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Anton Giulio Barrili
Con Garibaldi alle porte di Roma: 1867

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XI.

 

Un fraticello domenicano. I casi sacri di Fornonuovo. Da Fidene alla Cecchina.

 

Continuerò? La tentazione è forte; ma è pur grande la riluttanza. Nondimeno, ci sono ancora dei ricordi buoni: raccontiamo dunque, alla svelta.

Quel giorno, il 26 di ottobre, era stato speso nei pietosi uffici che vi ho detto e nelle cure del nostro collocamento alla cascina Villerma, buona e cara conoscenza del giorno avanti. Dormimmo là, occupando le poche camere, le scale, il fienile, la tettoia dei carri e via discorrendo. La mattina dopo, senza alcun merito mio, e senza gusto, vi prego di crederlo, ero chiamato come giudice al tribunal militare, improvvisato in Monterotondo. Si trattava di giudicare tre gendarmi pontificii, sfuggiti alla capitolazione, e per colpa loro; poichè, scambio di mettersi in riga cogli Antiboini, erano andati a rimpiattarsi in certe cantine, donde il popolo li aveva snidati. E c'era per giunta un fraticello domenicano, trovato nascosto anche lui, sebbene potesse, e con più ragione dei gendarmi, mettersi in mostra coi soldati, che lo avevano per cappellano militare. Che imprudenza era stata la sua! E serbava ancora un taccuino, nel quale aveva scritti giorno per giorno i suoi miti pensieri. C'erano invocazioni a Maria, abbastanza affettuose, per chiederle il trionfo della buona causa; ma c'erano anche delle impertinenze, che si possono dire da soldati, nella rabbia, ma che non si scrivono, a mente fredda, e anche meno da frati. S'intende che eravamo tutti briganti, per il bianco vestito annotatore; ed anche codardi. "Sono comparsi, - scriveva egli, - ma non osano accostarsi, i vili!" Dove avesse poi presa questa notizia, lo saprà lui. I vili di cui sopra, appena comparsi, avevano attaccato. Ma non ci fermiamo a piatire per queste bazzecole. C'era di peggio, per lui. Parecchi soldati nostri affermavano con giuramento di averlo veduto, la mattina della battaglia, affacciarsi ad una finestra del castello, puntar la carabina e sparare: cosa anche meno da frate; almeno secondo le idee moderne sulla soggetta materia.

Il tribunale era composto del colonnello Pianciani, presidente, di me, e del tenente Enrico Copello, giudici aggiunti; faceva da segretario il tenente Luigi Morandi, già noto all'Italia come gentile poeta, più tardi come prosatore valente e come maestro di umane lettere al giovane principe di Napoli.

Così, mentre i miei compagni lasciavano improvvisamente gli alloggi della cascina Villerma per scendere sulla linea della strada ferrata in attesa di proseguire verso Roma, noi eravamo occupati a ministrar la giustizia sommaria. Il tribunale fu umano; mandò in prigione i gendarmi e in prigione il frate: quest'ultimo senza darne sentenza, che, dopo le testimonianze gravissime, sarebbe stata dolorosa, e rimettendo il giovane domenicano alla clemenza di Garibaldi. Ciò non era secondo le norme del diritto, nè della procedura penale; ma contentava la nostra coscienza, e cui non piace la sputi. Garibaldi lo lasciò in carcere, per custodirlo contro le ire di molti; l'ultimo giorno delle nostre imprese sul territorio nemico, il fraticello fu rilasciato libero al confine, senz'altro danno che la paura. Non fu riconoscente, per altro; e me ne duole moltissimo, rispettando io i frati, non essendo stato il più tiepido dei giudici a favorirlo, e avendo ottenuto dall'ottimo presidente che perorasse quella stessa notte presso Garibaldi la causa del disgraziato. Egli scrisse, di fatti, un anno dopo, o giù di lì, una Mano di Dio negli ultimi avvenimenti, in due volumi, se ben ricordo, dicendo corna dei giudici. Quel piccolo martirio incruento gli sarà giovato, del resto; credo che oggi sia cardinale; certo, del suo casato, ce ne son due nel sacro Collegio.

Quella sera, mentre il Pianciani galoppava a Santa Colomba, dove Garibaldi aveva portato il suo quartier generale, io galoppavo in traccia dei miei compagni genovesi. Mi accolsero a festa, in un casotto di guardiani della strada ferrata; senza viveri al solito, ma con un fiasco di vin bianco, regalato dalla signora Mario, in compenso dell'averle trovato un ricovero per i cavalli della sua carrozza d'ambulanza.

La mattina del 28 eravamo in marcia da capo, e occupavamo la chiesetta di Fornonuovo. Visitando la sagrestia, trovammo paramenti sacerdotali, che riponemmo nei cassettoni, sotto la guardia dei nostri soldati. Ma c'era anche un astuccio di cuoio, con le api barberiniane impresse in oro; dentro l'astuccio un bel calice con la sua patena d'argento, in alcune parti dorato. Vasi sacri; che ne faremo noi?

- Ciccetta! - dice il maggiore al sottotenente Pozzo, un rosso simpatico, milite di tutte le guerre garibaldine, a cui il suo nome di Giovan Battista ha fruttato il vezzeggiativo genovese di Ciccetta. - Prendete questo astuccio, portatelo sulla collina, al Generale. Noi non vogliamo tenere in custodia argenterie. Non si sa mai; un giorno, qualche nemico pettegolo potrebbe gabellarci per ladri. -

Garibaldi aveva posto il suo mobile quartiere a Santa Colomba. Va il nostro Pozzo lassù, e ritorna a sera inoltrata, ancora col suo astuccio tra le mani. Il Generale non ha voluto ritenere il deposito; gli scopritori ne facciano quello che credono. A noi, per la ragione accennata dal maggiore, dava noia tenerlo in custodia. Che custodia, poi, in guerra, con tanti pencoli di smarrirlo, o di lasciarlo sul campo? Una mia idea, venuta lì per lì, piacque molto al maggiore.

- Domattina, se non si marcia al nemico, non possiamo fare una galoppata fino a Monterotondo? C'è lassù quel canonico Tolti, nella cui casa, ier l'altro, abbiamo mangiato, pagando la spesa, un pezzo di pan bigio e uno spicchio di lesso. Che ti pare? consegniamo il deposito a lui? -

Detto, fatto. All'alba del 29, saputo che si rimarrà tutta la giornata a Fornonuovo, inforchiamo i bucefali. Avevamo requisiti i due cavalli il giorno prima.

Quello del maggiore era discreto; il mio aveva una bella apparenza, e trottava anche benino; ma aveva lo spavento, e quel moto convulsivo che a quando a quando gli prendeva nei muscoli esteriori dello stinco e flessori del piede, era una morte per chi gli stava sopra e per chi gli camminava vicino. Ben me ne avvidi a Mentana, che fui costretto ad appiedarmi, per non isfondare io stesso la mia compagnia con quella povera brenna arrembata, che faceva un passo avanti e due indietro.

Giungiamo a Monterotondo, col nostro involtino penzoloni dal pomo della sella, e smontiamo dal canonico Totti; un vecchio di settantasei anni, alto alto, un po' curvo nelle spalle e mezzo cieco. Ci fa buona accoglienza e ci domanda, non senza un po' d'ironia interiore, se siamo già di ritorno dalla nostra marcia in avanti.

- No, reverendo; fermi soltanto per poche ore, ma si prenderà la rincorsa. Eccole qua la ragione della nostra visita: abbiamo trovato questo negozio nella sagrestia della chiesetta di Fornonuovo. Sia che entriamo a Roma noi, sia che usciamo dal cosidetto patrimonio di San Pietro, com'Ella sicuramente ci augura, si celebreranno ancora delle messe a Fornonuovo ed altrove. Prenda questi vasi sacri in regalo, in consegna, come le parrà meglio; solo per nostra soddisfazione ci rilasci due righe di ricevuta. -

Il canonico si profonde in ringraziamenti e in elogi; vuole da noi, per ricordo, un atto di consegna; per contro ci fa un atto di ricevimento, che il maggiore intasca e conserva. Noi si ritorna al nostro campo, dopo aver mangiato (e questo senza pagare, confessiamolo) un tozzo di pane e un mazzo di ravanelli, conditi con olio, sale e pepe; l'unica grazia di Dio che avesse allora in cucina il nostro vecchio ospite. Oh, non fo per dire, ma noi, nell'Agro romano, si è vissuti nell'abbondanza. Cincinnato e Fabrizio possono andarsi a riporre.

Quella sera si ripartì con tutto il battaglione dalla povera sede di Fornonuovo, per andare alla poverissima della Marcigliana. Dico poverissima, perchè non ci trovammo niente, neanche una chiesetta da starci al riparo; per giunta, nella notte, senza fuochi, riposammo sotto una pioggia fitta, non avendo che il cappello tirato sulla faccia per coprirci i connotati, e le braccia incrocicchiate per difenderci il petto. La mattina del 30 avemmo lo spettacolo di un albero che pareva tutto carico di foglie, e ad un tratto le perdette tutte quante, sparpagliate in tutte le direzioni, senza che ci avesse lavorato il vento. Non erano foglie, ma corvi, che c'erano stati a dormire, e andavano a cercare la colazione. Beati loro! noi l'aspettammo fino a mezzogiorno, e fu una distribuzione di pan bigio, venuto dalla stazione di Monterotondo; magnifico, incomparabil presente del comitato di Terni.

La sera del 30 siamo in marcia da capo, e giunti a Castel Giubileo abbiamo l'ordine di fermarci a bivacco. Parecchie squadre, comandate, vanno attorno per legna, di cui fanno cataste sulla fronte del campo, dalla parte di Roma. L'eterna città deve scorgere i nostri fuochi, allineati a sette chilometri dalle sue mura. Garibaldi vede il suo piccolo esercito dall'alto di una eminenza su cui è murato un edificio nerastro che ha per l'appunto il nome di Castel Giubileo. La guida del Baedeker dice che la fabbrica si denomina da una famiglia Giubileo; ma in pari tempo nota che il castello fu edificato nel 1300 da Bonifazio VIII. Ecco due notizie diverse e mal maritate da un compilatore frettoloso. Se è il papa Caetani che ha fatto edificare il castello nel 1300, è chiaro che il nome di Giubileo deriva per l'appunto dalla grande solennità cattolica apostolica e romana di quell'anno, e la famiglia Giubileo non ci ha niente a vedere. La eminenza su cui il castello è murato era l'acropoli dell'antica Fidene; piccola acropoli di ottantun metro d'altezza, per una piccola città di poche migliaia d'abitanti.

Pensando che avrei dormito poco, sul ciglio della strada, e non avendo nessuno di noi un pizzico di tabacco per caricare la pipa del maggiore, la famosa pipa che faceva il giro della brigata come la coppa convivale degli antichi, feci la salita del castello, per andare a chiedere un po' di limosina agli amici del quartiere generale. Garibaldi, fiore di cortesia, saputo il bisogno mio, volle regalarmi addirittura un mazzo di sigari di Nizza; i suoi prediletti, per ragione della terra natale, io credo, non già per la intima bontà della concia; sigari biondi chiari, con un sapore di foglia di castagno, a cui non seppi avvezzarmi. Gli amici li gustarono meglio: tanto che me li presero tutti. Ma io non portavo solamente sigari, da castel Giubileo; portavo anche notizie e induzioni. Due guide borghesi erano annunziate e introdotte presso il generale, mentre io stavo lassù. Non erano semplici guide, erano amici travestiti; uno di essi, il maggiore Guerzoni. Venivano allora da Roma, donde avevano potuto uscire con un pretesto, in arnese da contadini. Recavano l'annunzio che tutto era pronto per una insurrezione in città; ma che, per incominciare, si voleva aver Garibaldi alle porte. Era facile d'indovinare la risposta del generale, e facile d'intendere che quella notte si sarebbe dormito poco.

L'ordine di marcia fu dato alle quattro del mattino. Splendevano ancora i nostri fuochi sulla fronte del campo, e il piccolo esercito, precedendolo i carabinieri genovesi, era in marcia per certe colline sulla sinistra della strada maestra. Quante colline, o Dei immortali! Pareva che non volessero finir mai. E tutte simili, ancora; basse, lunghe, ignude, frammezzate da insenature, frangiate qua e là da un po' di macchia nana, il cui verde cupo contrastava col verde tenero delle praterie, che in quella penombra s'intravvedeva tinto di brina. Un odor di mentastro, abbastanza gradevole, ci giungeva alle nari, a mano a mano (quasi sarebbe il caso di dire a piede a piede) che noi calpestavamo l'erba di quei prati; i quali non volevano finir mai. Ne abbiamo misurati sei chilometri almeno.

Cauti e spediti ad un tempo, silenziosi, con avanguardie e fiancheggiatori, osservando tutte le insenature, esplorando tutte le piccole macchie, procedono i nostri due battaglioni. Sempre più volgendo a sinistra, verso le otto del mattino vediamo il primo segno d'uomini in quella solitudine; una casa sopra un rialzo di terreno e un muro di cinta, che indica una fattoria. È il casale, anzi l'osteria della Cecchina. C'è un oste, ma senza vino, bensì con un pozzo in mezzo al cortile, e perciò con dell'acqua a volontà; un'acqua che egli ci offre, o ci lascia prendere, rompendola con una filza di sagrati. Par di sentire il locandiere di Rieti.

Riposiamo un tratto, bevendo acqua, e ci frughiamo nelle tasche per ritrovare un'ultima crosta di pane. Improvvisamente, si dà il comando di rimetterci in marcia. Si sono sentiti degli spari, laggiù a mezzogiorno. Corriamo uscendo dal cortile, per una carraia che va verso Roma. Che cos'era avvenuto? Garibaldi, uso a muover sempre alla testa delle proprie avanguardie, aveva incontrato laggiù, a Casal de' Pazzi, una vedetta nemica; quattro o cinque cavalieri pontificii, che avevano scaricate contro di lui le loro pistole d'arcione, fuggendo tosto a galoppo, a carriera. Egli era rimasto illeso; ferito appena, ma leggermente, uno de' suoi ufficiali.

Ci avviciniamo anche noi a Casal de' Pazzi, dove abbiamo queste notizie. La fabbrica non è di casale che nella apparente rusticità dell'intonaco: nel complesso della membratura è un palazzo, e ci pare un castello murato tra il cinquecento e il seicento; rammodernato nell'ottocento, s'intende. Sarà quel che vorrà essere; io, curioso della campagna e della prospettiva, non sono entrato a vederlo. Mi par di ricordare che fosse un'abitazione abbastanza signorile; rammento di aver letto nei Miei ricordi di Massimo d'Azeglio che così l'avesse ridotta un cardinal Morozzo, suo zio, che non pare ne fosse lodato come savio nella scelta del luogo. Sicuramente c'erano parecchie comodità di cucina e buone provviste di dispensa, forse non potute portar via, per la nostra repentina apparizione. Tutte queste cose le ritrovarono alcuni dei nostri, che sotto la direzione dell'amico Ciccetta impastarono farina a gran furia e scaldarono un forno, per preparare il pane ai compagni.

Questo Casal de' Pazzi è piantato sull'estremo lembo di una collina lunga, che va con dolce declivio a finire sulla riva destra dell'Aniene, di contro all'ingresso del ponte Nomentano. La collina è fiancheggiata da due insenature; una a destra, assai poco sensibile, che la collega ad altre colline; l'altra a sinistra, che si avvalla alquanto di più, ricevendo le acque di un rigagnolo, e dando campo alla via Nomentana, che muove di lì risalendo a tramontana, verso Monticelli, Sant'Angelo e Palombara. Ma non ci occupiamo delle cose lontane; siamo sulla collina pianeggiante, solcata per lungo dalla carraia che congiunge l'osteria della Cecchina a Casal de' Pazzi. La carraia è orlata, sul margine di sinistra, da una rada piantata di pini, ancor giovani; a destra da motte di terra, da zolle, che fanno un po' di ciglione. I nostri uomini, per comando del Generale, si pongono a sedere lungo il ciglione, e ne rimangono coperti benissimo; riposando possono mangiare il loro pane, se ne hanno, e una fetta di carne che è stata loro distribuita poc'anzi. S'intende che è carne cruda, e debbono arrostirsela lì per lì. Le legna non mancano; ci sono le staccionate dei campi, per darne al bisogno, e più in là.

 

 

 




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