Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
Anton Giulio Barrili Con Garibaldi alle porte di Roma: 1867 IntraText CT - Lettura del testo |
II
Da Quarto a Firenze. L'entrata alla Tappa. Nella Galleria degli Uffizî
- Ci siamo, finalmente! - dirà consolato il lettore.
E non dubiti, dicemmo la stessa cosa anche noi, aggiungendovi un lungo, largo e profondo respiro. Oramai non ci mettevano più le unghie addosso; a Firenze, dove si sarebbe giunti la mattina seguente, avremmo avuto il piacere di ritrovarci nel più stretto incognito.
Quanto a ciò, eravamo in errore. A Firenze non dovevamo far passo senza imbatterci in persone conosciute, e non dimenticherò mai più che in Piazza della Signoria ci vedemmo squadrati lungamente da due guardie, che pochi giorni innanzi ci avevano pedinato per le vie di Genova, fino alla porta dei Vacca, sull'uscio di un circolo di amici, dove forse credevano che fosse un comitato di arruolamento.
Ma non precorriamo gli eventi. Per ora siamo in diligenza, dove il nostro primo pensiero è di accomodarci per benino, il secondo di render grazie a quell'arca ospitale che ci porta via, il terzo di far conoscenza con un compagno di viaggio, che è l'incaricato del servizio postale, il signor Bolentini, di Borghetto Vara, ottimo giovane, a noi largo di attenzioni d'ogni maniera. Con me, curiosissimo animale, egli fu paziente cicerone per quanto fu lunga la strada: giunti a Spezia, non volle mica andare a dormire; ci accompagnò cortesemente allo scalo della strada ferrata, che era piuttosto lontano; e laggiù stette con noi, amorevole compagno d'insonnia, fino alle quattro del mattino. Ma eccomi da capo a precorrer gli eventi; tanta è la mia fretta di giungere!
Per farvela breve, vi dirò che ci fermammo pochi minuti a Recco, luogo a me caro, come Nervi e Quinto, per allora recenti testimonianze di affetto, le quali io ricorderò sempre con animo grato, sebbene non portassero, e chi sa? forse più ancora perchè non portarono frutto; che di là si salì in Ruta (notarile italianizzamento di Rua, che fu corruzione dialettale di un'antichissima ruga latina), in Ruta, famosa stazione per le allegre scampagnate che solevano farci i genovesi del vecchio stampo negli ozi della domenica, e donde io potei dare l'ultimo sguardo alla bella Genova, illuminata dai gloriosi lumi del tramonto; che sotto la galleria di Ruta vidi il crinolino più rigonfio che mai fosse portato da una impettita Venere campagnuola; che scendemmo a Rapallo, nel golfo Tigullio, stupenda veduta di anfiteatro villereccio e di mare azzurrino; che finalmente caddero le ombre della sera, e non vedemmo più nulla.
Perciò, non mi venne fatto di appagare il desiderio che sempre avevo avuto fortissimo di vedere la "fiumana bella" che
Intra Siestri e Chiavari s'adima;
vederla, s'intende, al naturale, che dipinta l'ho in pratica assai, grazie al mio amico Tamar Luxoro, che pare ne sia innamorato cotto, e vi ha già intinto non so quante volte i suoi valorosi pennelli. Neanche potei salutare il Chiappaione, quella famosa cava di lavagna, dove il mio venerato Giuseppe Revere scrisse le più belle pagine e le più gravi d'insegnamenti delle sue Marine e Paesi, dopo avere udito i discorsi del fiero conte di Lavagna, di Andrea Doria, di Cristoforo Colombo e di tanti altri valentuomini della età dei giganti.
Ma se tante altre cose non vedemmo, ci fu dato almeno di abbracciare il nostro amico Prandina, valente chirurgo, già soldato della Legione Lombarda, con essa sbalestrato nel 1849 a Chiavari, e colà trattenuto dall'affetto per tutto il resto della sua vita; salvo, s'intende, le volate epiche di quattro campagne garibaldine. Egli era in quei giorni sulle mosse per fare il nostro medesimo viaggio; e là, nei pochi momenti della nostra fermata, ci fu pronto ed amorevole dispensatore di due cose che lo stomaco cominciava a sentir necessarie: una fetta di arrosto e una bottiglia di vino. Condonatemi questi ricordi gastronomici. Anche gli eroi d'Omero mangiavano come Turchi e bevevano come Cristiani, quantunque fossero la più parte di sangue immortale, e al babbo e alla mamma avessero potuto chiedere un assaggio di più poetiche imbandigioni; l'ambrosia, per esempio, od il nèttare.
Non tutti i ricordi della fermata a Chiavari son lieti come questo. Ci fu anzi un momento, che, per dirla col poeta, mi si drizzaron "le chiome sul crin." La diligenza, entrata in città, si era appena fermata davanti all'ufficio dei biglietti, che due persone si affacciarono allo sportello del coupé, domandando:
- Son qui i signori Costa e Parodi?
- Ahi! - diss'io dentro di me. - Notizie della questura. -
E cercai nell'ombra il viso dell'amico Burlando; il quale, mosso certamente dallo stesso pensiero, mormorò tra i denti:
- Ci mancava anche questa! -
Ero il più vicino ai due sconosciuti;
perciò
mi rivolsi loro e parlai io.
- Che cosa chiedono? Costa e Parodi siamo noi per l'appunto.
- Abbiamo - risposero - due telegrammi da Genova.
- Assassini! - borbottai dentro di me. - Basta, qui bisogna far grinta dura;
Ogni viltà convien che qui sia morta.
Così dicendo, o pensando, stesi la mano per prendere i due telegrammi che quei signori ci offrivano.
- Lo fanno almeno con garbo; - soggiunsi, parlando sottovoce all'amico. - Vedi? ci mostrano anche gli ordini superiori che hanno ricevuto. -
Ma i due telegrammi erano chiusi tuttavia; non si trattava dunque di ordini superiori. Il signor Bolentini, posto mano ai fiammiferi, aveva cortesemente acceso un torchietto, alla cui luce potemmo aprire le buste e leggere i due telegrammi. Essi dicevano con poche varianti la medesima cosa; si trattava di una notizia particolare, giunta a Genova dopo la nostra partenza, ed era un amico che ce la mandava in due edizioni, una a Gerolamo Costa e l'altra a Giovan Battista Parodi, ai viaggiatori nel coupé della diligenza di Chiavari.
Ne uscivamo con la paura: ma vi so dir io che per la mia parte ne ebbi moltissima. Animo! esclamai. Questo è di buon augurio; se alla stazione di
Firenze le guardie daziarie non ci rovistano troppo le valigie, trovando le nostre rivoltine, si giunge in porto senz'altre avarie.
Alle due dopo la mezzanotte eravamo alla Spezia; alle quattro, in istrada ferrata. L'aurora con le rosee dita ci dipinse vagamente la campagna circostante, da Arcola fino alla Magra. Toccavamo le soglie dell'Etruria; andando oltre salutammo Carrara e Massa, nascoste lontano dietro il rialto delle verdi campagne, ma indicate abbastanza dalle creste dell'Alpi Apuane e dalle arsicce costiere ferrigne, le quali per larghi solchi biancastri lasciano indovinare i marmi che portano nel fianco. Quanti numi sono usciti di là! quanti eroi! quanti grand'uomini! E quanti ce ne sono ancora rinchiusi, pigiati in quelle vene profonde, i quali non domandano altro che di poter uscire alla luce del sole! State cheti, o grand'uomini futuri. A farsi corbellare c'è sempre tempo. Dormite nel limbo delle montagne natie, dove non è beffardo sogghigno di contemporanei, nè beata indifferenza di posteri.
A Pisa, dove ci fermammo mezz'ora, mi piacque il campanile del Duomo e una bistecca; quello divorato cogli occhi passando; questa coi denti al caffè della stazione. Qui, tra un boccone e l'altro, feci conoscenza con un vicino di tavola, il quale venne poi nello stesso compartimento con noi, e diventammo amici, come uomini che si conoscessero da quarant'anni e contassero di vedersi per altri quaranta.
Graziosi embrioni d'amicizia, larve a cui non manca che un po' di tepori primaverili per mutarsi in crisalidi, vedute di cielo sereno fra due lembi di nuvole, per voi l'anima esce un istante dal covo e si rallegra all'aperto. Durate un baleno, ma la ricordanza rimane; e questa, che è gaia, aggiunge un fil di seta alla trama della vita, che è troppo spesso di canapa, e mal pettinata per giunta.
Noi non chiedemmo il suo nome al nostro gentile compagno. Il più bel nome che un uomo possa portare egli lo aveva scritto nel viso: gentiluomo. Gentiluomo! ahimè, parola abusata, tirata malamente ad esprimere uno stato sociale, e non più una felice concordanza di tutti i pregi della mente e del cuore!
Egli era di Signa, e ritornava allora dalla Esposizione di Parigi, che fu il tema dei nostri discorsi lungo il viaggio, salvo parecchie digressioni intorno ai luoghi per cui passava il convoglio, agli uomini insigni che li avevano illustrati nascendoci, ai possessori felici di quelle ville fastose, di quei castelli principeschi che sorgevano tutt'intorno a specchio dell'Arno, del nobile, regale, glorioso, ma non limpido fiume. Ogni bel giuoco dura poco, e "l'ore del piacer son le più corte." Perdemmo alla stazione di Signa il nostro gentil cicerone, e non potemmo levarci la più piccola curiosità intorno a tutto quel resto di paese che avevamo da percorrere. Fortunatamente non era più molto: ben presto, al dilatarsi e al pianeggiar della valle, al moltiplicarsi dei villini, dei parchi, dei ceppi di case, si sentiva Firenze: ancora qualche minuto di corsa, e ci apparve sul fondo verde grigio della prospettiva una gloria architettonica di torri, di campanili, di cupole, ed io riconobbi facilmente tutto ciò che da bambino avevo veduto in molte stampe, e da giovane in moltissime fotografie. Niente di nuovo sotto il sole, dicevano gli antichi; ora il proverbio dovrebbe mutarsi così: niente di nuovo, per grazia del sole.
A proposito di novità, non ne aspettate da me, intorno a Firenze. Tanto ne è stato scritto da cinquecent'anni a questa parte! Il mio viaggio, del resto, non ha per sua meta l'Etruria; a Firenze non debbo fermarmi neanche due giorni intieri; del viaggio racconterò a mala pena il poco che vidi, e il niente che feci, o poco meno di niente. Nella mezza giornata del 13 di ottobre e nella mezza del 14 che passai sulle rive dell'Arno, alloggiando alla Locanda della Luna, desinando da Barile e bevendo qualche fiaschette di Pomino da Castelmuro, vidi molto Firenze politica, fastidiosa a quel modo, pochissimo Firenze artistica e storica. Perciò, lettori, non v'aspettate un quadro, e nemmeno un bozzetto.
Entrando, vidi un bel cielo, un cielo sereno, che mi parve quello di Genova. La città era allegra nell'aspetto: a me la rendevano solenne le grandi memorie che mi si affollarono alla mente, guardando le alture di San Miniato e le bastite di Michelangelo. Suonava il mezzodì, e non era certamente ora di fantasmi; ma io vedevo il Buonarroti, Francesco Carducci, Dante da Castiglione e tutte le colossali figure dell'Assedio, scomodarsi per la mia giovane persona e cortesemente servirmi da introduttori nella bella città.
Vedete potenza d'immaginazione! E non avevamo ad introduttore che un vecchio fiaccheraio, vera figura di Stenterello, il quale voleva insegnare il passo di corsa ad un cavallaccio sparuto, più vecchio di lui, a forza di frustate e di giuraddio. Il cavallo, che probabilmente non aveva ancora mangiato in quel giorno, non voleva saperne a nessun patto; e fu bene per me, che approfittai del suo passo ordinario per ammirare il grazioso ricamo architettonico di Santa Maria Novella; bellissima cosa e bellissimo nome.
Andavamo, come ho già detto, ad alloggiare alla locanda della Luna. A me parve di esserci già, nella luna, quando la carrozza entrò nella piazza della Signoria. Maraviglia delle maraviglie! L'albergo, dove giunsi dopo una svolta, lo vidi appena, tanto che non ne ho conservato memoria; rammento che mi risciacquai il viso in fretta, e più in fretta spolverata la giacca e il pioppino, scappai subito fuori per ritornare in piazza della Signoria, a guardare la severa mole di palazzo Vecchio, con quella sua gran torre a sbalzo sull'orlo della merlata, poi la loggia dei Lanzi, mirabile da lontano per l'eleganza delle forme, più mirabile da vicino per ricchezza di marmi e di bronzi stupendi, che uno solo basterebbe ad illustrare un'età. Non parlo del gruppo moderno, Pirro e Polissena, del Fedi, buona scultura che si reputò degna di aver posto colà, dopo averla ammirata da sola nello studio dell'artefice, mentre laggiù, tra le grandi cose, è piccina, e par più leccata che graziosa al confronto di tanta larghezza di fare a cui s'improntano le statue vicine. Grandeggia là dentro l'arte di Gian Bologna col suo Ratto delle Sabine, miracolo di torsi e di gambe intrecciate senza ombra di sforzo; grandeggia il Cellini col suo Perseo, che è di bronzo, ma vola. Ma sopra tutti, di fianco all'ingresso di palazzo Vecchio, torreggia il Buonarroti col David, colosso di marmo, che pare una creatura viva, un adolescente vero, tanta è la felicità dell'espressione e la più felice sproporzione di alcune parti, che indica maravigliosamente l'uomo non ancora formato nella giusta pienezza virile di tutte le membra. Tutto era bello, tutto stupendo, ovunque io volgessi lo sguardo. Che più? perfino il Biancone di piazza (così chiamano a Firenze il gigantesco Nettuno della fontana, opera dell'Ammannati) m'andò maledettamente a genio, sebbene ricordassi il sarcastico motto imprestato a Michelangelo, intorno allo spreco di un così bel pezzo di marmo.
La mia artistica curiosità, così potentemente risvegliata da tante bellissime cose, non sentiva più freno, nè di stanchezza nè di fame. Volli entrar subito in palazzo Vecchio, e, senza badar più che tanto al bellissimo atrio, volai alla sala dei Cinquecento; non già per vedere gli scanni, caldi ancora della sapienza di quattrocentocinquanta e più legislatori moderni, bensì per ammirare una Virtù che trionfa del Vizio, opera di Gian Bologna, della quale avevo letto mirabilia magna.
Il dottor Giovannetti, di Monte Fiore nelle Marche, mio carissimo collega nel culto delle Muse e di Bellona, che avevo allora allora incontrato ed abbracciato in piazza, mi fu introduttore e cerimoniere presso quella divina, ch'egli si ostinava a chiamare la Voluttà. E non mi parve che ragionasse male. L'arte dei nostri padri riusciva eccellente in questi controsensi. Badavano anzi tutto a fare una bella donna, rivaleggiando, direi quasi, con Domineddio; poi ci mettevano un emblema, un segno allegorico, e il colpo era fatto. Per tal modo l'Urbinate soleva dar vita eterna alle sue innamorate, mettendo loro un bambolo in collo, e facendole passare per altrettante Madonne. Non dissimilmente da Raffaello, il valoroso Gian Bologna condusse in marmo una splendida bellezza, a cui pose il nome di Virtù, e tra' piedi, in atteggiamento arditissimo, le scolpì, ma che dico scolpì? fece respirare e muoversi un uomo, a cui pose il nome di Vizio. Chi non vorrebbe essere il Vizio, con una virtù così fatta?
La bellissima statua era nell'aula parlamentare, alla destra del trono. Io, salvo il rispetto dovuto alla Corona e ai diritti della casa di Savoia, che felicemente ci regge, l'avrei messa in trono addirittura, in barba alla legge salica e all'articolo secondo dello Statuto. Restai mezz'ora ad ammirarla per tutti i versi, e la sensazione che n'ebbi fu molto ma molto più forte di quella che mi diede un'ora più tardi, nella vicina Galleria degli Uffici, la decantata Venere dei Medici.
A proposito, e chi ha consigliata la figlia di Cleomene a tenersi tante rivali in quella camera, dove essa dovrebbe regnare da sola? È nel mezzo, sta bene, e proprio di rincontro all'uscio; ma il vicinato di tante altre bellissime creature, che fanno tanto maggiore effetto quanto è minore l'aspettazione dei visitatori, le riesce proprio fatale. C'è tra l'altre quella Venere del Tiziano! La divina creatura se ne sta mollemente adagiata sulla tela, e non ha nessuna voglia di balzarne fuori. Fa bene, perbacco, che altrimenti i signori uomini, con la loro molesta assiduità, non le lascerebbero un minuto di pace.
Seduta su d'una scranna, quasi nel mezzo della sala, per modo da poter guardare la statua e il dipinto, la Venere greca e la Venere italica, stava una giovine signora, che alla serena libertà degli atti, alla capricciosa foggia delle vesti, si riconosceva facilmente per una figlia d'Albione. Bianca nel viso come alabastro; lunghe le ciglia, che velavano a mezzo i grandi occhi d'indaco; corallo tenero le labbra; ala di corvo i capelli.... Dio! stavo per fare un ritratto di maniera, e quel che è peggio, senza rassomiglianza, poichè io non ho posto due volte gli occhi sull'originale.
Ce li aveva posti bensì, e non li aveva più tolti di là, il mio amico Giovannetti,
- Vedi le tre Grazie? - diss'egli a me e al marchese di Pietramellara, un altro amico e compagno d'armi combinato in piazza quel giorno.
- Dove, le tre Grazie?
- Qui dentro; la statua, il quadro,e la signora inglese.
- Ah, vorrai dire le tre dee del monte Ida; - rispose il Pietramellara,
- A quale daresti il pomo, Ludovico? - chiesi io.
- Alla viva, che diamine, alla viva; - replicò il Pietramellara. - E tu?
La figlia d'Albione capiva benissimo l'italiano. Me ne avvidi al color delle fragole che le tinse i miti alabastri. La bella accostò con atto impacciato l'occhialino alle lunghe ciglia, per guardare non so bene se il quadro o la statua: stette ancora pochi secondi seduta, non so se per aspettare la mia risposta, o per dar tempo al suo rossore di dileguarsi; quindi si alzò, e, senza voltarsi neanche di profilo dalla parte nostra, se ne andò verso il fondo della sala, a raggiungere la sua comitiva.
Brava inglesina, così va fatto. Un'altra donna, poniamo una.... parigina, si sarebbe voltata un pochino, tanto per gradire: ma lei dura! e se il demonietto della vanità che alberga nel cuore di tutte le figlie d'Eva, ha dato un sobbalzo di contentezza nel suo, gli sguardi profani non ne hanno avuto da vedere un bel nulla.