Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Anton Giulio Barrili
Con Garibaldi alle porte di Roma: 1867

IntraText CT - Lettura del testo

Precedente - Successivo

Clicca qui per nascondere i link alle concordanze

XIV.

 

In cammino per Tivoli. Lo scontro fatale. Momento epico.

 

Racconterò io la giornata di Mentana?  No, davvero. Brevemente, a sommi capi, in iscorcio, l'ho già fatto in altre pagine: distesamente non saprei, non potrei, non vorrei, dovendo lasciare un simile ufficio a narratori più autorevoli  in materia, e meglio forniti di tutte le opportune notizie dei varii corpi impegnati. Ed anzi, volentieri mi fermerei qui, se non pensassi che le mie son note personali, di cose vedute, di sensazioni provate. In questa misura, adunque, e con queste restrizioni necessarieaccogliete il poco che io vi dirò, per compire la storia dei miei venti giorni di viaggio, che furono poi ventiquattro. Ma i rotti non contano, si danno per il buon peso.

L'ordine del giorno porta che noi del secondo battaglione genovese marceremo in avanguardia, e il primo battaglione in fiancheggiatori. Con noi è un battaglione di Milanesi, comandato dal colonnello Missori. Così disposti ci mettiamo in cammino, e dopo forse mezz'ora giungiamo alle prime case di Mentana, accolti dall'inno: "Si schiudon le tombe" suonato dalla fanfara della colonna Frigésy. Quella musica piace poco; ad un illustre amico mio, che passa in quel punto a cavallo, non piace niente affatto. Per lui, essa è di mal augurio, non avendo avuto il battesimo del fuoco. Infatti, conosciuta dai volontarii quando già era finita la campagna del '59, non fu suonata in Sicilia, sul Volturno, in Tirolo; non si è udita mai, se non nelle città, nei teatri, sulle piazze. Garibaldi, poi, ama meglio la Marsigliese, a cui vengon subito appresso, nelle sue simpatie, il "Fratelli d'Italia" e più un inno del Rossetti: "Minaccioso l'arcangel di guerra" che i suoi legionarii cantavano nel '49, a Roma e a Velletri. Ma basti di ciò; anche l'inno: "Si schiudon le tombe" ha avuto il suo battesimo a Mentana; triste, se vogliamo, ma solenne, e non è più il caso di tornarci su, poichè il sacramento è indelebile.

Io m'ero accostato a Mentana senza sospetto. L'andata pacifica del Pianciani a Tivoli mi prometteva una marcia tranquilla: il mio ragionamento interiore poteva esser turbato dal fatto dei fiancheggiatori, essendo costume d'ogni esercito in marcia, su territorio conteso, di aver fiancheggiatori e avanguardia. Noi, dopo tutto, facevamo una marcia di fianco, pericolosa sempre la parte sua, richiedente diligenza somma e celerità singolare. La diligenza si usava: la celerità veniva di costa. Ma le parole dell'amico, che mi era passato accanto, seguendo il Generale, mi avevano reso pensieroso. Esposi i miei dubbi al maggiore; e il maggiore si contentò di rispondermi:

- Ma che? credevi proprio che andassimo a nozze?

Eppure, guardate, l'aspetto della cosa era quello. Mentana era in festa, sul nostro passaggio, e tutto ci sorrideva dintorno. Già, per stessa, Mentana è una borgata simpatica, con case basse e pulite, fiancheggianti una via romanamente lastricata, che va serpeggiando per una insenatura di monte. Sulla nostra sinistra, passata una chiesina campestre, il monte fa una conca dietro la fila delle case, abbastanza vasta per accogliere senza danno della prospettiva due o tre grossi pagliai, e per istendersi in una lunga prateria che va fuori del paese verso una piccola eminenza, su cui è murata una casa padronale, la casa della Vigna Santucci. Sulla destra, e dietro all'altra fila di case, il monte si rompe in greppi, vallette e burroni, che portano al Tevere l'acqua di otto o dieci rigagnoli. In capo al paese e sulla sinistra, la fila delle case s'innesta in un vecchio castello con negri torrioni, tra i quali, dalla parte di Tivoli, si stende la cortina sormontata da un largo terrazzo, donde una frotta di donne sventola le pezzuole, i fazzoletti, gridando il buon viaggio a noi che passiamo spediti. Salutiamo le donne, salutiamo Mentana, salutiamo l'antica Nomentum di cui essa è l'erede, e tiriamo di lungo. Abbiamo fatto a mala pena un centinaio di passi, e vediamo accorrere verso di noi un biroccino, e sul biroccino una donna. Allarghiamo le file per lasciarla passare. È rossa in volto, ha negli occhi il terrore; e passa, gittandoci una frase:

- Ce so' papalini, ce so'! -

- Ah, davvero? - Il maggiore si volta a me, per darmi un'occhiata; e l'occhiata significa: - che cosa ti dicevo io?

Ancora un centinaio di passi, e sentiamo una fucilata. Sì dubita di aver male inteso; ed eccone una seconda, che conferma la prima. I fiancheggiatori, sulla nostra diritta, hanno dunque incontrato il nemico? O il nemico ha tirato su Garibaldi, che cavalca sempre alla testa delle sue avanguardie? Affrettiamo il passo, ci mettiamo alla corsa. Ad una svolta della strada vediamo Garibaldi e il suo stato maggiore che salgono una collina, afferrando il colmo, dov'è la casa di Vigna Santucci. Noi, genovesi e milanesi, guidati dal Guerzoni che accorre con ordini del Generale, coroniamo un'eminenza a sinistra, facendo fronte ad un'altra, donde ci viene la fucilata, e che riusciamo ad occupare, ma senza poterla tenere lungamente, tanta è la forza che abbiamo di contro. Ci vien fatto nondimeno di sostenerci saldamente due ore sulla collina primamente occupata, stendendoci anche a coprire la Vigna Santucci; opponendo scarsi fuochi ma risoluti alla fitta grandinata onde ci bersaglia il nemico. Ma lassù, tra Vigna Santucci e Romitorio (questo nome mi è rimasto nella mente accompagnato all'immagine della eminenza sulla nostra diritta) non siamo che tre battaglioni distesi in catena. La nostra linea, già interrotta dalla strada maestra, ha presto altre soluzioni di continuità, che non possono essere colmate. Le teste di colonna di Merlotti e del Frigésy hanno da far fronte a sinistra, donde, precedendo coperti alla lontana, si sono avanzati altri battaglioni nemici, tentando di avvilupparci. E dura aspramente la lotta; una lotta in cui Garibaldi, Menotti, Ricciotti, Stefano Canzio, personalmente s'impegnano contro zuavi, antiboini e cacciatori esteri. Intanto, sopra una collina di destra si è riusciti a portare la nostra artiglieria: i due pezzi guadagnati a Monterotondo, che sono un obice e un cannone rigato da otto, ma che avranno tra tutt'e due a mala pena una trentina di cariche. Facendo volata sul paesello, la nostra artiglieria incomincia a sfolgorare le colonne nemiche irrompenti a sinistra. Di quattro pezzi in batteria prendono tosto a rispondere, Le riserve pontificie, girando la posizione, mirano a pigliarci di fianco; alcune eminenze importanti san prese, perdute, riprese, perdute ancora. Nel paese di Mentana, presso il castello, facciamo le barricate, lasciandoci il maggiore Federico Salomone con la sua gente e con mezza compagnia dei nostri. Garibaldi stesso, che è da per tutto, accorre a vedere come si tenga quel passo. Ricordo che in quel punto, volendo egli affacciarsi, gli si pianta davanti il capitano Carlino Nicotera, con la mano al morso del cavallo, gridando: "Generale, fatemi fucilare, ma non andrete più avanti. "E lui a sorridere: sulle prime pareva disposto a contentarlo; indi proseguì allo scoperto, dove grandinava più fitto; stette un momento a dar ordini, poi voltò il cavallo e corse sulla sinistra, dove noi io seguimmo, verso i pagliai. Colà si era molto avanzato, troppo avanzato, il nemico.

La presenza del Generale rianima i suoi. Menotti, Canzio, Ricciotti, Bennici, Bezzi, Missori e tanti altri hanno raccolto quanta gente han potuto: con essa irrompono sulla prateria, Al grido: "Garibaldi! Garibaldi!" è una maraviglia di carica vittoriosa, la più bella che io abbia veduto mai. Paga per tutti il reggimento degli zuavi, che si era fatto avanti il primo, e che è scompigliato, sbarattato, disfatto dalla ondata irruente. Più in , verso il colmo di una collina, vediamo fuggire a spron battuto uno stuolo di cavalieri luccicanti al sole; forse il generale nemico, che era venuto innanzi col suo brillante stato maggiore, credendo vinta per lui la giornata. Giuochi di fortuna! Che sia nostra davvero? Fu allora, per l'appunto, che un illustre amico, ritornando dalla sua carica vittoriosa, mi passò accanto co! suo bel sorriso costante sul labbro, e mi lasciò cadere questa frase:

- Ti ho detto tre ore fa che si cominciava male; vedrai che finisce bene. - Ah, foss'egli stato profeta! Ma tutto diceva di sì, in quel momento felice. Mentana era liberata; Vigna Santucci ripresa. Per tutto il campo erano feriti sparsi, alcuni dei quali, al passar dei soldati con le baionette spianate, gridavano: ne nous tuez pas.

Furono tutti rispettati, lo affermo con giuramento. E poichè sono a parlare di me, lasciatemi vantare; è la debolezza del soldato, quando racconta. Di quei feriti ne raccolsi uno, i cui occhi si erano fissati ne' miei, con una espressione dolorosa e supplichevole; e lo feci trasportare sulle braccia di due commilitoni miei, all'ambulanza della vicina chiesuola. Era un caporale; così almeno mi parve, da un nastro giallo che gli girava a staffa sul dosso della manica: aveva delicati i lineamenti del volto, di tipo schiettamente francese, quantunque i basettini fossero neri, e neri i capelli, un po' radi sulla fronte. Mi sorrise malinconico, in atto di ringraziamento, ed io m'interessai vivamente a lui, accompagnandolo un tratto, fino al pendio ella collina. Quanto gli sarà giovato il mio piccolo aiuto? Aveva una palla in petto e il pallore della morte sul volto. Pensai alla sua gioventù; pensai a sua madre. Ah, povere madri, in tempo di guerra! povere madri, se in quei momenti un'idea non le sostenesse, e non le affidasse una speranza lontana! Ed ancora pensai che insieme con soldati francesi, otto anni prima, avevamo fatta una guerra fortunata; che con altri zuavi avevamo barattate fraternamente le spoglie, per ballare insieme sulle piazze dei borghi di Lombardia, da Gorgonzola a Treviglio, da Coccaglio a Brescia, da Ponte San Marco a Desenzano. Perchè così mutati in otto anni gli spiriti? E ancora non sapevo che dietro a questi francesi, arruolati nell'esercito pontificio, venivano a masse compatte, girando largo dietro le colline, i francesi dell'esercito imperiale, per entrare in azione sulla nostra sinistra, mentre noi vittoriosi di un'ora, in quella vittoria avendo messo tutte le forze nostre, non avremmo avuto più nulla da opporre, più nulla!

Fu quello che avvenne. Procedevano i nostri su Vigna Santucci, quando sulla sinistra, e quasi dietro a noi, cogliendoci di rovescio, apparvero nuovi battaglioni sui poggi; non avvertiti sulle prime, creduti amici alla riscossa. Ma qualche fucilata ci avvertì dell'esser loro; i cannocchiali, puntati da quella banda, non lasciarono più dubbio; si riconoscevano anzi, ai pantaloni rossi, i soldati dell'esercito imperiale. Fu allora necessario dar dietro, far conversione a sinistra, per opporci al nuovo pericolo, Così perdendo i frutti della carica vittoriosa. Ma qui ben presto occorreva uno di quei fenomeni tanto frequenti in guerra, e presso tutti gli eserciti. Mentre le prime schiere facendo. fronte al nuovo nemico resistevano virilmente, e già cominciavano a tenerlo in rispetto, le ultime schiere ingrandendosi il pericolo, non vedendosi forse sostenute alle spalle, si lasciarono cogliere da un improvviso sgomento, si ritirarono a scompiglio verso la chiesuola dell'ambulanza, all'estremità del paese. Invano gli ufficiali con le sciabole in aria tentano di fermare quella valanga della paura, Invano il Generale, accorrendo, tenta di rianimare quel branco di fuggiaschi; invano li rimprovera con aspre parole. - Prima di scappare, voltatevi almeno a vedere chi v'insegue, vigliacchi! - grida egli furente. Ma invano, ho detto e ripetuto: costoro fuggono, fuggono, fuggono, lasciando tutto scoperto il terreno e con esso il lato sinistro del paese, con forse cinquecento uomini tagliati fuori nel suo abitato.

Tra la chiesuola dell'ambulanza e la collina di sinistra, donde i nostri pezzi senza munizioni son costretti a tacere, la strada verso Monterotondo si fa alquanto più stretta. Una carretta d'artiglieria, rimasta a caso, fa un po' d'impedimento al passaggio. Garibaldi si è fermato , col cavallo; non ci sarebbe dunque, modo di passare. E nondimeno la fiumana dei fuggenti riesce a dilagare intorno a lui, scavalcando e magari rompendo le siepi. Ogni buon volere è impossibile, superato e travolto ogni ostacolo; grande fortuna se quella paura potrà rallentarsi più indietro, essere ravviata, trasformata ancora in eroismo. Garibaldi tenta ancora questo miracolo, mentre lo seguono i suoi ufficiali, in parte appiedati. Vedo Menotti, a cui è stato ucciso il cavallo, ferito egli stesso alla coscia, venire in giù, torbido nel viso, colla sua rivoltina nel pugno. Quello almeno va al passo, come piace al De Roa. Anch'egli dopo qualche istante si ferma, volendo opporre qualche manipolo di volenterosi all'avanzar del nemico. Si esce dalle siepi, si formano quadriglie, si riprende la fucilata. Dalla parte nostra son due brandelli di compagnie: le altre due, o i brandelli delle altre due, rimasero al maggiore Burlando entro Mentana, Su noi il nemico vien lento, ma senza esitanza; facendo le quadriglie, fermandosi una a sparare, poi l'altra venendo innanzi a coprirla, e così via: regolarità di movimenti che ammazza!

E ancora bisogna indietreggiare. Oramai si fa il colpo di fuoco per l'onore, non più per la speranza di vincere. Ad un certo punto c'è da saltare una ripa; si casca gli uni sugli altri; io sotto a parecchi, e temo, al dolore acuto che provo, di essermi spezzata una gamba. Non è niente; sono un po' indolenzito, ed anche ferito, poichè sono caduto sul filo della sciabola, che tenevo impugnata colla sinistra, sotto la guardia. La mia Sitibonda si è abbeverata finalmente di sangue, e del mio. I commilitoni mi rialzano da terra; riconosco Ettore Ballerà, Luigi Domenico Canessa, un Arduino. Essi mi sollevano, mi trasportano un po' sulle braccia fraterne, fino a tanto non mi cessa il dolore. Il Canessa s'incarica di portare anche la mia sciabola: gliel'ho poi regalata, come cinque ore prima avevo regalata la mia rivoltina al tenente Graffigna, che non aveva nulla, per insegna di comando, neanche un bastone, Fortuna diversa delle armi! La rivoltina passò ai Pontificii, poichè l'amico Graffigna, rimasto in Mentana, fu fatto prigioniero la mattina seguente. La spada andò tre anni dopo in Francia, ma libera, in difesa di quella generosa nazione, nel piccolo e glorioso esercito dei Vosgi.

Seguitiamo a ritirarci, con le quadriglie francesi a cinquanta passi da noi, al fragore dei loro chassepots che fanno veramente prodigi. Guai se quella gente dilaga, giungendo prima di noi a Monterotondo, che è in vista oramai! Ma no; ecco Garibaldi ancora, Garibaldi con un centinaio di uomini, alla riscossa. È gente nuova, o avanzo della vecchia, ch'egli è riuscito a rianimare pur ora? Mi par di sentire, giungendo ad afferrar la spianata, ch'egli ha trovate e prese con le due compagnie lasciate di guardia alle carceri. Chiunque siano, ben vengano. Si avanzano con le baionette spianate; un po' balenanti, mi pare, e Garibaldi non vuole trepidazioni in quel momento supremo. Lo vede ancora, fiammeggiante cavaliere, nella luce sanguigna del tramonto; ritto in sella, battendo a colpi ripetuti il fianco del suo cavallo alto e bianco, con una striscia di cuoio, all'americana; risoluto di arrestare ad ogni costo un nemico che la fortuna aveva fatto insolente. E percuotendo il cavallo, scendeva dalla spianata, gridando con voce vibrata:

- Venite a morire con me! Venite a morire con me! Avete paura di venire a morire con me?

Alcune parole genovesi, augurali, e non di fortuna, accompagnavano la frase italiana; ma la voce si abbassava di un tono, dicendole; mentre era scandito, accentato con fiera progressione il "con me" ferma l'intonazione e accennante un disperato proposito. L'uomo era solenne, e solenne il momento. E tutti allora i reduci sfiniti, i cadenti spettatori della scena terribile, si strinsero ai fianchi di quel cavallo, confondendosi con quelle due compagnie, travolgendole, precipitandosi con lui nella strada. La carica della disperazione ottiene l'intento; il nemico si arresta, si ritira, facendo fuoco di dietro alle siepi. Garibaldi vorrebbe proseguire; ma a qual pro? A che gli servirebbero, fin dove, quei dugento uomini che porta in mezzo alle schiere nemiche?

L'occhio vigile di Stefano Canzio ha precorso il pericolo. L'animoso ufficiale coglie il momento opportuno del nemico arrestato, si gitta alla testa del cavallo e ne afferra le redini, gridando con voce di amoroso rimprovero, ma donde trapelano tutte le collere addensate da un'ora:

- Per chi vuol farsi ammazzare, Generale? per chi?

Ho veduto, ho sentito: il ripetuto "per chi?" fu quello che vinse l'animo di Garibaldi, serbando il suo cuore, il suo braccio, il suo nome, alla gloria di una sublime vendetta.

 

 

 




Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License