisbigliando all'altezza dell'omero un cosettino tant'alto, mingherlino e scialbo, vera figura di Momo accanto a Giunone.

Seppi più tardi da Barbara (si chiamava Barbara anche lei) che quello era il suo damo, o, per dir più esatto, il pretendente alla sua mano. E mi parve uomo di buon gusto, quel cosettino tant'alto; ma pensando ora al caso suo, non posso lodare egualmente il suo senno. Barbara era una gigantessa, al paragone di lui: s'egli ha ottenuta la sua mano, badi a non sentirsela addosso. Guai al poveraccio, se Barbara un giorno va in collera! guai se lo ama troppo fortemente! perchè in ognuno dei due casi, egli è un uomo spacciato. Nel primo, me ne fa una frittata; nel secondo, un lucignolo.

Dopo tutto, auguro alla coppia diseguale ogni bene: desidero che pel miglioramento della specie in San Giovanni Reatino, i figli di questo imeneo riescano una spanna più alti del padre, una spanna più bassi della madre.

Questa coppia d'innamorati e una coppia di bottiglie che ci mandò il parroco del luogo, cortese antidoto all'orribil mistura che ci voleva far trangugiare l'ostessa, sono i ricordi più notevoli della nostra fermata a San Giovanni. A noi premeva di andarcene; e poichè nella notte il cielo s'era fatto sereno, deliberammo di rimetterci in cammino per tempo.

Non tutti ci seguirono. I nostri compagni, non essendo ancora militarmente ordinati, amavano far le cose a bell'agio. La mattina del 21, alla levata del sole, dormivano ancora della grossa. Tanto meglio; avremmo potuto giunger primi a Torricella, per preparar loro alloggi e panatiche.

La strada che conduce da San Giovanni Reatino a Torricella è la più solitària, la più triste che io abbia veduta mai. Si passa in mezzo a un doppio ordine di colline senz'alberi, lungo il letto di un torrente, del quale non ricordo più il nome. Non una casa, non un tugurio, da vicino da lontano; solo qua e , tra i giuncheti del rigagnolo asciutto, si scorge un branco di pecore che va pascolando, o uno smilzo puledro che trascina malinconicamente la sua cavezza di poggio in poggio, e addenta svogliatamente di tratto in tratto qualche fil d'erba, forse pensando con desiderio giovanile alla biada, che gli fa vedere troppo di rado il rustico padrone.

Poco prima di Torricella vedemmo finalmente un po' di alberatura, che ci rallegrò lo sguardo come una non più sperata novità. Qui, preso lingua dal primo contadino in cui ci fossimo imbattuti dopo tanto camminar nel deserto, lasciammo la strada maestra, salendo per una viottola a diritta; e dietro una bella collina, il cui dorso ce l'aveva fino a quel punto nascosta, salutammo la meta del nostro viaggio di quel giorno, Torricella in Sabina.

Torricella in Sabina! Questa giunta al nome serve a distinguere il paesello da cinque altre Torricelle sparse nell'alta e nella bassa Italia; gli abitanti, del resto, non tralasciano mai di ricordarla, tenendosi molto, e giustamente, della loro stirpe sabina.

Sono ottima gente, cortesi senza fronzoli e ospitali con tanto di cuore, come i loro antichissimi padri. Ricorderò sempre con gratitudine il sindaco e il segretario comunale, che erano due fratelli, Enrico e Domenico Pitorri. Si ricorderanno essi, con pari tenerezza, di noi? Se debbo dir tutto, mi pare che quei due ragguardevoli cittadini non vedessero di buon occhio il nostro viaggio e l'avessero anzi per una mattìa da rompicolli. I nostri ospiti (poichè in casa loro ebbi la più lieta accoglienza) non potevano capacitarsi del come noi si sperasse di far opera gagliarda senza l'aiuto del governo. Inutile riferir qui le risposte nostre e le repliche loro. Essi liberali temperati, noi avanzati, rappresentavamo due forze allora necessarie; e guai se una fosse mancata, guai se l'una o l'altra avesse soverchiato; addio equilibrio che ci ha tenuti in piedi; addio cospirazione di venti, e di eventi, che ci ha condotti in porto. Le ragioni che potevamo scambiarci allora, tre anni prima del 1870, che effetto farebbero ora? Io qui scrivo ricordi, del resto, e non fo smercio di alta politica.

Torricella è un gaio paese, fatto d'una strada sola come tutti i piccoli paesi, bello o brutto secondo i gusti e gli umori, con antichi edifizi anneriti dal tempo e ridotti ad apparenza di catapecchie, con catapecchie moderne che in grazia dell'intonaco la pretendono a palazzine; pittoresco, insomma, come tutto ciò che è svariato di forme e ben temperato di tinte.

Mi duole di non sapervi raccontare la sua storia, non avendo avuto tempo a chiederne, e non possedendo libri che ne parlino: me ne duole, ripeto, perchè a Torricella ho notato un antico castello, severamente murato verso il basso della borgata, quasi a custodia della strada contro la gente che veniva dalla parte di Roma; il quale ha certamente veduto assai cose. Ed io non l'ho interrogato, non mi son fatto dir nulla.

Che volete? Avevo tanti altri pensieri m mente, e tutti più urgenti. Eravamo finalmente vicini a quel sospirato confine. In una sola marcia potevamo giungere a Scandriglia: ancora quattro passi di , e si era sul territorio a noi conteso dalle pretensioni temporali di san Pietro, o dei suoi successori. Sul primo lembo di quel territorio avremmo ritrovato Menotti Garibaldi colla sua prima colonna di animosi giovani, e il Mosto, e l'Uziel, ed altri amici partiti da Genova due giorni prima di noi.

Questa era la bella apparenza delle cose: ma la sostanza?... Come saremmo arrivati? Eravamo noi certi della via? e potevamo noi cercarla a tentoni, con trecento uomini disarmati sulla coscienza? Notate che degli insorti e dei fatti loro non avevamo da tre giorni alcuna notizia sicura; che le scarse ed incerte voci da noi raccolte lungo la strada recavano essersi Menotti allontanato da Montelibretti per andare alla volta di Percile. Quella marcia, se pure doveva credersi vera, che cosa significava? a che cosa accennava? allo scopo di avvicinarsi alle bande che dovevano giungere dagli Abruzzi, o ad uno stratagemma per ingannare il nemico? E che cosa dovevamo noi fare? in che modo diportarci, per raggiungere il giovane e valoroso generale? Così senz'armi, non c'era che un modo; non oltrepassare, ma rasentare il confine, da Scandriglia a Canemorto (un nome -  -  - - - cambiato poi in quello di Orvinio) e così, errando per monti e per valli, indovinare il luogo e il momento opportuno per farci innanzi.

Ora, se questo era l'unico disegno a cui si potesse metter mano, immagini il lettore come fossero lieti i nostri pensieri. Intanto i nostri compagni chiedevano armi; le chiedevano ogni momento a noi, quasi che noi potessimo cavarcele dalla testa come Giove si cavò Minerva coll'asta in pugno e lo scudo imbracciato, o dal nulla con un fiat, come Domineddio il cielo e la terra.

I buoni abitanti di Torricella, mossi a pietà del nostro stato, si auguravano di aver armi quante ne occorrevano per noi; frattanto, a testimonianza di buona volontà, ci offrivano quattordici fucili, cinque dei quali erano stati caricati due o tre anni innanzi, ma non avevano più i cappellozzi. Comunque fosse, accettammo il presente, che in quelle circostanze ci parve la man di Dio; ma non ardivamo farne parola ai nostri uomini, temendo che si mettessero a ridere di quella miseria.

Si sperava ancora che il Pietramellara giungesse da Terni, con armi e munizioni. Ma quali armi, e quali munizioni? Non ne sapevamo niente, ma speravamo; speravamo come il naufrago nell'isola deserta, che attende un naviglio, il quale lo scorga lui da lontano, proprio lui, e si accosti alla riva per prenderlo a bordo; come un povero diavolo che per pagare una cambiale vicina alla scadenza, aspetta le centomila lire della lotteria di Milano.

Questa volta la speranza mostrò di non meritare gli epiteti poco amorevoli onde l'ha gratificata l'illustre autore dell'Assedio di Firenze. Infatti, nella medesima sera, e in quella che stavamo seduti a tavolino, colla carta del confine spiegata davanti a noi, e mestamente sorseggiando una tazza di caffè, parecchi dei nostri salirono affannati le scale, gridando: "le armi! son giunte le armi."

Il grido "terra, terra" levato dalla gabbia dell'albero di maestra della Pinta, non fece, io penso, tanto piacere a Cristoforo Colombo, quanto a noi quello dei nostri compagni: "le armi! son giunte le armi."

Scendemmo a precipizio in istrada e trovammo per l'appunto due carri che si fermavano allora davanti all'uscio, accompagnati da cinque o sei dei nostri amici, da noi lasciati in vedetta a Terni, perchè nessuno avesse a beccarsi il sospirato soccorso, caso mai ci fosse stato spedito da Genova. Ludovico di Pietramellara era il duce; con lui era un nuovo venuto, genovese, Lorenzo Manari.

Dati pochissimi istanti agli abbracci e alle strette di mano, chiedemmo che cosa ci fosse nei carri.

- Trecento fucili; - risposero gli amici; - un po' di cartucce, qualche coperta di lana e alcune paia di scarpe. -

Come aveva potuto venire quella grazia di Dio? come piovere a noi quella manna dal cielo? Le nostre prime lettere agli amici di Genova non erano state scritte invano. Giovanni Fontana, Alessandro Piatti e gli altri egregi colleghi del comitato genovese si erano affrettati a comprare quanti fucili avevano potuto trovare in città, e ce li avevano spediti, incaricando dell'accompagnamento il capitano Manari, che veniva egli pure al confine. Giunto a Terni colla preziosissima merce, Lorenzo Manari aveva trovato il vigile Pietramellara; ambedue capitavano il giorno appresso a Torricella, non senza aver prima ottenuto dal comitato di Terni le munizioni occorrenti e quel po' di roba che c'era nei magazzini.

Il Manari portava inoltre una lettera, da Firenze, che lo nominava intendente dei volontari per tutta la riva sinistra del Tevere.

Pensate la nostra allegrezza. Oramai si poteva metter mano a formare un battaglione e allestirci per l'andata al confine. Tosto si deliberò che la mattina -  -  - - - vegnente si spartissero gli uomini in tre compagnie: frattanto, poichè si diceva in paese essere il confine gelosamente custodito da forte nerbo di soldati, il Pietramellara sarebbe andato nella notte a Scandriglia, per pigliar lingua, e ritornar sollecito a noi con le notizie opportune.

L'amico accettò volentieri l'incarico e partì. Noi, chiuse le armi e le munizioni in casa, e poste le sentinelle a custodia, ce ne andammo a letto. Era l'ultima notte che dovevamo dormire tra le lenzuola, e bisognava approfittarne.

Ma ohimè! era scritto lassù che quelle poche ore di quiete ci fossero turbate, amareggiate da una triste notizia. Morfeo scuoteva ancora mollemente sulle nostre fronti i papaveri del primo sonno, allorquando verso le due dopo la mezzanotte, una delle nostre sentinelle venne a destarci, conducendo nella camera un contadino arrivato da Scandriglia con un biglietto per noi.

Lo leggemmo alla fioca luce d'una candela di sego, coi gomiti appuntati ai guanciali. Era il Pietramellara che ci mandava pochi versi a matita, mezz'ora dopo esser giunto a Scandriglia.

- Perdio! - esclamò il maggiore Burlando, dopo che ebbe guardato lo scritto, e nell'atto di passarlo a me.

Lessi anch'io, ma mi parve di aver letto male. Mi stropicciai gli occhi e lessi da capo, quindi tornai a leggere ancora. Erano cattive notizie. Gl'insorti, per difetto di munizioni e di viveri, non potevano tener la campagna. Però, sperando di rifornirsi, erano venuti al confine; ma non potendo raccogliersi dentro Scandriglia, dov'era già a quartiere un buon numero di soldati regolari, avevano dovuto sparpagliarsi in piccoli drappelli nelle vicinanze del paese; non così lontani tuttavia gli uni dagli altri, che non si potesse in breve ora adunarli.

L'annunzio ci riuscì doloroso oltre ogni credere. Ecco, dicevamo tra noi, ora che abbiamo le armi, non possiamo andare più avanti. Arrivati a stento fin qua, dovremo starcene con le mani in mano?

Per quella notte non fu più il caso di dormire, Ludovico prometteva di essere il giorno appresso da noi: intanto ci mandava l'ordine di Menotti, che era quello di rimanere a Torricella, paese fuori mano, in attesa di nuove istruzioni.

La mattina del 23 fu malinconica assai; tanto più malinconica perchè dovevamo sforzarci di nascondere la nostra tristezza ai compagni e dar buone parole a quanti ci domandavano l'ora della partenza. Per tenerli a bada, cadeva in taglio la formazione delle compagnie. Il maggiore assegnò a ciascheduna i suoi uffiziali, nominò i sergenti, che dovevano formare a lor volta le squadre; bisogna che occupò fortunatamente una parte della mattinata. Era tanto di guadagnato.

Mentre i sergenti davano opera alla formazione delle squadre, noi ce n'eravamo andati poco discosto dall'abitato, verso la strada maestra, a salutare la quercia di Garibaldi. Così chiamano a Torricella una quercia, sotto la quale, nel 1849, il gran capitano si era riposato alcuni minuti, passando da quelle parti, dopo la eroica difesa di Roma. Quella quercia è sacra pei buoni abitanti di Torricella; e se ne tengono, come altri luoghi farebbero d'un monumento della passata grandezza, e l'additano con venerazione a quanti forestieri passano di .

Ed hanno ragione. Il rispetto per ogni cosa che rammenti i grandi cittadini è una bella maniera di gratitudine, e in pari tempo un incitamento, un esempio. Noi, stirpe tralignata dal buon seme latino, se siamo ancora venuti a capo di cosa alcuna che porti il pregio d'essere raccontata ai futuri, dobbiamo darne merito alla virtù dei ricordi che hanno nutrita la nostra giovinezza.

In quella che noi andavamo, e la storica quercia ci conduceva col pensiero desideroso alla Caprera, dove il gran capitano certamente si doleva della ignavia italiana, ecco, si ode sulla strada maestra, che corre poco più sopra di noi, il rumore di una carrozza che passa veloce, e poco stante molte voci di nostri compagni, che ci avevano preceduti, gridano festosamente: "Garibaldi! Garibaldi!"

- Che è, che non è? - Garibaldi! è passato Garibaldi. - Ma come? - Or ora, in carrozza; era con Stefano Canzio; ci ha salutati; va diritto a Scandriglia. -

Non mi proverò a descrivere il tumulto dei miei pensieri, all'udir quelle nuove. Anche volendo, non saprei. So benissimo che c'era maraviglia e stupore, contento ed ebbrezza, e quasi mi pareva d'impazzire. E mi sovvenne ancora delle cattive notizie ricevute da noi nella notte.... Come tutto era di punto in bianco mutato! Ed era un uomo solo, che operava il miracolo.

Raccapezzatomi un tratto da quello stordimento, immaginai le cose che dovevano essere occorse nelle acque della Caprera. Stefano Canzio era venuto a capo del suo disegno: il Generale aveva delusa la custodia delle navi da guerra e aveva toccata la terraferma. Questo s'intendeva: ma come, giunto a Genova, o a Livorno, od altrove, aveva egli potuto proseguire la via? Certo, era passato per Firenze; ma che cosa era avvenuto colà? Caduto il ministero? o il governo aveva fatto di necessità virtù?

Tutte queste domande, ed altre consimili, mi giravano per la testa, si urtavano, si arruffavano, si confondevano, senza trovar punto risposta. A me e agli amici che erano nel caso mio avveniva allora quel che avviene certe volte a chi beve un primo sorso dopo lunga penuria d'acqua, che il bere gli accresce la sete.

Ma bisognò appender la voglia all'arpione, ovvero, poichè non c'era un arpione, ai rami della quercia, sotto cui stavamo ad almanaccare. Alle corte, l'essenziale era noto: Garibaldi era giunto; andava a Scandriglia; e certo, dov'era lui, si passava il confine.

 

 

 




Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License