Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
Anton Giulio Barrili Con Garibaldi alle porte di Roma: 1867 IntraText CT - Lettura del testo |
VIII.
Carabinieri Genovesi e Carabinieri Reali. Il passo difficile e l'augurio del doganiere. Ricordo di Pietro Cossa.
Ce ne tornammo poco stante in paese, con la fronte alta e il piè leggero. La famiglia del sindaco ci aveva fatta preparare la colazione, e il corpo, partecipando alle contentezze dell'anima, non ricusò di nutrirsi. Se vi dicessi che in quella occasione non si tracannò un bicchiere più dell'usato, vi metterei qui una solenne bugia, e avreste centomila ragioni a non credere più una sillaba di questo racconto.
L'ordinamento del battaglione era a buon punto: fatte le compagnie, ognuno riconobbe i suoi ufficiali; ogni squadra i suoi sergenti e i suoi caporali: poi si diè mano alla distribuzione e alla ripulita delle armi, cose che destarono molta allegria nelle file. Non sempre il volontario conosceva il suo fucile, ed io ne ho veduto dei molto solleciti a buttarlo nel fosso; ma egli è sempre felice quando lo ha per la prima volta tra mani; lo palleggia allegramente, ne prova il grilletto, se è di buona latinità; si affretta a ripulirlo dentro e fuori, lo vagheggia, insomma, come se fosse una innamorata. Se poi è una carabina (dolce femminilità di sostantivo!) la gioia e la sollecitudine sono dieci volte più intense; l'arme diventa una persona viva, si giunge perfino a metterle un nome. La carabina di un amico mio nella campagna del Tirolo si chiamava Ninetta; quella di un altro la Scherzosa; e così via, tutte quante avevano un nome, soave o terribile, serio o faceto, secondo l'umore dei loro innamorati padroni. Cosa che avviene ancora per le sciabole. Quella di un mio collega si chiamava la Sitibonda. - Buttala nel Chiese, gli diss'io quando ripassammo quel fiume a guerra finita; si caverà finalmente la sete. -
Tornando ai fucili e alla distribuzione fatta, una trentina d'uomini rimasero senz'armi; la qual cosa li addolorò grandemente. Li chetammo, dicendo loro che di là dal confine, o ne avremmo avuto da altri battaglioni meglio forniti, o alla prima occasione avrebbero raccolti i fucili dei morti.
Eravamo ancora in quelle faccende, quando giunse il Pietramellara. Egli aveva veduto il Generale, e portava la notizia che tutte le bande raccolte nei dintorni di Scandriglia si mettevano in marcia. Noi pure dovevamo andar subito al confine, ma senza passare per Scandriglia; e il nostro itinerario, scritto a matita sopra un pezzetto di carta, era questo:
- "Evitare il passo di Osteria Nuova, e passare i monti di Toffia sopra Carlo Corso; quindi per Carpignano scendere sullo stradale romano; colà deviare, innanzi di giungere al passo di Corese, prendendo la traversa che conduce a Montemaggiore."
Non indugiammo ad obbedire. Le armi erano distribuite. Mandato avanti con buona scorta il carro delle munizioni, salutati affettuosamente i nostri ospiti cortesi, lasciammo Torricella alle due pomeridiane del 23 di ottobre, accompagnati da un'acquerugiola fine e continua, che è, come pare, la solita benedizione del cielo per tutti coloro che viaggiano a piedi.
Si scende, tuttavia, si scende di lieto animo, cantando il Fratelli d'Italia al buon popolo di Torricella che ci saluta dai margini della strada maestra, dalle finestre dei casolari, dalle prode dei campi, e poi dal marziale dell'inno di Goffredo Mameli passando al patetico dell'Addio, mia bella, addio, dato prodigamente agli echi della valle solitaria in cui siamo inoltrati, lungo la sponda di un corso d'acqua di cui non ricordo più il nome, e ignoro se sia fiumicello o torrente. La pioggerella è cessata; il sole si affaccia ancora tra le nubi squarciate e le tinge di rosso; la sua tinta favorita delle ore pomeridiane. È il caso, oramai, di ritrovare una guida, per farci evitare Osteria Nuova, che può esser distante un'ora di strada; e già si pensa a cercarla, quando si sente dietro di noi lo scalpitar di un cavallo. Ci voltiamo a guardare e vediamo un cavaliere, mezzo vestito alla buttera, come tutti i cavalieri della regione, con grandi calzoni di pelle di pecora, o di capra, che non saprei dire esattamente, non avendoci fatto grande attenzione, mentre tutta la mia curiosità era attratta dal simpatico aspetto signorile del personaggio: un giovanotto snello, dai baffi biondi, certo De Cupis di Poggio Mirteto, il quale, dopo averci detto il suo nome e la sua qualità di guida garibaldina, ci chiede a che distanza potrà ritrovare Garibaldi, per cui ha un biglietto, e da consegnare al più presto.
Il biglietto è aperto; è del comitato di Rieti, e avverte il Generale che l'ordine di arrestarlo è giunto da Firenze, e lo porta, insieme coi mezzi di mandarlo ad effetto, un maggiore dei reali carabinieri, seguito da trentasei uomini.
- Abbiamo dunque un nuovo ministero a Firenze? - chiesi io.
- Sì e no, - rispose il cavaliere, - si ritira il Rattazzi, è chiamato il Cialdini, ma non riesce a comporre un gabinetto; intanto la situazione è cangiata, ritornando quella di otto giorni fa.
- Quest'ordine lo prova, E di quanto precede Lei i carabinieri?
- Di un'ora; son corso a spron battuto.
- Vada, e buona fortuna; - gli disse il maggiore. - Garibaldi è passato questa mattina, diretto a Scandriglia; se c'è rimasto, il che non credo, ha tempo di avvisarlo. -
Il cavaliere saluta, tocca di sproni, e via di galoppo verso Osteria Nuova.
- Ed ora, che cosa facciamo noi altri? - domando io al maggiore.
- Noi abbiamo il nostro ordine: passare i monti di Toffia. Per cominciare, lasceremo la strada maestra un po' prima del necessario, andando a cercare mia guida di là dal fiume. -
Detto fatto, il maggiore ordina che il carro delle munizioni si cali dalla sponda nel greto del fiume, o torrente che sia. Là sotto, e nascosto dai cespugli che vestono la ripa, il carro è invisibile; noi con esso, se staremo bene appiattati sotto l'argine. L'operazione in venti minuti è felicemente compiuta; gli uomini si sono anche spartiti i fucili e le munizioni levate dal carro, che rimarrà in abbandono. L'intenzione era di metterci in armi al confine; ma come fare altrimenti, in quella necessità? Dall'alto, verso Torricella, si sente un fragor d'armi e io scalpitio d'una grossa cavalcata. È il drappello dei carabinieri reali. Vengono rapidi, al trotto, e giunti al piano della valle si mettono al galoppo. Andate, andate, e non vi venga in mente di allungare il collo per guardare qui sotto. Li abbiamo a pochi metri di distanza; passano; sono passati; e noi, appena li vediamo sparire alla svolta dello stradone, ci togliamo dal nostro nascondiglio per passare il greto e andare in traccia d'un contadino, o pastore, che voglia farci da guida.
Un garzoncello, proprio allora, si affaccia al limitare del bosco. Lupus in fabula. Alla vista di tanti uomini armati, senza la divisa militare, ha avuto un momento di esitazione? o la curiosità soltanto lo ha inchiodato laggiù, dove noi abbiamo potuto distinguerlo alla luce del tramonto? Comunque sia, egli è presto accerchiato, ed anche con bei modi rassicurato. Non gli si domanda altro che qualche ora del suo tempo, quanto basti per metterci per la via più breve al passo di Carlo Corso, evitando Osteria Nuova, poichè non abbiamo nessuna voglia di bere: venga, sia buonino, e gli daremo per la sua camminata uno scudo; anzi meglio, lo avrà in anticipazione. La moneta, infatti, luccica agli occhi dell'adolescente e gli sdrucciola nella mano, macchinalmente aperta per riceverla.
- Andate con Garibaldi? - chiede egli, come per isgravio di coscienza.
- Sicuramente; non lo vedi? Ci avevi presi forse per briganti?
- Oh, non ne avevate l'aria; - risponde egli ridendo.
E si avvia, guidandoci verso la macchia. Entriamo nella penombra, e indi a poco nel buio. Egli intanto, sia che abbia presa troppo alla lettera la nostra raccomandazione di condurci per la via più breve, sia che voglia fare una piccola vendetta della inattesa passeggiata che gli è imposta da noi, ci fa prendere un sentiero da capre, su pei meandri d'una scogliera che non promette niente di bene, specie a quell'ora tarda, con le ombre così pronte a calare dai monti, e con una certa nebbia egualmente pronta a salire dal fiume. Ancora una mezz'ora di quella salita, e siamo in una nebbia così fitta, che si dura fatica a vederci due passi discosto. Ad un certo punto dell'erta, lo stretto sentiero gira intorno ad una rupe, e non manca nemmeno una di quelle soluzioni di continuità che son cagionate dalle piogge in tutti i sentieri di montagna. La rottura non par troppo vasta, ma per contro appare profondo l'abisso. Ci vuol pazienza; bisogna passare di là. Ma come fare, coi fucili, che impediscono agli uomini di aiutarsi colle mani lungo le pareti della roccia? Il maggiore salta per il primo e si volge a prendere il fucile d'un soldato che lo segue; questi a sua volta prende il fucile del compagno; e così via via, ad uno ad uno, passano tutti trecento, senza capitomboli, senza perdita d'armi, che fu veramente un miracolo.
La difficoltà del passo e la nebbia che c'impedisce di approfittare dello scarso lume "onde son pie le stelle," ci fanno perdere un'ora in quel primo intoppo. Per colmo di sventura, usciti di là, entriamo in una forra, che ci mena diritti alle spalle di un nero edifizio, in cui Ludovico di Pietramellara non istenta a riconoscere la temuta Osteria Nuova. Siamo proprio al punto che dovevamo evitare. Dove mai ci ha condotti quel briccone di garzoncello Sabino! O non sarebbe il caso di amministrargli un paio di scappellotti? Ma a che servirebbe la collera? Meglio varrà pensare ai casi nostri. Se i soldati di guardia al passo ci hanno sentiti, stanno prendendo le loro disposizioni per venirci incontro. Una baruffa con soldati italiani è da cansare ad ogni costo; non per questo siamo venuti al confine. Piuttosto è da vedere se non ci sia modo di uscire da questo ginepraio. Ludovico ha una buona ispirazione. Già due volte è passato di là: conosce oramai il capitano; andrà lui ad esplorare, e, se occorre, a parlamentare. Ottenuto il permesso dal maggiore, si avvia, gira il canto, e sta una mezz'ora a ritornare; una mezz'ora che ci è parsa un secolo. Quando ci capita davanti, Ludovico è fuori di sè dalla gioia; sto per dire che le lenti, piantate sul suo naso, mandano lampi nella penombra notturna. Il capitano, di cui temiamo tanto la vigilanza, è in una condizione stranissima; già dalla mattina, quando Garibaldi è passato in carrozza, stenta lui a trattenere i suoi uomini. Se passiamo davanti al posto, chi li terrà più? Verranno tutti con noi; ed egli, infine, egli che è italiano quanto noi altri, passerà per il primo. No, per carità, gli ha detto il Pietramellara; aspetti uno o due giorni e l'annunzio della prima vittoria; vedrà che le esitanze del governo cesseranno, e tutti, quanti siamo, regolari e volontarii, ci troveremo alle porte di Roma. Sia dunque inteso tra noi, che non passeremo davanti al posto, e rispetteremo tutte le convenienze. Quanto a Lei, se per caso sentirà un po' di rumore nel bosco, pensi da buon camerata che a Lei hanno dato da guardare la strada maestra, non le traverse da cacciatori, non le forre da contrabbandieri.
La missione di Ludovico ci rimette l'anima in corpo. Il contadinello Sabino, perduta la speranza di liberarsi dalla nostra compagnia, si risolve di condurci per davvero sulla vetta del monte. Si va come si può, per gli alpestri sentieri; ma in alto siam fuori della nebbia, e ci si raccapezza un pochino. Peccato che da un casolare poco lontano si desti un can da pagliaio. Abbaia, quel figlio d'un cane, dando la sveglia e l'esempio a tutti i suoi colleghi del vicinato. Di qua, di là, di su, di giù, tutti i cani della Toffia rispondono, abbaiando disperatamente in tutti i registri, con tutti i metalli di voce, Confesso di non aver mai sentito in vita mia. un così fiero concerto di cani, neanche a Parigi, nel Jardin d'acclimatation, quando è l'ora del pasto per questi amici dell'uomo. Che diranno i padroni di tutta questa canatteria? Se c'è lassù una pattuglia di carabinieri, o un altro posto di soldati, buona notte, si può dir proprio di aver rotte le uova in sull'uscio. Ma infine, perchè pensar sempre la peggio? La luna era sorta; non si poteva anche credere che tutti quei cani abbaiassero alla luna?
Due ore dopo la mezzanotte avevamo afferrata la vetta. Riuscivamo ad una strada mulattiera, abbastanza spaziosa; e là, accanto alla strada, si vedeva al lume della luna una piccola casa.
- Eccovi a Carlo Corso; - disse allora il contadinello Sabino.
Veramente, il nostro ordine scritto diceva: "passare i monti di Toffia sopra Carlo Corso. "Ma oramai era fatta; quella casa non si poteva evitare, bisognava passarci davanti, non sopra. E Carlo Corso era un posto di doganieri, come ci fu agevole di riconoscere, vedendone due, che spiccavano assai bene con le loro attillate uniformi sull'azzurro bianchiccio del cielo.
Perchè mai quella casa avesse nome e cognome, io non so, non avendo pensato a domandarlo. Fors'anche, se lo avessi domandato, quei doganieri non avrebbero saputo dirmelo. Era ad ogni modo una casa cristiana. Quei bravi doganieri, indovinato di che si trattasse, ci fecero festa. Avevamo bisogno d'acqua, e ci diedero acqua; ci occorrevano due ore di riposo, e i nostri uomini poterono allogarsi in parte al coperto, in parte adossarsi alle mura dell'edifizio. Il mio maggiore ebbe il letticciuolo del brigadiere, per ischiacciarvi un sonnellino: io mi buttai sopra un forziere di noce, dove quell'ottimo brigadiere teneva le sue carabattole. Ci avrei dormito benissimo, se fosse stato più lungo ed avessi potuto stendermi tutto, come otto anni prima, in Lombardia, avevo fatto sulla tavola da pranzo del sindaco di San Martino, mentre l'amico Gordolon, mio tenente, dormiva saporitamente in un letto monumentale.
Amico forziere dei doganieri di Carlo Corso, che bel sogno ho fatto sul tuo coperchio di noce! "Sogna il guerrier le schiere" ha cantato il Metastasio; ma la osservazione psicologica non è niente più giusta di quell'altra sua, zoologica, che gli ha fatto mettere la serpe in concorrenza con l'ape, nel suggere i fiori. Io, lungi dal sognare le schiere, sognai.... Ma no, non lo voglio dire: tanto, sul più bello, il mio sogno fu interrotto dalla voce del maggiore, che mi annunziava le cinque del mattino e mi ordinava di radunar gli uomini, per rimetterci in marcia. Balzai in piedi, corsi fuori a svegliar la mia compagnia, la seconda del battaglione, e, poichè tanto era tutta strada, anche la prima, comandata dal Pietramellara, e la terza, comandata dall'ingegnere Stangolini. In capo a dieci minuti eravamo tutti pronti per la partenza; e ci avviammo subito, allegri come pasque, dopo aver salutati con larga effusione di cuore i nostri bravi doganieri. Rammento che il brigadiere ci augurò di giungere a Roma in tre tappe. L'augurio, pur troppo, fu vano per noi: ma ad ogni modo il brigadiere fu profeta. Le tappe erano ancora tre, per l'Italia, e di un anno ciascuna. È figurato, il linguaggio dei profeti; e bisogna saperlo intendere, bisogna!
L'aurora ci ritrova ancora sul colmo della montagna, tanti sono i giri e i rigiri della strada. Sotto di noi s'indovina una valle; davanti a noi si stende una lunga e larga veduta di vette, di colline, di poggi, con borghi e castelli appollaiati sui culmini, come nei quadri di Claudio di Lorena. Dal punto in cui siamo, per mezzo delle alture digradanti, che incominciano a svolgersi da uno strato di nebbia sottile ai primi raggi del sole, si scorge in lontananza una piccola massa tondeggiante e dorata, in cui è facile riconoscere la cupola di San Pietro, a cui nella nostra prospettiva sembra collegarsi una lista d'argento, serpeggiante e luccicante; il Tevere, il Tevere che ci fa da lontano la grazia di non parer biondo, col pericolo d'esser chiamato limaccioso dagli irreligiosi nepoti. - Vidinus flavum Tiberium" esclama Ludovico, dalla testa della sua compagnia. - Velox amoenum saepe Lucretilem, rispondo io, stendendo la mano verso una gran montagna che azzurreggia a sinistra. Almeno, dovrebb'esser laggiù l'ameno Lucrètile, che igneam defendit æastatem capellis usque meis pluviosque ventos. Giustissimo; ribatte Ludovico; e vedi più giù la montagna di Tivoli, mite, solum Tiburis et moenia Catili. - E di qua niente? gridai io, accennando alla destra. Quel monte laggiù, che innalza la sua negra cima nel fondo della pianura, non sarebbe per caso il classico Soratte? - Tu dixisti, ripiglia quel capo ameno del mio Ludovico. Tu lo vedi nero, stavolta; se aspetti un par di mesi, lo vedrai magari bianco. Vides ut alta stet nive candidum Soracte?...
Dei immortali, quanto Orazio abbiamo snocciolato quella mattina sui greppi di Toffia! Io e Ludovico di Pietramellara ci eravamo proprio incontrati, con la nostra malattia citatoria. Dio li fa e poi li appaia, come dice il proverbio. Ma questa del citare Orazio ad ogni passo è veramente la malattia più terribile, quantunque non sia contagiosa. Il cite si souvent Homère et Horace, que c'est de quoi en dégoüter, ha lasciato scritto di un Tizio il famoso principe di Ligne. Il nostro maggiore, che la pensa come il principe di Ligne, ci annunzia ridendo che alla prima tappa ci manderà tutt'e due agli arresti. Perchè? siamo nel Lazio, perbacco, e la lingua del Lazio è il latino.
Questo dello slatinare in vicinanza di Roma è una mania naturale. Ricordo che nel 1878 si andò una volta in parecchi amici a visitare la via Appia, Era con noi Pietro Cossa, che aveva stabilita una multa di cinquanta centesimi per chiunque in quella gita non parlasse latino. Dura lex, sed lex, e bisognava striderci tutti; anche in un latino maccheronico, dovevamo parlare come Pietro voleva. Uno solo, romano di Roma, non si sentiva di obbedire; amava piuttosto star zitto.
- Silet hic noster, - dicevamo noi, canzonandolo, - sed latine silet; ergo non multabitur.
Ma quell'altro, intanto, cominciava a capire che a tacer sempre avrebbe fatto una cattiva figura. Ad un certo punto, preso per mano il Cossa, lo condusse verso certe rovine, che dovevano essere di una casa.
- Et etiam latine gesticularis, probo: - gli disse Pietro, continuando la celia. - Sed quid me vis? quid mihi. videndum? -
L'altro seguitava coi gesti, indicando le rovine; finalmente, mezzo affermando, mezzo chiedendo, gli disse:
- Domus?
- Domus; - rispose Pietro Cossa; ma poi, scappandogli la pazienza, uscì in questa sentenza: - Ah, figlio d'un cane, non sai altro latino che questo? -
Quel giorno fu Pietro Cossa che pagò la prima multa. Aveva parlato italiano. Quel povero Pietro non sapeva consolarsene. Noi Io paragonammo a Caronda, il famoso legislatore di Turio, vittima d'una legge ch'egli stesso aveva proposta e che primo aveva violata.