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Anton Giulio Barrili
Con Garibaldi alle porte di Roma: 1867

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I.

 

Come si esce da Genova. Gerolamo Costa e Giovan Battista Parodi. Dalla "bella Ninin".

 

Queste sono note di viaggio, non vogliono essere altro che note, tirate giù alla buona, frettolosamente, finchè la memoria aiuta, per non perdere il filo delle cose vedute, per aggiungere qualche ricordo personale, col suggello del vero, a più nobili e più ordinati racconti.

Si va a Roma, lettori, o si tenta di andarci. Il viaggio, come sapete, prima del Settanta era piuttosto difficile. C'erano troppi, e potenti, che non volevano andar essi, e lo proibivano con tutte le forze loro a chi ne aveva voglia; donde stiracchiamenti, urti, malumori, guerre in famiglia; insomma, una vita da cani. Rallegriamoci che le cose si siano un bel giorno mutate, o non ci fermiamo a ragionarne di più.

Per le necessità del racconto vi dirò solamente che nella estate del '67, tra coloro che non volevano lasciarmi partire da Genova per andare a Roma, c'era il conte Nomis di Cossilla, prefetto, e il cavalier Verga, questore; due ottime persone, ma cocciute a quel modo. Sui primi giorni dell'ottobre, quando in me  si era fatta più forte la voglia, il cavalier Verga, incontrato in una casa di amici, mi aveva detto col suo solito garbo signorile, ma con altrettanta sicurezza di accento:

- Lei non andrà, e i suoi amici nemmeno. Del resto, che cosa andrebbero a fare, senza Garibaldi? -

Infatti, la prospettiva non era punto allegra. Il Generale, arrestato a Sinalunga, portato di là in Alessandria, era stato ricondotto nella sua Caprera, dove il governo lo custodiva con due navi da guerra. Intanto, di là dal confine Umbro, su quella terra che san Pietro non sognò mai di possedere (egli a mala pena padrone di una paranzella sul lago di Galilea) erano incominciate le busse. Ma i nostri volontarii, i così detti insorti dell'Agro romano, erano pochi, assai pochi, male in armi e peggio in arnese. Non c'era modo di andare in grossi drappelli ad aiutare quei pochi, che avevano passato il confine quando era meno diligente la guardia, e lo stato della insurrezione poteva compendiarsi in questa frase, che le bande stancavano il nemico, ma più ancora sè stesse. La prodezza e la costanza erano ammirabili; ma pur troppo quelle due belle virtù non potevano tener luogo di scarpe, di coperte di lana, di cartucce e di pane; quattro cose altrettanto necessarie al soldato.

"Roma o morte" si gridava frattanto, nelle dimostrazioni quotidiane, per tutte le città maggiori del regno. Bisognava andare in aiuto ai compagni, per tener vivo il fuoco. Garibaldi sarebbe un giorno o l'altro venuto in campo, a rinnovare i suoi prodigi; Stefano Canzio, la cui rara energia di propositi doveva meritargli l'appellativo di "noto" nei carteggi governativi, si adoperava intorno a un disegno di fuga, con affetto di congiunto, con devozione di soldato, e nessuno dubitava che l'impresa, quantunque difficile, avesse a sortire buon esito. Bisognava andare, andar subito; ma come?

Alla spicciolata, sicuramente. Ma anche alla spicciolata, bisognava indovinare la strada buona. Per Alessandria e Bologna si andava speditissimi, aiutando il vapore: ma alla stazione di Genova vigilavano guardie e carabinieri; le facce garibaldine erano presto riconosciute e cacciate indietro senza misericordia. "Lei non andrà, e i suoi amici nemmeno"; lo aveva detto il cavalier Verga, e manteneva la parola. Quanto alla via di mare, le stesse difficoltà; ogni visita a bordo dei vapori in partenza per Livorno e per Napoli, rimetteva a terra i viaggiatori sospetti. Per uscire da Genova restava la via più lunga, quella di Chiavari, dove non si andava ancora in istrada ferrata. Ma le diligenze avevano l'ufficio e lo scalo in piazza San Domenico: ad ogni partenza la questura visitava il registro dei viaggiatori, assisteva all'imbarco, fiutava la sua gente, e non c'era verso d'ingannarla con barbe finte, con parrucche gialle, con occhiali verdi, o con altre invenzioni dell'antico repertorio.

Pure l'amico mio Antonio Burlando, con cui avevo fatto conto di partire, non disperò di trovare una gretola. - Vedrai che si va, - mi disse, - e per la via di Chiavari, in barba al signor Verga. Lascia fare a me; ho il mio piano in testa.

Il piano del mio maggiore non istette molto a venir fuori. La mattina del 12 ottobre, due amici suoi, saviamente scelti con due cognomi dei più comuni a Genova, un Costa e un Parodi, andavano ad iscriversi per due posti di coupé nella diligenza di Chiavari. All'ora della partenza, sotto gli occhi dei vigili, capitavano con le loro valigie, che erano poi le nostre, e le facevano caricare sull'imperiale. Noi, proprio allora, passeggiavamo in piazza San Domenico, per dare un'occhiata al giuoco, ma non senza riceverne un'altra, abbastanza canzonatoria, da un delegato di pubblica sicurezza, che aveva l'aria di dirci: "passeggiate, voi altri; da Genova non si esce."

E noi passeggiavamo, chetamente muovendo per via Carlo Felice fino alla piazza delle Fontane Morose. Ma là, presa una vettura da nolo, ordinavamo al cocchiere di condurci per Santa Caterina agli archi dell'Acquasola, in via Serra, in via Galata, a porta Romana, all'inferno, purchè si facesse alla svelta.

Gerolamo Costa e Giovan Battista Parodi, i due amici del coupé, dovevano trovarci in Bisagno, al ponte della Pila, o più lontano, secondo i casi; al colmo della salita di San Martino, a Sturla, o più in là, pronti a prendere i loro posti in diligenza. Si adattavano anche a fare un viaggio più lungo; per render servizio a noi sarebbero andati magari a Nervi, a Recco, a Rapallo; fino a tanto non ci vedessero in mezzo alla strada provinciale, avrebbero continuato, anche col rischio di giungere a Chiavari. Gran rischio, finalmente! La città era così bella, e si stava così bene all'albergo della Fenice!

A noi parve che Sturla, col suo ponte sul fiumicello omonimo, nè troppo vicino nè troppo lontano da Genova, fosse il luogo più adatto per aspettare la diligenza e darle l'assalto. Perciò, avevamo detto al vetturino di condurci fin là, ma al galoppo, senza perdere un minuto. La diligenza, tardigrada di sua natura, non poteva averci preceduto; a San Martino si seppe che non era ancora passata; ma noi volevamo giungere molto prima di lei al punto indicato, per aver tempo ad assumere un'aria di gente quieta, e sopra tutto non farci vedere discesi da un cocchio, per salire in un altro. I cospiratori, si sa, sono un po' tutti così. E correvamo, a gran forza di frustate, per la via polverosa, col massimo desiderio di allontanarci presto, di fuggire da Genova, da quella Genova per la quale più tardi si ha da patire il mal del paese; cosa che a me accade di sicuro dopo quindici giorni di assenza.

Certe nuvole vagabonde, di cui non è mai penuria in autunno e in vicinanza del mare, s'erano addensate sul nostro capo, spremendo un'acquerugiola che prometteva di mutarsi poco stante in acquazzone; ed io stavo pensando tra me dove avremmo potuto metterci al riparo, se in una botteguccia di tabaccaio che ricordavo esser là, passato il ponte, o sotto un arco del viadotto della strada ferrata, allora in costruzione. Pioggia o non pioggia, del resto, il luogo mi pareva di buon augurio, sotto la collina di San Giacomo, dove un anno prima, finita la campagna del Trentino, ero stato in felicissima villeggiatura tre mesi. Già la carrozza era entrata sul ponte; ma eccoti, mentre io dico al vetturino di fermarsi, l'altro tira via di galoppo, rispondendo a bassa voce e quasi senza voltarsi: non vedono?

Guardammo infatti, e vedemmo. Due guardie di questura, della più bella specie, fiorivano come due bei tulipani neri in capo al ponte, presso l'angolo di quella medesima casa dov'era l'appalto.

La vista dei due bravi di Don Rodrigo, nemici dell'ordine pubblico, non fu ragione, io credo, di tanto turbamento al povero Don Abbondio nella viottola campestre, quanto a me la vista di quei due custodi dell'ordine sullodato. Mi posi io l'indice e il medio nel colletto della camicia, tanto per darmi l'aria dell'uomo tranquillo, integer vitæ scelerisque purus? Non ricordo; ma se non l'ho fatto, mettete che sia stato un miracolo.

Si andò dunque avanti, seguendo il buon impulso del vetturino. Costui ci aveva fiutati; e gli pareva che non dovessimo essere in troppo buon odore presso il questore di Genova, nè presso i suoi delegati suburbani. Ottimo vetturino!

Giunti a Pietra Roggia, ci fermammo finalmente. Non c'erano guardie, laggiù; c'era invece un'osteria, la quale ci offriva un riparo, e al bisogno un pretesto di scampagnata.

Quell'osteria, per chi la vede di fuori, ha l'aria di una casupola che stia lì per fare ad ogni momento un tonfo nell'acqua: ma a chi la guarda dentro, apparisce solidissima. Ai tempi andati dovette essere una casamatta, e gli stretti spiragli, che la pretendono a finestra dalla parte del mare, furono strombature di feritoie per allogarvi la canna delle colubrine. Al tempo di cui racconto, non c'erano più arnesi con cui rispondere alle ostilità di un naviglio nemico; c'era invece un'ostessa, la "bella Ninin," famosa per i suoi ottimi taglierini e per il suo stufatino al dente. Era un'ora, bruciata, quella in cui smontavamo: niente taglierini, adunque, e niente stufatino. Ci contentammo di due gallette, che inzuppammo in un bicchiere di vin bianco.

Era il tocco dopo il meriggio, e si doveva aspettare un bel pezzo. Finito il nostro spuntino, ce ne andammo su d'un terrazzo, di fianco alla casa, guadagnato a colpì di piccone sulla falda dello scoglio.

- È un ottimo osservatorio; - dissi all'amico. - Hic manebimus optime; non ti pare?

- Sì, - mi rispose egli, - ma a patto che tu non incominci a parlar latino.

- Lingua del Lazio, perbacco! e noi si va a Roma.

- Per intanto siamo ancora a Quarto.

- Ad quartum lapidem, - fui per soggiungere; ma mi trattenni in tempo. Amavo il mio maggiore, e mi appigliai al partito di guardarmi dattorno.

La riva di Quarto ha fama di aridità, e fama meritata; anzi, può dirsi che sia tanto celebre per questo, come per la epica spedizione dei Mille. Nè solo è arido il lido scoglioso; arida, o quasi, è la lista di campicelli che corre tra la via provinciale e i monti vicini; i quali, poi, per non dar ombra al Fasce, loro primogenito, si serbano modestamente ignudi, non portando ombrello di pini, né d'altra ragione di piante.

Pure, al tempo degli Scienziati, e del loro famoso congresso in Genova, la nudità di quelle montagne aveva impietosita un'intiera sezione di dotti. La pietà, in un congresso, finì con un ordine del giorno; l'ordine del giorno portò che quelle balze, di monte Fasce, di monte Moro e dei loro compagni minori, ricevessero una larga seminagione di pinocchi. Niente d'ambizioso, niente di esotico nella famiglia delle conifere: pini, pini domestici a tutto spiano. Per quella seminagione abbondante, e convenientissima al terreno, tutta quell'arida costiera doveva inverdirsi in pochi anni, e quella sassaia diventar più folta d'alberatura, che non fosse la selva incantata, donde il pio Goffredo pensava cavar tante legna per uso di messer Guglielmo Embriaco, gran costruttore di torri mobili nell'esercito crociato.

Si era nel '46. I seminatori si misero all'opera: per una ventina di giorni quei greppi furono corsi e ricorsi, sterrata ogni grillaia, piantati da per tutto i bei pinòli dal guscio rossastro. Già si vedono, cogli occhi della mente, sbucar da terra i preziosi germogli; la fantasia salta a bisdosso del suo ippogrifo,

 

E dell'ombra ventura in cor s'allegra.

 

Ma ohimè, passano i giorni, passano i mesi, passano gli anni, e arrivederci coi pini. Fu detto allora dai savi del vicinato che quelli non erano luoghi da alberi; che la natura li aveva fatti calvi, e che i dottori di Genova ci avrebbero perso l'unguento. La ragione fu accolta da principio per buona; che cosa non fu detto dei signori scienziati? che erano capi scarichi, sognatori, buoni a imbrattar carte colle loro teoriche, ma poi, venuti alla pratica.... Già, s'intende, la pratica è il cavallo di battaglia di quanti sono che non sanno leggere nè scrivere. Noi in italia abbiamo diciassette milioni di uomini pratici.

Ma ci fu uno che non si contentò della spiegazione degli uomini pratici. Era un Garibaldi, medico condotto di Quinto. Volle andare al fondo delle cose, saper tutto, vederne l'acqua chiara. Parlò coi seminatori, giunse ai compratori dei pinòli, e seppe.... che quei semi preziosi erano stati comperati dal droghiere. I pinòli, innanzi di passar nelle mani dei seminatori, erano stati nel forno.

Ed ecco perchè, ad onta dei dotti congressisti e del loro pietoso ordine del giorno, le nostre balze da Sturla a Sant'Ilario, da Sant'Ilario a Bogliasco, a Sori, sono rimaste calve come il monte Fasce a cui fanno da sproni, aride come la scogliera sulla quale me ne stavo io con l'amico, ad aspettare l'arrivo della nostra diligenza tardigrada.

Era una veduta malinconica, e mi svegliò nell'anima i più malinconici pensieri. Il cielo, quantunque fosse spiovuto da un bel poco, si manteneva rannuvolato. Tutt'intorno, il terreno appariva vestito di colori smorti, come è naturale in luoghi rocciosi, dove non provano che gramigne, cardi selvatici, con rari ciuffi di tamerici che pendono polverose qua e là dai ciglioni sulla strada maestra. La scena non era muta, per altro; aveva pure una voce, ed era quella del mare, che mandava i suoi cavalloni ad infrangersi, con monotono fragore e larghi sprazzi di schiuma, contro il macigno calcareo della riva scoscesa.

Genova era nascosta ai nostri occhi dai due promontorii di Sturla e di Albaro; ma, come avviene qualche volta per effetto di allucinazione, a me pareva di vederla. Le colline sparivano di mezzo; le mura si facevano diafane; vedevo le strade, i vicoli, perfino le note facce dei cittadini, i peripatetici di via Carlo Felice, gli stoici di piazza Banchi, i cinici del Gran Corso, i socratici della Concordia, gli aristofaneschi della libreria Grondona, e quelle altre creature che non sopportano appellativi antichi ed antipatici, poichè il loro nome è gioventù e bellezza; voglio dire le nobili e contegnose visitatrici di botteghe eleganti, da Luccoli a Soziglia, dalle Vigne a San Siro.

Addio, Genova, addio bella, che amo con tutte le forze dell'anima. Bella, sì, bella, più ancora che superba; bella "di una certa bellezza il cui tipo si va perdendo oramai, insieme col vecchio costume;  non madonna bisantina, impacciata nel manto grave d'ori e di gemme; non civettuola sgallettante sul marciapiede, con un occhio ai suoi fronzoli parigini e l'altro al colto pubblico, senza pregiudizio dell'inclita guarnigione; giovane madre, piuttosto, sempre giovane madre, sorridente e serena, il cui fascino costante, più che nello sguardo assassino, si dimostra in una gaia corona di bambinelli ricciuti. Addio Genova, addio città dove ho riso e pianto, dove ho amato e sofferto, dove mi sento stretto da tutti i vincoli più sacri, sian dolci od amari, delle rimembranze giovanili. Se io..... il che finalmente non sarà grave danno, nè per me, nè per altri.... se io....

- Signori! - gridò la "bella Ninin," affacciandosi all'uscio del terrazzo, - la diligenza è lassù alla svolta. -

L'amico si mosse; io lasciai a mezzo un saluto che minacciava di volgere al patetico, e lo seguii sulla strada.

Il maestoso carrozzone che doveva portarci a Chiavari e da Chiavari alla Spezia, si fermò cortesemente davanti all'osteria: Gerolamo Costa e Giovan Battista Parodi scesero prontamente, ci strinsero la mano, augurandoci tante belle cose; noi saltammo dentro, a prendere i due posti abbandonati; e fu un batter d'occhio.

 

 

 




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