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Anton Giulio Barrili
Con Garibaldi alle porte di Roma: 1867

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IX.

 

Da Nerola e Montelibretti. La talpa e il ministro di Falconara. Ci siamo.

 

Si scende la montagna a rotta di collo; io l'ho più misurata che vista. In un'ora siamo alle falde; vediamo laggiù una valle stretta stretta, con una lista di prato e una casa, un fiumicello ed un ponte. La casa è l'osteria del Grillo; il fiumicello è il Ricco, salvo errore; il ponte che lo cavalca segna il confine tra noi e il così detto patrimonio di San Pietro. Abbiamo appena il tempo di raccapezzarci, quando una guida si avanza, domanda se siamo i carabinieri genovesi del battaglione Burlando, e avuta risposta affermativa ci consegna un ordine, scritto in uno dei soliti pezzettini di carta. Niente è mutato nel nostro indirizzo di marcia; solo v'è aggiunto che dobbiamo impadronirci di Nerola, per proseguire ad un nuovo ordine verso Montemaggiore.

Nerola è quel castello che si vede lassù, sulla vetta di un colle davanti a noi, di dal ponte. A Nerola, ancora ieri, stavano i Pontificii; bisogna assicurarci se ci sono rimasti, e se ci sono bisogna sloggiarli,

Non è più il caso di far sosta all'osteria del Grillo, che del resto è senz'oste e senza vino. Si passa il ponte, leggendo di volo la iscrizione d'un pontefice che lo ha fatto costruire. Era l'uffizio suo; pontifex non significa forse in latino colui che fa i ponti? Arrivati al piede della collina, che di ci pare una montagna bella e buona, ci stendiamo in catena, e prendiamo a salire secondo le regole. La fatica non è poca; ma si sopporta volentieri. E così bello, dopo tanti giorni di desiderio, fare la prima operazione di guerra! Giunti a mezza costa, ci pare di veder gente lassù. Ci aspettano a tiro; andiamo coperti più che si può. Ma che coperti? se sventolano i fazzoletti! Ebbene, che cosa vuol dire? non potrebb'essere un tradimento? Amici o nemici che siano, facciamo le cose a dovere. E si continua a salire, trattenendo gl'impazienti delle prime file, sollecitando i più tardi delle ultime. Così giungiamo al colmo della vetta, senza che ci abbia salutati una palla. Son dunque amici lassù? Amici, di fatti, tutto il popolo di Nerola, poco più di seicento abitanti, già vassalli dei Colonna di Sciarra, oggi liberi cittadini di una libera patria.

Fin dalla sera innanzi, forse avvisati della presenza di Garibaldi che da Scandriglia è sceso a passo Corese, i Pontificii hanno spulezzato da Nerola. Tanto meglio; a nemico che fugge ponte d'oro. Ma la prudenza comanda a noi di non fidarci troppo: ci sono certe eminenze sulla nostra sinistra, Montorio Romano ad esempio, dove potrebbero appiattarsi le insidie, La nostra prima cura è di mettere avamposti da quella banda, e giù, verso la strada di Montelibretti. Poi si chiede del sindaco, o governatore, o ministro, od altro che sia il personaggio più importante della comunità. Viene il personaggio; dev'essere un ministro di casa Sciarra; mette a nostra disposizione il poco che ha, paglia fresca prima di tutto e la caserma dei gendarmi pontificii, che porta ancora i segni della improvvisa fuga dei suoi abitatori. Sono ancora appesi alle grucce i cappellacci a due punte, di forma abbastanza napoleonica, e alle caviglie della rastrelliera le giberne e le tracolle nemiche, pronto trastullo ai nostri uomini, che, essendo "carabinieri" amano fare un po' di baldoria travestendosi da gendarmi.

È una scena di scappellotti, da far morire dal ridere. Ma ogni bel giuoco dura poco, e i gendarmi ritornano carabinieri per far colazione. Noi frattanto pensiamo che le compagnie sono formate bensì, e le squadre divise, ma che non s'è avuto ancora il tempo il modo di fare i ruolini. Si trova carta, penne e calamai; s'improvvisano tre furerie ed una maggiorità; i penniferi si mettono tosto a lavoro. Veramente provvidenziale, quella occupazione incruenta di Nerola!

Al maggiore e a me, che faccio anche servizio di stato maggiore, è toccata una camera con due letti, presso una egregia famiglia del paese. Ho il dolore di non ricordarne più il nome: bene ricordo una bella signora, dagli occhi romanamente grandi e romanamente neri. È lassù in villeggiatura, presso quella famiglia di buoni parenti suoi; dovrebbe ritornare all'eterna città; ma i casi della guerra non glielo permetteranno così presto; ad ogni modo, essendo buona italiana, spera di rivederci laggiù. Accettiamo l'augurio, e lo mettiamo insieme con quello del doganiere di Carlo Corso. Finalmente, verso le undici di sera andiamo a riposarci, dopo aver visitati accuratamente i nostri avamposti, dalla gran guardia fino alle ultime sentinelle.

Buon letto di Nerola, era scritto lassù che io non avessi tempo a scaldarti. Avevamo appena chiuso un occhio, quando i piantoni vennero a chiamarci. Era giunta allora allora una guida, e portava uno dei soliti pezzettini di carta. L'ordine era questo: "Il battaglione Burlando faccia viveri per un giorno e parta immediatamente per Montelibretti avviato su Monterotondo. "Svelti, a terra, e vestiamoci. Del resto, non eravamo spogliati che a mezzo. Dov'è il nemico? Sarà dove vorrà. L'ordine, del resto, comanda la fretta, e quel dire "su Monterotondo" scambio di "per Monterotondo" significa che laggiù avremo forse l'ostacolo.

Animo, dunque, a svegliar la gente e a far viveri. C'è una tromba nel battaglione; ma non ce ne serviamo; i piantoni vanno essi ad avvertire le compagnie, e i preparativi di marcia son fatti alla sordina. Il ministro di Nerola è richiesto di viveri: non ha nulla da darci: già aveva poco il giorno innanzi, e gli uomini avevano dovuto nutrirsi del loro pane. Come fare? Basta, Iddio provvederà, a Montemaggiore, a Montelibretti, dove parrà più opportuno alla sua misericordia infinita.

Nel cuore della notte, senza viveri, ma con molte speranze per viatico, scendiamo dal poggio di Nerola. A mezza strada, levando gli avamposti verso Montemaggiore, mi ricordo degli altri, lasciati indietro, verso Montorio Romano; e corro a levarli, non perdendo, se Dio vuole, che una mezz'ora di tempo. Il bravo sergente, un Randaccio dell'isola di Sardegna, teneva saldo lassù. Aveva sentito il rumore e indovinato, da vecchio militare del '59, che si levava il campo; ma sempre da vecchio militare aveva pensato che dove lo avevano messo gli bisognava restare. Raccolto lui e la sua squadra, si va in giù a passo di corsa, ed anche un pochettino a ruzzoloni, per raggiungere il battaglione, che ha continuato a marciare.

Siamo sull'albeggiare davanti al poggio di Montelibretti. Si fanno viveri? Ahimè! Montelibretti, interrogato dai nostri ambasciatori, non ha niente per noi, non ha niente per nessuno; lo hanno spogliato, tra la sera innanzi e la notte, altri battaglioni passati di . Non c'è più una misura di farina per i suoi stessi abitanti, non un sacco di grano. Poveracci! come faranno? moriranno di fame? Eh via, speriamo di no. Anche a Falconara, dove giungiamo intorno alle nove, è la stessa canzone. Falconara, da non confondersi con quella d'Ancona, è la tenuta di un principe romano. Parliamo col ministro, che giura, e spergiura anco lui di non aver nulla di nulla. Neanche una goccia di vino, per bagnarci la bocca? Neanche quella. Ma che è, che non è, mentre noi stiamo parlamentando sul piazzale del castello, arrivano parecchi dei nostri soldati, gridando. Cento passi più in la, vedendo un uscio contro una ripa, e credendo che proteggesse una fontana, hanno sfondato quell'uscio e trovata una cantina, riccamente fornita di botti, donde hanno cominciato a spillare. C'è da sgridarli? No davvero; piuttosto da fare una partaccia al ministro, che allibbisce e balbetta non so che. Ma non è il caso di andare in collera; il disgraziato non franca la spesa. Si va tosto alla cantina, e si mettono i piantoni, perchè tutti bevano, in ordine, con discrezione, con misura, con garbo, senza sprecare la grazia di Dio.

Falconara mi è rimasta in mente per un altro episodio. Mi ero fermato sul piazzale, davanti ad un murello, dalla parte di Roma. La città eterna, essendo noi già tanto al basso nella valle, non si poteva vedere, intercettata com'era la vista da tante colline. Ma si vedeva Monterotondo, o piuttosto s'indovinava che fosse Monterotondo, dai lampi e dal rombo delle artiglierie, che incominciavano a farsi sentire. Guardavo laggiù, aspettando che le compagnie avessero finito di bere. Due soldati, frattanto, in un campo sotto i miei occhi, seguivano certi movimenti del terreno, che si andava alzando via via in una linea serpeggiante. Era facile indovinare che fosse: una talpa. I due soldati, puntando le baionette, da un capo e dall'altro della terra smossa, volevano chiuder la strada alla roditrice sotterranea.

- Perchè fate ciò? - domandai. - Sentite laggiù? Fra un'ora ci saremo anche noi, e potremo lasciarci la pelle. Morituri, lasciamo vivere quella povera bestia.

- Devastano i campi, le talpe; - mi rispose uno di loro.

- E lasciate che devastino. Ce ne vorrei trecentomila, a Falconara, e che non lasciassero in piedi un gambo di grano o un piede di vigna. -

Così fosti salva, o povera talpa di Falconara. Possa tu aver provate le gioie della famiglia, ed essere stata consolata di numerosissima prole!

Digiuni di cibo, a mala pena rinfrescati dal vin cotto della cantina sotterranea, si va, si accorre al cannone. A mezza strada c'imbattiamo in un contadino che fugge.

-Che c'è? - gli domandiamo.

- Garibaldi 'na bella battuta; - ci risponde, seguitando a correre.

- Buone notizie! perchè dunque scappi così?

- Io non scappo, torno a casa. -

E via come il vento. Lo lasciamo andare, facendo un po' come la guardia svizzera del Vaticano a cui (se la leggenda è vera) avevano data la consegna di non lasciar entrare nessuno. - Non si entra! - gridò il soldato ad uno che voleva forzar la consegna. - Ma io esco; - rispose il cittadino. - Allora passi! - conchiuse lo svizzero.

Come abbiamo lasciato andare il contadino inerme, non lasciamo andare otto o dieci armati, che son fuggiti dal campo. Li abbiamo incontrati davanti ad una casupola, dove si sono affollati, chiedendo in malo modo da bere. - "Che fate voi altri? perchè non siete al fuoco?" domanda il maggiore. - "Tutto è perduto; si salva chi può" ci rispondono essi. - "Ah sì?" grida il maggiore. "Allora deponete i fucili."

Non vorrebbero; ma egli incalza. - "I fucili, sì; parlo turco? i fucili, che non sapete portare. A voi, - soggiunge, volgendosi a quelli dei nostri che ne sono ancora sprovveduti, - levate le armi a queste.... "E lascio il resto nella penna.

Disarmati, non senza difficoltà, senza scapaccioni, filano borbottando, verso Montelibretti. Uno solo, com'è alla prima svolta della strada, ardisce far fronte indietro e intuonarci un saluto beffardo. Gli si punta addosso un fucile, e lui via, come una lepre, a raggiungere i valorosi compagni. E per fuggire così, quei disgraziati erano dunque venuti innanzi poche ore prima? Che orrore, il soldato che fugge! Già l'ho sempre detto; io; l'uomo non è quella bellezza d'animale ch'egli vorrebbe far credere nei suoi trattati di zoologia; e spesso ci vuole tutta la sapienza d'un sarto, per renderlo tollerabile. Ma l'uomo che fugge, è una cosa a dirittura indecente.

- Vuoi scommettere, - mi dice il maggiore, - che non c'è niente di vero in ciò che hanno raccontato quei mascalzoni?

- Tengo con te, - rispondo, - e ci arrischio tutto quello che ho in tasca.

- Allora sia per non detto; - conclude egli ridendo. - Ci hai messo la mezza sesta. -

La mezza sesta era una volta, in genovese, l'aumento di prezzo che si faceva ai pubblici incanti. Si ripete ancora per celia, quando uno, dicendo più di noi, vuol guadagnarci la mano. E basti della celia, e dell'episodio ond'è nata.

Si corre, si corre, temendo sempre di non giungere a tempo, si corre ancora con la lingua fuori, come i cani da caccia. Finalmente, ci siamo; s'è afferrata una collina, dalla cui sommità si vede benissimo la borgata di Monterotondo, stretta intorno alle mura di un grande edifizio, il palazzo Piombino, dalle cui finestre e dall'orlo del muro di cinta che ne protegge gli accessi, partono lingue di fuoco. Alquanto più giù, certamente in una spianata sotto il muro, è l'artiglieria dei Pontificii, che manda ad ogni tanto un lampo ed un tuono. Dal versante della collina per cui scendiamo spediti, siamo forse a settecento metri dalla piazza, poichè tra il lampo e il tuono non passano che due minuti secondi. La scena è maravigliosa, illuminata da un sole stupendo. Anche noi, sfilando per due sul declivio del prato, con le nostre baionette luccicanti, dobbiamo fare una bella figura: certamente di amici e nemici hanno veduta la nostra ordinanza. I primi a darcene un cenno sono i nemici. il palazzo Piombino ha davanti a una valletta, fiancheggiata da due eminenze, da due creste di poggio. La meridionale è coronata d'un edifizio, il convento dei Cappuccini, la settentrionale di un altro, il convento di Santa Maria, che non so a quali frati appartenga. La valletta, dalla parte nostra, ha un canneto. Noi, tirati insensibilmente dalla piega del prato, voltiamo verso i Cappuccini, e al passo del canneto ci salutano cinque o sei palle, gnaulando. Vengono senza dubbio dalle finestre alte del palazzo Piombino. Nessuno è ferito, quantunque si offra bersaglio sicuro e continuo, sfilando lenti, come facciamo, per non dar cattiva opinione di noi.

Ci hanno veduti anche i nostri. Di dal canneto alcuni ufficiali vengono alla nostra volta. Uno di essi è a cavallo: riconosciamo il colonnello Frigésy, un bravo ungherese, venuto a combattere con Garibaldi le battaglie della indipendenza italiana. È con lui il suo giovane aiutante, Pietro del Vecchio. L'uno e l'altro ci accolgono a braccia aperte.

- Giungete a tempo, non dubitate, - ci dicono. - Si è attaccato subito, questa mattina, con le poche forze che si avevano alla mano, aspettando i battaglioni via via d'ogni parte. Ma gli Antiboini resistono fieramente. Hanno anche dell'artiglieria; due cannoni impostati all'ingresso del palazzo Piombino. Bisognerà prenderli, o farli tirar dentro ad ogni costo. Garibaldi è laggiù con Menotti a Santa Maria, proprio sotto le mura. Ha due cannoncini, presi da una villa signorile; ma fanno poco. Ora il fuoco si è un po' allentato; si aspetta di fare dopo il mezzogiorno un colpo decisivo. -

Le notizie date dal Frigésy erano buone per noi. Ricambiammo le nostre, d'essere venuti correndo da Nerola, d'esser digiuni e senza viveri. Il bravo colonnello ordinò tosto al suo aiutante di guidarci verso i Cappuccini, dov'era il suo quartiere, e di farci dare un pane a testa. Era bigio, di munizione, e, cosa rara, eccellente. Ma vedete stranezza: ci era passata la fame; e così, dopo averne sbocconcellato un orlo, tralasciammo di mangiare, mettendo il nostro pane ad armacollo, chi con funicelle, chi con fazzoletti, chi con le fasce azzurre, levate di torno alla vita.

Ai Cappuccini regnava la bella confusione degli accampamenti improvvisati. Non mancava la nota triste, per un buon numero di feriti, che erano stati collocati sulla paglia nel refettorio del convento. I monaci dalle grandi barbe grigie facevano il debito loro come infermieri e consolatori. Chi sa che cosa pensavano in cuor loro quei frati? Sui loro volti non si vedeva dipinto che affetto e bontà. Del resto, non avevano a lodarsi troppo delle schiere pontificie, donde partiva il fuoco che devastava il convento, mettendo le lor vite a gran rischio e sforacchiando con le palle da cannone il muro di cinta della loro villetta. Tra i feriti e tra gl'illesi della colonna Frigésy noi salutavamo intanto amici parecchi, fratelli d'armi del '66, compagni di baldoria o di passeggiata in tutte le città italiane. Erano ciarle senza fine, discorsi senza capo coda, domande e risposte intrecciate, interrotti, vaganti su tutti gli argomenti possibili e immaginabili. Tra tante notizie, due sole ci furono acerbe: il colonnello Mosto e il capitano Uziel erano caduti quella mattina, feriti quasi ad un punto, nel riuscir che facevano da una vigna sul piazzale del castello Piombino. Li avevano trasportati al convento di Santa Maria: il primo con una palla alla noce del piede, il secondo con una palla nell'addome. Poveri amici!

Il fuoco era cessato, o quasi. Seguiva un momento di sosta, nell'attacco e nella difesa. In battaglia, si sa, la munizione si serba volentieri per i momenti decisivi. Garibaldi (lo seppi poi) approfittava di quell'ora per dar le disposizioni opportune ad impedire che una colonna di Pontificii uscita da Roma, venisse in soccorso ai difensori di Monterotondo. L'operazione gli riuscì magnificamente. altro io ne dirò: queste note son di viaggio, e di carattere personale; accennano episodii, aneddoti, cose vedute e sentite; non hanno e non possono avere la pretesa di raccontare una guerra.

Anzi, se permettete.... Ma no, non vorrei farvi perdere lo spettacolo di quella sera, di quella notte e della mattina che seguì, indimenticabili tutte. È un quadro, rimasto intiero nella mia mente, un quadro maraviglioso, strano, a luce rossastra, come certi finali di azioni coreografiche, dove i fuochi di Bengala confondono e trasformano, ingrossano a proporzioni fantastiche uomini e cose. Non ci rinunzio, adunque; racconterò. Ma badate, non è la storia delle operazioni ch'io faccio; sono i ricordi miei che metto in carta, le mie sensazioni che esprimo.

 

 

 




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