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Anton Giulio Barrili Con Garibaldi alle porte di Roma: 1867 IntraText CT - Lettura del testo |
XIII
Da capo a Monterotondo. I trecento di Leonida. Digiuno d'Ognissanti.
Sono le undici di sera: "tutto tace il bosco intorno"; anzi, non il bosco, poichè bosco non c'è, ma la macchia nana a ponente della Cecchina. Ci mettiamo in cammino, silenziosi, marciando tutta la notte, guidandoci come possiamo, col far mentalmente alla rovescia quella sequela di giri e diagonali che avevamo già percorsa nella notte antecedente. Fortunati abbastanza, vediamo sull'alba l'eminenza di Castel Giubileo. Non isfuggirò l'occasione d'un bisticcio, dicendovi che per conto mio ci arrivai giubilando. Il maggiore, invece, era di cattivissimo umore, vedendo troppi fucili abbandonati sulla strada, e non bastando i nostri uomini a caricarseli tutti sulle spalle. Che diavolo era avvenuto? Sapemmo più tardi che intiere compagnie, nel ritorno, facevano getto delle armi, gridando di non voler più combattere per una bandiera regia. Donde avessero cavata la notizia, che la bandiera fosse regia, io veramente non so: bandiera, per verità, non ce n'era nessuna: si voleva giungere a Roma, ecco tutto, e alla scelta della bandiera ci pensasse poi il buon popolo Quirite. Altri, per contro, anche prima della marcia al monte Sacro, avevano lasciato il campo, immaginando che la bandiera fosse rossa. Anche questi avevano il torto; ma con una apparenza di ragione, argomentando dal fatto che l'impresa di Garibaldi era stata sconfessata dal governo italiano, e più chiaramente, più solennemente, da un recentissimo proclama reale. Così noi, poveri reduci della vana dimostrazione armata, avevamo il male, il malanno e l'uscio addosso.
Alquanto più giù di Castel Giubileo, ritto a cavallo sul binario della strada ferrata trovammo Garibaldi. Fu lieto di vederci, e volle da noi le notizie del nostro esodo. Tutto bene, salvo un piccolo incidente. La sera innanzi, alla prima partenza dal monte Sacro, avevamo fatti avvertire i compagni che stavano dentro il casal dei Pazzi. Ci avevano risposto che sarebbero venuti tra poco, volendo finire un'infornata di pane. Noi ci eravamo contentati della risposta; più tardi, ed al buio, credendo che fossero con noi, ci eravamo avviati senza di loro, avvedendoci solo al mattino della loro mancanza dalle file.
Mentre il Generale mostrava di addolorarsi del fatto, si sentirono grida in lontananza; e giù dalla collina, a gran furia, si videro calare tre uomini! Erano i tre nostri compagni; uno di essi il tenente Pozzo, che per tal modo ebbe la fortuna di dare al Generale i più freschi ragguagli, le più recenti notizie, che meglio non avrebbe potuto fare il telegrafo. I tre genovesi si erano dimenticati nella stanza del forno: solo un po' prima dell'alba li aveva turbati un suono di cannonate. Usciti all'aperto avevano veduto il campo vuoto, i fuochi già presso a spegnersi e presi di mira da una pioggia di granate, che venivano dalla campagna oltre l'Aniene. Non erano stati a pensarci più che tanto; avevano preso il largo, guidandosi a lume di naso, come noi altri, e via via più spediti, con l'ali alle calcagna, erano venuti a salvezza.
- Bravi! - disse Garibaldi. - E così, stando là dentro, con tanta farina, avrete fatti i taglierini.
- Eh, magari li avessimo fatti! capirà, Generale....
- Capisco; - interruppe il Generale, ridendo; - capisco che a voi altri, genovesi, ci vorrebbe un'osteria ogni mezzo chilometro. -
Si rise tutti, ricevendo la nostra patente. Era una gentilezza, del resto; tale la faceva il tono bonario, tale la confermava il sorriso amorevole. Ma per verità, se in qualche altra campagna avevamo gradita la frasca, in quella, pur troppo, non c'era stato modo di gradirla, poichè non s'era neanche veduta. Garibaldi, per contro, scherzava volentieri coi genovesi; e volentieri, nelle ore quiete, passando davanti al loro accampamento, accettava due cucchiaiate di minestrone. Era genovese anche lui: nato a Nizza, sì; ma la madre era di Loano, e originaria di Cogoleto; il padre di Chiavari, e i suoi vecchi erano stati genovesi e chiavaresi a vicenda, nel giro di parecchie generazioni, secondo portavano le ragioni del commercio, o i casi della repubblica. La Liguria è tutta Genova, a questo modo; e Genova, nel corso di otto secoli, si è sparpagliata un po' da per tutto, tra il Varo e la Magra.
Arrivati noi della retroguardia, non c'era da aspettar più nessuno. Il Generale fece togliere da un casotto della strada ferrata una botte di vino, che c'era stata messa in custodia, e ordinò che ne fosse spillato a tutti; liberalità molto opportuna, dalla quale argomentai che su quella strada, per allora, non si sarebbe più ritornati. Dopo di che, avanti ragazzi, e via, alla volta di Monterotondo. Il grosso dell'esercito era salito al paese; noi rimanemmo alla stazione, occupando un casolare abbandonato e stendendo subito i nostri avamposti verso Fornonuovo.
Era il primo di novembre, il dì d'Ognissanti. Non avevamo viveri, nè potevamo sperarne. Si scoperse una cavolaia: lavorandoci attorno per tagliarne, si vide che lasciavamo il meglio in terra; non erano cavoli semplici, ma cavoli rape. Allora si scavò, in cambio di tagliare, e fu portato in cucina tutto il raccolto del campo. Il Tevere diede l'acqua; un paiuolo dimenticato servì a far bollire quella verdura, in due o tre riprese. Ad ognuno toccò il suo tallo; poca cosa, ed insipida, poichè non avevamo sale da mettere in pentola. Ma non fu male che la porzione riuscisse scarsa, e lo sentimmo presto a certi dolori di stomaco; effetto del paiuolo di rame, che non era stagnato.
Noi eravamo in quelle bellezze, quando dall'avamposto fu dato un allarme. Accorremmo: niente di grave; anzi, una buona sorte per noi. Si avanzava, dopo aver passato il Tevere sulla barcaccia che era in quei pressi, una compagnia d'armati; volontarii, e genovesi, che proprio cascavano a noi, come la manna agli ebrei nel deserto. Li comandava un capitano Valle, di Sestri Ponente, ed erano in gran parte doganieri, bella gente, e bene armata. Il maggiore Burlando offerse loro d'incorporarli: accettarono, formando la quarta compagnia del battaglione.
Una guida, frattanto, veniva da Monterotondo a cercare di noi. Menotti ci voleva alloggiati in paese, e proprio nel castello Piombino. Andammo subito; ma tanto cresciuti di numero, con tant'altra gente già allogata nelle vaste sale del palazzo barberiniano, ci sentivamo a disagio. Chiedemmo allora, e facilmente ottenemmo dal nostro buon colonnello, di andare ad alloggio nella nostra cascina Villerma. Il vecchio castaldo che la teneva ci rivide volentieri, sebbene non fossimo gli ospiti più desiderabili del mondo. Ma già, se non eravamo noi, potevano esser altri; meglio adunque noi altri, visi ed umori conosciuti, come di suoi figliuoli. Buon vecchierello sorridente! Non aveva nient'altro da darci che paglia; ma quella paglia, son per dire che gli veniva proprio dal cuore. E poi, quando c'è la salute, c'è tutto.
Ma ora, che si fa? Qualcheduno deve andare a prender lingua, a scrutare i cuori e le reni, se gli riesce. Vado io, esploratore e diplomatico da strapazzo; tanto, avrò occasione di vedere gli amici. Ne vedo moltissimi, al primo piano del castello, nell'anticamera di Garibaldi, e passo un'ora chiacchierando con tutti, mentre si aspetta il Generale, che è salito sulla torre del castello, a specolar la campagna. Egli non scende che sull'imbrunire; mi vede e m'invita a cena. Accetto col gesto, e accetterei con la voce, se il colonnello Basso, segretario di Garibaldi, non mi facesse cenno con gli occhi e col capo. Non lo intendo, ma sto zitto; intanto il Generale si avvia, e l'amico Basso trova il modo di bisbigliarmi all'orecchio: - vieni pure, ma non accettar di mangiare con lui: non ha che una frittata di due ova. Seguo il consiglio del colonnello e i passi del Generale nella sala da pranzo;siedo a tavola, ma non per mangiare, avendo (oh generosa bugia!) pranzato dianzi alla cascina Villerma.
Anche a stomaco vuoto, è quella una deliziosa serata. Il Generale è di buon umore; ragiona di cento cose cogli amici che assistono al suo modestissimo pasto. Tra essi è il Negretti, il famoso ottico italiano, stabilito a Londra, ma venuto anche lui a fare la campagna dell'Agro romano. È uno dei pochi che abbiano la camicia rossa. Io, non lo dimentichiamo, ho da tre ore una sciabola, la mia Sitibonda del '66, che m'ha portata quel giorno un amico da Genova, insieme con la mia vecchia divisa grigia e la mantellina nera di carabiniere genovese.
Garibaldi è di buon umore, ho detto; confida ancora. Tre giorni prima aveva settemila uomini; non ne ha più che cinquemila, oggi; ma saranno tutti buoni? È il dubbio di parecchi, nella comitiva: il modo tumultuario con cui sono stati accettati e avviati dalle diverse città, la poca o nessuna conoscenza che hanno gli ufficiali di tanta gente nuova, raccolta a Terni e avviata in fretta al confine, ritorna spesso e volentieri sul tappeto, anzi sulla tovaglia. Si squaglieranno a poco a poco, dice un pessimista.
- Ebbene, - conchiuse Garibaldi, - quando saremo in trecento, faremo come Leonìda. -
Egli pronunziava Leonìda, con l'accento sulla penultima. L'ho già notato altrove, ed ho anche soggiunto: "L'eroe di Sparta avrebbe amato udirsi chiamare in quella forma da lui. Chi sa? ora, nel regno delle ombre, o delle luci, ragionano insieme, dopo uno di quei baci elisii, intravveduti dal genio di Dante." Aggiungo ora, per confessione della nostra miseria, che se egli era capace di fare come Leonida, ci sarebbero voluti trecento Spartani, e risoluti al sacrificio, per fargli compagnia. Ma la storia non si ripete. Del resto, quarantott'ore dopo, su poco più di duemila combattenti, furono cinquecento che gli caddero intorno a Mentana. Come lezione all'Italia d'allora, non fu poi tanto male.
Quella sera, uscii tardi dal castello Piombino. Era buio pesto, nelle scale, tutte piene zeppe di soldati dormenti; ed io, nel discendere, incespicai una diecina di volte, urtando di qua e di là, facendo attaccar moccoli, che pur troppo non valsero a rischiararmi la discesa. Ma un cerino si accese improvvisamente nell'androne; a quella luce riconobbi un amico, celebre avvocato bolognese, già deputato alla Costituente romana, allora deputato di Forlì al Parlamento italiano, Oreste Regnoli. Egli giungeva allora allora a Monterotondo, e si volgeva al quartier generale per aver notizie del campo dei Genovesi, e ritrovarci un suo giovane amico. Non poteva capitar meglio; il suo valoroso amico diciottenne l'avevo io nella mia compagnia, vivo e sano.
- Venite con me, amico Regnoli, - gli dissi. - Tra quindici minuti potrete vederlo. -
Si uscì insieme a rivedere le stelle: passata la piccola spianata davanti al castello, e un certo portone di villa che mi ha sempre avuto l'aria di un arco di trionfo, entrammo in un vigneto; giungemmo al settimo filare, voltammo a sinistra, e trovato un sentiero campestre, ci avviammo diritti al piazzale della cascina Villerma. Anche là, nel portone e su per una scaletta che metteva al piano superiore della casa, pestammo piedi e stinchi allungati, facendo attaccar moccoli d'ogni misura. Ma questi erano di fabbrica paesana; accidenti in chiave di casa. Altri dovevo sentirne lassù, nel quartierino, dov'erano gli amici in molta libertà, più che in maniche di camicia, quando giunsi in mezzo a loro ed annunziai una visita, e di un deputato per giunta. Ma riconobbero il Regnoli, un amico, quasi un concittadino, e la mia imprudenza fu subito perdonata.
Gli amici avevano fatto un po' di baldoria; erano riusciti a rifarsi del cavol rapa. Fumavano, allora, avendo trovato non so più come una buetta di tabacco; ma poc'anzi avevano cenato, facendo perfino la minestra, gli epuloni! La zuppiera si vedeva ancora sul desco, ma vuota. Han sempre torto, gli assentì,
- Ma non avete dunque anima? - gridai.
- Chi se lo immaginava? - risposero. - Tu eri in gaudeamus, al quartier generale. -
Avevano ragione a rider di me. La burla era feroce: la mandai giù per tutta cena. E così finì il primo giorno del mese di novembre.
Il giorno due fu di calma per il corpo, d'ansietà per lo spirito. Che cosa si farà ora? che cosa non si farà? Chi ne diceva una e chi un'altra. Si pensava ancora a tutti quelli che avevano ripresa la via del confine, quali per la bandiera che non era rossa, quali per il proclama reale che ci metteva al bando, o giù di lì, ma i più perchè avevano fiutata la impossibilità del vincere e non gradivano la prospettiva di marce e contromarce, di stenti e di privazioni, in una guerra di bande. Quanto a noi, conchiudevamo filosoficamente tutti i nostri almanacchi: ci penserà il Generale; noi altri obbediremo, come si è fatto finora.
Ma che cosa pensava egli di fare, specie dopo il proclama accennato, che sicuramente sarebbe stato seguito da atti di polizia, che avrebbero tagliati i nervi ai comitati nostri e impedito ogni invio di munizioni al confine? Io non lo sapevo; nè fo conto di metter qui le mie povere induzioni d'allora. Solo mi pareva d'intendere che egli, non avendo potuto penetrare in Roma senza il consenso armato della popolazione, non avendo potuto accogliere sotto il proprio comando i due corpi lontani, dell'Acerbi a Viterbo, del Nicotera a Valmontone, volesse aspettare in armi, per qualche settimana ancora, lo svolgersi degli eventi, facendo base in qualche altro luogo, non più a Monterotondo, ma a Tivoli, sulle montagne dell'Aquilano. L'accenno a Tivoli lo avevo avuto quella sera, difatti, udendo che un colonnello doveva andare con tre battaglioni tra Monticelli e Sant'Angelo, che erano per l'appunto sulla strada di Tivoli: mi confermava il sospetto l'invio d'un battaglione, con Marziano Ciotti, ad occupare l'incontro della strada di Tivoli con la Salara: finalmente, ad ora tarda, seppi che a Tivoli doveva andare la mattina seguente il colonnello Pianciani; senza gente, per altro, con due soli ufficiali, romano a romani.
- E andiamo a Tivoli; - pensai, - vedrò la villa di Orazio, o il luogo dov'era situata, poichè etiam periere ruinæ. Peccato che non abbiamo più con noi Ludovico di Pietramellara. Vorrebbero esser odi a tutto spiano. -
Venne la mattina del tre, e fu ordinata la marcia. Ma a me si ordinava anche di andar giudice al tribunale militare nel palazzo Piombino. A che pro' una seduta di tribunale, se si era tutti per muoverci? Avrete tempo, mi dissero allo stato maggiore; non si parte che alle undici. E sia; eccoci in tribunale, anzi pro tribunali. Presiede questa volta il maggiore Guerzoni; è avvocato fiscale il maggiore Suliotti. Sbrighiamo le nostre faccende; i processi son chiari; si tratta di qualche prepotenza in casa di privati, e le condanne son pronte: come poi le faremo eseguire, non avendo sicurezza di mantenere un nostro sistema carcerario, non so. Alle undici abbiamo finito; va ognuno pei fatti suoi; io raggiungo il mio battaglione, uscito dalla cascina Villerma e già in ordine di marcia sulla spianata del castello.