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Anton Giulio Barrili Con Garibaldi alle porte di Roma: 1867 IntraText CT - Lettura del testo |
III.
Ludovico di Pietramellara. Si rimonta ai Vespri Siciliani. Calessata musicale.
Mi sono fermato un tratto a ragionarvi di donne, perchè le immagini di questa bella metà del genere umano fanno nel racconto quel che la luce in un quadro. Senza queste due o tre donne di marmo, di carminio e di biacca, e senza la fuggevole apparizione d'una bella inglesina, le immagini femminili mancherebbero affatto al mio quadro fiorentino. Concittadine di Beatrice, io non ne vidi quella volta pur una. Giornata cattiva, era quella, come se ne danno in ogni città. Neanche alle Cascine, che io percorsi in lungo e in largo, scorrazzando in compagnia del Pietramellara, mi fu dato di vederne uno scampolo. È vero, per altro, che quando andammo alle Cascine erano appena le quattro dopo il mezzogiorno, e non c'era altri che il sole, al cui raggio benefico stavano scaldandosi gli elefanti e le scimmie del giardino zoologico.
Ed ora, lasciando in disparte il bel sesso, osserviamo il mio compagno di passeggiata, che merita veramente di esser conosciuto da voi. I carabinieri genovesi del '67 hanno con lui un debito di gratitudine che io non posso dimenticare: del resto, un cercatore di bei caratteri non può lasciar passare senza due tratti di penna questo bel tipo di gentiluomo italiano del vecchio stampo.
Il marchese Ludovico di Pietramellara nasceva bolognese, ed il nome della sua famiglia era da parecchi secoli collegato a tutte le più nobili tradizioni della vita italiana. Si parlava bensì di un'origine francese della famiglia; ma quella era una storia d'antica data, e gli antenati del mio amico si sentivano già italiani fin dai tempi di Carlo II d'Angiò. Essi, almeno, pronunziavano “ciceri„ come io e voi.
Questo vi sembrerà un indovinello: ma eccomi a spiegarvelo subito.
È noto come i francesi, calati in Sicilia sotto il regno di Carlo I d'Angiò, fossero diventati parte della popolazione, e come si fossero mescolati con essa, per alleanze, interessi e via discorrendo, in modo da non poterli a tutta prima sceverare da quella. Ora, a quest'opera di selezione intendevano per l'appunto i congiurati di Giovanni da Procida, che meditavano il Vespro famoso. Ma la faccenda era molto difficile.
Ai tempi di Mosè, Dio stesso aveva ordinato di segnare con una ditata di sangue le case degli Ebrei, per distinguerle da quelle degli Egiziani, e agevolare in tal guisa il lavoro alla morte sterminatrice. Ma a Palermo non si poteva far capitale sopra una intromissione divina di quella fatta, gli Angioini essendo ben voluti dal Papa. Che fare adunque? A quali espedienti por mano?
Dopo molto almanaccare, parve a qualcheduno di aver trovata l'astuzia, che tenesse luogo dell'aiuto celeste. E fu questa, che i Siciliani autentici dovessero chiedere per via, a quanti trovassero, di pronunziar la parola "ciceri."
- Se sono italiani, - si argomentò - diranno un bel "ciceri" chiaro e tondo; se sono francesi, saranno costretti a sibilare un forestiero "sisserì" che darà modo di conoscerli ad occhi chiusi. -
Lo spediente era adamitico; ma che volete? pare che i Francesi ci cascassero quasi tutti. Dicevano "sisseri" ed erano spacciati senza misericordia. Così la leggenda. Ma non tutti, come ho detto, non tutti. Ci fu tra gli altri un certo Vassé, che rispose un "ciceri" largo tanto. Ed egli seppe solamente più tardi come la flessibilità accidentale della sua lingua gli avesse salvata la pelle.
Ora, fu proprio questo Vassé l'antenato storico del mio amico. Venuti poco dopo in terraferma, i Vassé ebbero il feudo di Pietramellara, presso Caserta, e ne tolsero il nome, che fu degnamente portato. Nel 1849, per non dirvene altro, un Pietramellara, discendente dagli antichi Vassé, moriva gloriosamente a Roma, combattendo contro i Francesi puntellatori del poter temporale dei Papi; e questi era il fratello maggiore del mio Ludovico, soldato anch'egli di tutte le patrie guerre dal '48 al '67, e soldato valente.
Nel '66 lo avevo conosciuto capitano, e non ho più dimenticata la bellissima notte tirolese, al cui dolce chiarore abbiamo saldati i vincoli della più schietta amicizia, tra uno scambio affettuoso di ricordi personali, una infilzata di duetti della Norma, e la preparazione di un'arringa al tribunale militare di Storo.
Vi racconto anche questa? Sergente da principio nei Carabinieri Genovesi, ero passato sottotenente a mezzo luglio nell'ottavo reggimento, comandato dal colonnello brigadiere Carbonelli. La seconda tregua cogli Austriaci era cominciata; nè si poteva intendere ancora se fossimo a guerra finita, o se dovessimo proseguire le ostilità. Intanto, lasciate le teste di colonna sotto Lardaro da una parte e sotto Riva di Trento dall'altra, ci eravamo tolti dallo stare all'aperto, andando a cercare quello che in linguaggio militare si chiama l'accantonamento. Parte dei volontarii lo aveva sul territorio conquistato; il rimanente s'era allogato nei paeselli della Val Sabbia, da ponte Idro fino a Salò.
A noi dell'ottavo reggimento era toccata una mezza fortuna, quella di esser mandati a San Pietro, in Liano, bella eminenza alle spalle di Salò, che chiude da tramontana gli sbocchi della Val Sabbia, e vede da mezzogiorno e sopraggiudica le acque del Garda.
È lassù una bellissima chiesina, un po' disadorna dentro, ma ornata di fuori d'un vaghissimo loggiato, di due pietre sepolcrali con bassorilievi dei primi secoli dell'era cristiana, e sopra tutto di una veduta stupenda. Per giunta, c'era allora un arciprete, fior di galantuomo, con cui si stava volentieri a discorrere.
Dei molti luoghi che ho veduti nelle mie corse strambe, questo solo ha lasciato in me una profonda memoria e il desiderio di rivederlo. Dappertutto mi ha perseguitato il dolce pensiero di Genova: San Pietro in Liano, colla sua veduta del Garda, che mi raffigurava un lembo di mare, mi accarezzò per tre giorni le reminiscenze ligustiche; e mi pareva che là, in quella solitudine elevata, se ci avessi avuto chi so dir io, ci sarei vissuto contento mill'anni. Vedete che sono discreto.
Innanzi di proseguire il racconto, ricorderò il vicino paesello di Gazzane, dove mi capitò di vedere una vecchia casa nello stile del Cinquecento, scialba e malinconica, sulla cui facciata, all'altezza del primo piano, era murata una lista di marmo, sulla quale si leggeva incisa a grossi caratteri questa dolente apostrofe della Sacra Scrittura: "O vos qui transitis per hanc viam sistite et videte si est dolor sicut dolor meus."
Che cosa significavano quelle parole di colore oscuro? Ne chiesi al mio arciprete; ma egli non seppe dirmene nulla. Un dubbio mi venne alla mente, pensando che in quei luoghi doveva esser nato un gran letterato umanista del secolo XVI, morto a Genova di mala morte, il Bonfadio. Sarebbe questa la sua casa? È un padre desolato, od un figlio, l'autore della iscrizione? Nè allora ebbi tempo, nè ora, che mi ricordo, ho modo di sincerare la cosa.
Ma ritorniamo ai fatti nostri. Il terzo giorno del nostro accantonamento (che ne durò sei, come la tregua, mutata poi in armistizio) lo stato maggiore mi chiamava a Storo, per difendere davanti al tribunal militare tre buone lane di soldati, uno dei quali aveva rubata una camicia, l'altro una borsa da tabacco, e il terzo aveva fatto qualche cosa di peggio. Da San Pietro in Liano a Storo il cammino era lungo; non mi piaceva di rifare tutta la val Sabbia a cavallo, volendo dare un onesto riposo al mio Beppo, ottimo stallone pugliese, il quale da tanti giorni non aveva fatto che correre dalla mattina alla sera, e per troppo grami sentieri. Carrozze non ce n'erano, e il mandarne a cercar una a Salò poteva costarmi troppo salato. Alla cavalcatura di san Francesco ripugnavano i miei poveri piedi, memori ancora di venti giorni passati nel battaglione dei Carabinieri genovesi. Che fare? E qui, naturalmente, mi beccavo il cervello.
In questi frangenti venne a me il Belladonna, vero angelo portatore di una lieta novella. Costui era il mio buon padrone, poichè, sotto il pretesto di servirmi in qualità di attendente, inforcava il mio cavallo, quando io, per non istancarlo troppo, scendevo a piedi; metteva i miei guanti quando io li trovavo ancora puliti abbastanza, e si pigliava l'incarico di carezzar le guance alle donne di casa, dovunque io andassi ad alloggio; ma era poi un buon diavolaccio, che per farmi servizio si sarebbe buttato nel fuoco, e mi chiedeva tutte le mattine il permesso di offrirmi una tazza di caffè, che egli aveva l'ingegno di scovare non so dove, nè in che modo, quando eravamo accampati su per i greppi delle Giudicarie.
Ora, il mio buon padrone, saputo l'impegno in cui mi trovavo, era andato a frugare per le case e le fattorie dei dintorni. In un cortile aveva veduto un calessino sgangherato, da poterci star due persone, e attaccato al trespolo il cavallo dell'Apocalisse. Trespolo e cavallo erano del fornaio di Cazzane, e pronti per la partenza. Che si voleva di più? Al mio attendente pareva la man di Dio.
Era egli stato sollecito per me, o per sè, contando di esser chiamato all'ufficio di auriga? Non aveva egli lasciato a Storo qualche ricordo che gli premesse assai più delle mie tre fatiche ciceroniane al tribunal militare? Non ne so nulla: ricordo bensì che venne con aria di molta compiacenza a dirmi: vedrà, tenente, ci staremo benissimo.
- Andate, illustre amico, - gli dissi, - e fissate il calessino per me.
- L'ho tentato, - rispose, - ma il fornaio non ha voluto darmelo a nessun prezzo.
- Allora, requisitelo.
- L'ho requisito, infatti.
- Come! - esclamai. - Siete già andato dal sindaco?
- Sicuro; e mi ha fatto l'ordine per il fornaio, e gli ha messo il sequestro sul calesse.
- Belladonna! - gridai allora. - Voi portate un bel nome, e fate delle cose ugualmente adorabili. -
Il mio padrone s'inchinò pudibondo, e le bianche ali d'una mia coperta di berretto scesero a sfiorargli un mio fazzoletto di seta azzurra, che portava mollemente annodato al collo, secondo l'usanza garibaldina.
- Andiamo dunque a vedere questo calesse; - conchiusi. - Ho fretta di partire. -
E s'andò difilati. Ma, giunto sulla faccia del luogo, trovai il fornaio che strepitava come un ossesso; il calesse esser suo e a lui necessario per le sue faccende quotidiane; noi non avere il diritto di requisirlo, e tanto meno allora, che era stato preso a nolo da un capitano, il quale gli dava venticinque lire, per una scampagnata che voleva fare appunto quella notte.
Io gli risposi che non mi seccasse l'anima; che le venticinque lire gliele avrei date io, se col suo rifiuto non mi avesse costretto a venire con un ordine del sindaco; che viaggiavo per servizio, e che il servizio di un sottotenente andava innanzi al passatempo di un capitano.
Ma il fornaio la tirava in lungo, e non senza un perchè. Il capitano doveva giungere tra pochi minuti a pigliarsi il calesse. Venendo lui, maggiore di grado, mi avrebbe conciato a quel dio. Questo non lo diceva, il caro fornaio; ma gli si leggeva negli occhi, che brillarono di contentezza all'arrivo del capitano.
Io mi sentii rimescolare il sangue. Per me stava il diritto; ma pensavo che il superiore ha sempre ragione, anche quando ha torto, e che, se il capitano voleva pigliarsi il calessino, non aveva da far altro che mandarmi su due piedi agli arresti.
Il fornaio mi guardava con tanto d'occhi, per vedere come avrei saputo cavarmela.
Ci voleva giudizio. Misi mano agli artifizi oratorii, e incominciai:
- Capitano, io sono il tal di tale, e, come ho l'onore di dirle, sono chiamato in servizio a Storo, dove bisogna ch'io mi trovi infallantemente...
- Per domattina alle dieci; - aggiunse il capitano, compiendo la frase che mi aveva interrotta. - Lo so; anch'io vado a Storo per servizio, essendoci chiamato come giudice al tribunale militare.
- Ed io come avvocato; - replicai. - Debbono i miei clienti restare senza difesa?
- Tolga il cielo che io voglia condannarli, senza che possano far valere per bocca sua le loro ragioni. Vuol farmi una grazia? Salga con me sul calessino, che questo amicone mi fa costare un occhio del capo. -
Il cuore mi si allargò a quell'offerta, e fui pronto ad inchinarmi.
- A proposito d'occhi, - soggiunse il capitano, - io son miope. Se la porterò in un fosso, non vorrà mica farmene colpa? Del resto, se vorrà guidar lei....
- Capitano, - risposi, mettendomi volentieri sul suo tono, - io di notte non vedo un albero alla distanza di cinque metri. Quanto al guidare, non ho provato che una volta, e per quella volta sola ho già sulla coscienza due distorsioni, tre ammaccature e non so quante lacerazioni.
- Benissimo! - gridò il capitano. - Vedo che sarà necessario affidarci al senno di questo provetto animale. In manus tuas, Domine! Ora a noi; vuole che partiamo subito, o più tardi?
- Subito, se non le dispiace. Andremo a desinare a Vestone.
- Ottimamente! Ascendamus igitur o.... fovette cocher! -
Immaginate come fossi contento. Andavo a Storo, per fare il mio dovere, e m'imbattevo in un garbato gentiluomo, il quale, per fortuna mia, innestava allegramente nel suo discorso i testi latini e i francesi, fors'anche quelli di altre lingue parecchie; proprio come facevo io, senza saperne nessuna.
- Adelante, Pedro, sin juicio! - sclamai, montando nel calessino, dopa aver data una stretta di mano al mio gentilissimo superiore.
- La variante è buona; - diss'egli, rispondendo alla mia citazione poco manzoniana. - Avanti dunque, e il giudizio lasciamolo qui, al primo corpo di guardia; lo ripiglieremo al ritorno, si fata dabunt.
Quell'improvviso aggiustamento non entrava in testa al Belladonna.
- Ed io, sor marcheis? - chiese egli, che nella sua qualità di bolognese conosceva benissimo il Pietramellara.
- Tu, se mi è lecito darti un consiglio, starai qui a custodire il cavallo del tuo padrone; lo striglierai, gli porgerai le profumate avene, le dolci biade e i limpidi cristalli dell'Ippocrene locale; il che vuol dire in povera prosa....
- A i' ho capè, sor marcheis; - borbottò il Belladonna. - E lei, signor tenente, non mi comanda nulla?
- Appoggio la raccomandazione del capitano; - risposi.
Così andai col capitano, e così fu fatta, insieme con la prima conoscenza, la più schietta amicizia tra noi. Smarriti in un reggimento che non finiva più (quattromila uomini a dir poco), egli comandante della ventiquattresima compagnia, io addetto allo stato maggiore e ufficiale d'ordinanza del colonnello brigadiere, era già molto che ci conoscessimo di nome. Ma quella sera e quel viaggio sul calessino sgangherato, con quel cavallo sparuto, fecero quel che non portano di sovente anni ed anni di vicinanza, ed io terrò sempre quel viaggio come una delle più care memorie della mia vita militare.
Di alto sentire, di modi eletti, ricco d'ingegno, festevole o severo secondo il bisogno, e non mai oltre il bisogno, Ludovico di Pietramellara era un felicissimo impasto di tutti quei pregi che formano il vero gentiluomo.
Ed io gli ho voluto un gran bene, a quell'omettino svelto, dalle spalle quadre e dal largo torace, bianco pallido in viso, colle guance un po' sfatte, i lineamenti regolari e finamente modellati, gli occhi azzurrognoli, con un lieve accenno di borse, appiattati dietro le lenti del pince-nez, radi i capelli sulla fronte alta, i baffi ancora discretamente biondi e leggermente arruffati, la berretta piantata alla brava fin sulla nuca, il sorrisetto costante sulle labbra carnose e bellissime, che davano una singolare impronta di soavità, insieme cogli orecchi piccini e il puro ovale del mento, ad una faccia alquanto più lunga che larga.
Da San Pietro a Storo, con le debite fermate, ci fu tempo a ragionare di mille cose. Poi venne in campo la musica, e ognuno sa che due italiani, quando vien fuori la divina arte dei suoni, hanno il tema per un mondo di chiacchiere. E noi non chiacchierammo soltanto; cantammo, e il nostro spartito fu la Norma, quella sublime Norma che "vivrà quanto il mondo lontana." Specie quel tratto che corre da Vestone ad Indro, e che noi facemmo di notte, con un magnifico cielo azzurro stellato, ha udito tutte le cavatine, arie, duetti, terzetti, andanti, allegri e via discorrendo, del capolavoro di Vincenzo Bellini. Noi eravamo promiscuamente Norma, Adalgisa, Pollione, Oroveso, Flavio, Clotilde; il fiume Chiese, rumoreggiando lì presso, faceva la parte del coro.
E adesso, lettori miei, non istate a credere che io voglia condurvi di questo passo fino a Storo, per farvi assistere ai miei trionfi oratorii, che furono del resto tre fiaschi, poichè non salvarono nessuno dei miei clienti dal carcere. Mi è piaciuto di narrarvi questo episodio, per mostrarvi in che modo io stringessi amicizia con Ludovico di Pietramellara. Dopo di che, rifaccio speditamente la strada, e vi riconduco a Firenze, donde eravamo già. sulle mosse per andarcene a Roma. Se non ci siamo arrivati, sapete bene che non fu nostra la colpa.